Otto domande sul lavoro dell’editor – Carlo Carabba

da | Gen 31, 2014 | Senza categoria

Prosegue la serie delle interviste di Nuovi Argomenti agli editor italiani. Stavolta risponde alle nostre domande, offrendoci un punto di vista controcorrente, Carlo Carabba, editor della narrativa italiana e straniera Mondadori, nonché coordinatore della nostra rivista.

1) Quali sono le caratteristiche principali che un libro deve avere per colpire la sua attenzione?
3) Quale pensa che sia il ruolo di un editor oggi? Crede che debba influenzare le scelte dell¹autore fin dal concepimento dell’opera?
5) A chi si ispira nel suo lavoro sui testi, ha un modello di riferimento? È cambiato nel corso del tempo?
La formulazione di queste domande mi pare metta in luce una certa confusione sulla figura dell’editor, del quale da una parte si sopravvaluta il ruolo, quasi attribuendogli funzione demiurgica, e verso il quale dall’altra, proprio come conseguenza di questa attribuzione, si rivolge uno sguardo carico di sospetto e malcelato disprezzo.
Inoltre mi pare evidente che il questionario si rivolga solo e soltanto a un editor di narrativa, dimenticando che esistono anche editor di saggistica, di scolastica e perfino di poesia.
Intanto mi pare opportuno partire da un chiarimento iniziale. Sotto il nome di editor vengono indicate due professionalità tutto sommato diverse. La prima consiste nello scegliere i libri che verranno pubblicati. La seconda nel sottoporre quei libri a un lavoro di revisione più o meno radicale, che può andare dalla richiesta di una riscrittura quasi integrale di parti del libro a quella di togliere o aggiungere una virgola. Non è detto che queste funzioni siano svolte dalla stessa persona.
La prima domanda si riferisce all’editor che sceglie i libri, la quinta a quello che lavora sul testo, la prima parte della terza forse doveva essere la prima domanda, la seconda parte della terza è tendenziosissima.
Quindi invece di “ruolo”, termine ambiguo che sottintende un giudizio etico, mi pare più opportuno parlare di compito, di lavoro. Se il compito cui l’editor è chiamato consiste nello scegliere testi il primo problema che si deve porre è quello della linea editoriale della sua casa editrice.
Esistono ottime case editrici specializzate nel “genere” (Nord, Fanucci), per le quali non avrebbe senso pubblicare libri non di genere. Un editor che acquisisse romanzi non di genere, per quanto belli, per una casa editrice di questo tipo farebbe male il suo lavoro.
Una casa editrice generalista invece acquisisce romanzi molto diversi fra loro. E anche qua bisogna vedere se all’editor è richiesto di concentrarsi su una singola categoria (es. “gialli e noir”) o se suo compito è spaziare dalla narrativa sperimentale all’intrattenimento. In questo caso credo che l’unico criterio cui può affidarsi è la ricerca dell’eccellenza, cercare
di far sì che il lettore di fantasy si trovi i fantasy migliori, il lettore di chick-lit le migliori chick-lit, il lettore di “literary fiction” la migliore “literary fiction” possibile.
Pensare che esistano criteri definibili, algoritmi codificati per la scelta è assurdo, così come era assurdo pensare che scrivere romanzi senza una certa vocale desse all’opera un pregio che andava al di là del virtuosismo enigmistico.
Quanto al discorso sul lavoro sui testi, credo fermamente che compito dell’editor sia mai demiurgico e sempre maieutico, aiutare l’autore (continuando a muoverci in un lessico platonico) a raggiungere il romanzo ideale che vuole scrivere, e che, per le oscurità del nostro mondo oppresso dalla materia e dalle contingenze, non ha potuto raggiungere. Ma l’editor deve sapere anche che il mondo delle idee è precluso sia a lui che all’autore e che, come si dice di certi visi, spesso i difetti accrescono la bellezza, non la minano.

2) Se e in che modo è cambiato il suo modo di leggere negli ultimi anni?
Negli ultimi anni è molto cambiato nel senso che prima non facevo l’editor, ora faccio l’editor. E ovviamente leggere chiedendoti se vale la pena pubblicare ciò che stai leggendo è diverso da leggerlo per puro diletto. Il signor de Lapalisse sarebbe fiero di me.

