Otto domande sul lavoro dell’editor – Giuseppe Catozzella

da | Apr 28, 2014 | Senza categoria

Continua la serie delle interviste agli editor italiani.
Abbiamo sottoposto il questionario a Giuseppe Catozzella, editor di Feltrinelli. Hanno già risposto alle nostre otto domande: Ginevra Bompiani, Carlo Carabba, Stefano Izzo, Chiara Valerio, Gabriele Dadati, Giulia Ichino, Andrea Gentile, Matteo Alfonsi, Nicola Lagioia, Federica Manzon, Elisabetta Migliavada, Jacopo De Michelis, Francesca Chiappa.

1) Quali sono le caratteristiche principali che un libro deve avere per colpire la sua attenzione?
Non esistono caratteristiche predefinite che un testo possa possedere per colpire l’interesse e l’attenzione e mettere in moto quella magia (è tutta qui la questione, la magia, qualcosa che non si può toccare, modificare né definire diversamente) che è la sospensione dell’incredulità. Un testo o ti prende o non ti prende. Ci sono testi che ti prendono per un po’ e poi ti lasciano libero di non credere loro, e altri che ti prendono e vorresti che non finissero mai. Questi sono quelli buoni. Quelli che in sé contengono quella magia. Non ci sono regole o standard: tutto accade “dopo”. Se ci fossero “tipi” o caratteristiche precise l’editoria sarebbe statistica. E invece è lavoro, artigianato, principalmente un continuo esercizio di sensibilità.

2) Se e in che modo è cambiato il suo modo di leggere negli ultimi anni?
È cambiato nel senso che è diventato vigile, attentissimo. Leggendo per lavoro tutto il giorno o quasi il rischio è che la lettura diventi mestiere. Ma se così fosse ci si potrebbe allontanare dall’esercizio di sensibilità e allontanarsi dalla possibile magia. Cosa che sarebbe l’errore più grande perché se un criterio c’è, è quello dell’abbandono. Ho imparato la lettura selettiva (si sviluppa un’abilità rabdomantica all’interno dei testi) e una sorta di lettura “geografica” all’interno del mondo di un testo. Ma quello che più ho sviluppato è un’accesa sensibilità, appunto, per la lingua e il modo in cui si stende all’interno di una storia (ogni parola è parte del tutto del testo e in ogni frase c’è più o meno tutto).

3) Quale pensa che sia il ruolo di un editor oggi? Crede che debba influenzare le scelte dell’autore fin dal concepimento dell’opera?
Non credo che l’editor debba o possa in alcun modo influenzare l’autore nel lavoro che gli compete: creare una materia narrativa all’interno del suo universo di significati e di vita, e quindi crearla in una e una sola forma possibile. Semmai l’editor, come interlocutore o amico o appartenente alla medesima o a una attigua comunità di significati, con l’autore prima durante e dopo parla, discute, ragiona. Io credo che il lavoro dell’editor sia quello di aiutare l’autore a fare dal suo testo quello che vorrebbe che fosse. In ogni caso due teste e due cuori sono meglio di una: sempre, in questo mestiere. E anche tutte le fasi successive di lavorazione del testo – quando questo entra in redazione, o quando lo si comunica agli altri comparti della casa editrice, commerciale, marketing e comunicazione – sono fondamentali perché aumentano le teste e i cuori che hanno a che fare con quella determinata storia. La casa editrice nel suo insieme concerta affinché il testo dell’autore attinga al massimo delle sue potenzialità.

4) Ci parli della sua formazione culturale, il suo percorso fra gli autori e le letture.
Ho saputo che da grande avrei lavorato con le parole e le storie a dodici anni, leggendo Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse. L’ho visto chiaro, non c’erano dubbi. Quel libro (è quella stessa magia, appunto) quel giorno me l’ha mostrato. Da allora la mia vita è sempre stata all’interno dei testi e delle parole. C’è una specie di curvatura che porta a vedere il mondo e la vita come rete di storie e trame (che è poi quello che è, se ce lo rappresentiamo). Quindi si può decidere di respirare a pieni polmoni, e gettarsi dentro la rete senza pensare a niente. Oppure, ogni tanto e le due cose vanno sempre insieme, si può vedere la rete. Quello è l’esercizio di sensibilità. Ho studiato filosofia alla Statale di Milano e mi sono laureato su Nietzsche. Poi ho fatto un master e poi sono partito per l’Australia, dove sono rimasto per più di un anno e sono tornato molte volte per cinque anni. Questo allontanamento per me è stato fondamentale. Mi ha fatto capire chi ero e cos’era il posto da cui provenivo. Le storie sono rimaste, intoccate, lì dove sono sempre state.

5) A chi si ispira nel suo lavoro sui testi, ha un modello di riferimento? È cambiato nel corso del tempo?
A rischio di suonare pedante devo ripetermi: non ci sono modelli. Ogni testo è un modello a sé, se è un buon testo. Questo significa che ogni testo prevede un lavoro specifico e adatto soltanto a quel testo. In questo mestiere non ci sono norme, regole. E meno ce ne sono e più funziona. Tentare di normalizzarlo lo asfissia, gli toglie aria. E le storie di una cosa soltanto hanno bisogno, di aria. Credo si continui a immergersi nelle storie perché le storie fanno respirare meglio.

6) Qual è la parte più difficile del suo lavoro? E la più frustrante?
Quando per troppo tempo non si trovano buoni testi, testi e storie che fanno innamorare. La parte più frustrante è quando un testo e una storia di cui ti eri innamorato non riesce a farsi sentire, per mille ragioni diverse. E questa parte purtroppo rappresenta la maggioranza dei casi.

7) Quali autori del passato ha amato? Quali pensa che oggi incontrerebbero difficoltà a essere pubblicati, e perché?
Ne ho amati moltissimi. L’Ottocento e il Novecento russo. L’Ottocento tedesco. Il Seicento francese. Il Novecento italiano. Il Cinquecento inglese. Il Novecento americano. E gli autori della Grecia antica, Platone, Euripide, Eschilo, Aristofane. E poi i filosofi, quelli meno sistematici, dalla Sofistica fino a metà del Ventesimo secolo. Su tutti, l’unico che non ha scritto niente (ma di cui tutti parlano): Socrate. I filosofi sono sommi narratori. Le loro sono le Narrazioni totali, tracciano i confini delle narrazioni. Quasi tutti oggi farebbero fatica a essere pubblicati. Perché? Perché non si parla più così, il mondo e la vita hanno preso altri modi di sbrogliarsi nelle storie. La lingua e il nostro modo di stare al mondo sono viventi: mutano. Per questo ogni chiacchiera relativa alla presunta purezza della lingua e di un certo modo di raccontare le storie (letteratura alta, che sarebbe il canone) mi fanno ridere: quale canone, di quale tempo parli? La letteratura dialoga con il futuro non col passato.

8) In che modo è cambiato il modo di leggere? Secondo lei cosa cercano oggi i lettori in un libro?
Cambia la lingua e il modo in cui rappresentiamo le nostre vite dentro le storie (e quindi ovviamente il modo di raccontarle), ma non cambia la questione di fondo: nelle storie c’è l’aria, c’è il nostro ossigeno. Senza storie saremmo macchine, e non siamo macchine, quindi delle storie abbiamo bisogno. Le storie sono il modo in cui stiamo al mondo, il modo in cui dividiamo la nostra vita in prima, adesso e poi. Quindi i lettori cercano e cercheranno sempre la stessa cosa in una storia: aria. Cioè bellezza.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).