4) Ci parli della sua formazione culturale, il suo percorso fra gli autori e le letture.
Vengo da una famiglia di intellettuali. Mi hanno fatto imparare a leggere prima di iscrivermi alla scuola materna (non è un’iperbole, purtroppo e per fortuna). Il mio rapporto con la lettura è condizionato da questa circostanza ambientale, da questa influenza che non ho rifiutato, così come molti figli di sportivi restano nel mondo dello sport (addirittura lo stesso sport dei genitori). A livello professionale posso dire che la mia vita nell’editoria inizia presto e un po’ per caso. Avevo mandato delle poesie a Enzo Siciliano, a lui erano piaciute e aveva deciso di pubblicarne due su Nuovi Argomenti. Abbiamo parlato, mi ha detto che dalla Puglia era arrivato un giovane narratore di grande talento, Mario Desiati, che si sarebbe occupato lui della rivista e aveva bisogno di una mano. Io gliel’ho data e è iniziato così il mio rapporto con lui e con la Mondadori, un rapporto ormai quasi decennale, costellato delle figure decisive per la mia formazione “da editor”, che fossero maestri (Antonio Franchini, Antonio Riccardi) o miei coetanei (in ordine di apparizione lo stesso Desiati, Federica Manzon, Giulia Ichino). Intanto parallelamente mi dedicavo a quello che credevo sarebbe stato il mio lavoro, la carriera accademica. All’università ho studiato filosofia. C’è un verso di una canzone di De Andrè che dice “Per stupire mezz’ora basta un libro di storia, io provai a imparare la Treccani a memoria” (è l’album da “Spoon River”). Ecco, io avevo più o meno lo stesso approccio coi testi di esame. Uno studio matto disperatissimo e un po’ insensato, frutto più che altro di nevrosi e tendenze compulsive. Comunque, mentre continuavo con Nuovi Argomenti, ho iniziato un dottorato in Storia della filosofia, facevo “l’assistente”, tenevo lezione sul manuale di Storia della filosofia moderna, facevo gli esami (nel senso di quello che fa le domande e viene sbeffeggiato e infamato a esame concluso). Intanto Mario Desiati è andato a Fandango, io ho preso il suo posto a Nuovi Argomenti, è arrivata a Roma Federica Manzon, io ho iniziato a collaborare con lei, via via sempre di più, poi lei è tornata a Milano, e una mattina di sole, a Villa Borghese, Giulia Ichino mi ha chiesto se volevo diventare il suo “junior editor” o qualcosa del genere. E ho detto sì. Abbandonando per sempre la carriera accademica.

6) Qual è la parte più difficile del suo lavoro? E la più frustrante?
La parte più difficile è anche la più frustrante. Sperare che il libro che si sceglie di pubblicare abbia successo. Il successo (di critica o di pubblico o di entrambi) segue, come è noto, vie misteriose, che a posteriori si possono provare a ricostruire ma che, come tutte le cose che si possono solo ricostruire ex-post, restano comunque in parte imperscrutabili. Per esempio “Stoner” era un capolavoro anche prima della sua riscoperta. Era troppo avanti sui tempi? Apparentemente no, non pare si possa dire. Era troppo “difficile” per il pubblico? Indubbiamente no, come il suo successo attuale (di critica e di pubblico) dimostra. E quindi? Boh. Nel celebratissimo documentario “Searching for Sugar Man” si racconta la storia di un cantante folk che, ignorato ovunque nonostante un lancio importante, diventa famosissimo in Sud Africa dove vende milioni di dischi e dove è opinione comune (essendo il Sudafrica degli anni ’70 molto isolato dal resto del mondo) che sia conosciuto e importante quanto Bob Dylan. Non è un apologo meraviglioso?

7) Quali autori del passato ha amato? Quali pensa che oggi incontrerebbero difficoltà a essere pubblicati, e perché?
La seconda parte della domanda è bislacca, e presuppone che i testi non abbiano una dimensione storica.
Parto da una considerazione preliminare. Come numerosi operatori non mancano di osservare con allarmata frequenza non si è mai pubblicato tanto quanto oggi (e si invoca, anche in editoria, una decrescita felice). Per cui la risposta sulle difficoltà a pubblicare è “Nessuna difficoltà”. Per un autore di narrativa pubblicare oggi è abbastanza facile. Il problema, semmai, viene dopo, in un contesto effettivamente molto saturo. Certo pubblicare con Adelphi non è la stessa cosa di un selfpublishing, ma ci sono libri di selfpublishing che vengono venduti, letti, recensiti, assai più di certi libri Adelphi, quindi non si possono stabilire costanti universali.
Detto questo è assurdo l’esercizio di immaginare romanzi di altre epoche nel contesto attuale. Specie romanzi che hanno segnato un’epoca e cambiato il corso della storia della letteratura. Prendiamo per esempio l’Ulisse di Joyce. Se oggi mi arrivasse l’Ulisse di Joyce probabilmente chiamerei l’autore è gli direi “Guarda, non è male, ma l’ha già fatto Joyce un secolo fa. Imitarlo così smaccatamente oggi bè, mi lascia freddo.” Ovviamente se ci trovassimo in un universo in cui Joyce è vivo oggi e non fu vivo prima e l’Ulisse non è mai stato pubblicato, bè, che dire, il Novecento letterario sarebbe stato totalmente altro da quello che è stato, tanto che è impossibile immaginarne il corso, e con ogni probabilità i miei gusti sarebbero diversi, i gusti dell’umanità sarebbero diversi, lei non avrebbe fatto queste domande e io non sarei qui a rispondere a questo questionario.

8) In che modo è cambiato il modo di leggere? Secondo lei cosa cercano oggi i lettori in un libro?
I lettori come “un tutto omogeneo” non esistono. Non tutti gli esseri umani cercano sempre la stessa cosa. Si parla di individui diversi, con sensibilità diverse e gusti diversi. Ma anche concentrandosi su un’unica persona, quell’unica persona cercherà cose diverse a seconda dell’umore, delle contingenze della vita (è in vacanza o al lavoro), del periodo particolare che sta vivendo e così via. Un lettore che acquista le “Cinquanta sfumature” cerca qualcosa di diverso dal lettore che acquista le “Metamorfosi” di Kafka, eppure sono certo che esitano centinaia di migliaia (forse milioni) di individui che hanno acquistato entrambi. Per cui alla domanda “cosa cerca il lettore?” si può rispondere soltanto “Un libro che gli piaccia”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).