Italo Testa legge “La divisione della gioia” – I poeti leggono se stessi /14

da | Apr 29, 2016

LA DIVISIONE DELLA GIOIA

I. un luogo qualunque

o sulle poltrone in prima fila,
davanti a un sipario grigio
segui in allerta la scena vuota,
come una macchia nera in un quadro
lo spazio deserto ti incornicia:

è stato sulle scale, il gradino
lucidato dai passi anonimi,
l’ombra obliqua che taglia lo stipite:

oppure è quando senza preavviso
il chiavistello con uno scatto
scuote l’uomo che dietro la porta
a torso nudo liscia il lenzuolo,

quando la sedia accostata al muro
ha mosso un’ombra dentro la stanza
e i panni inerti sul ripiano
hanno mandato un lampo nel buio:

o è stato mentre risalivi
fino al nostro primo appartamento,
la mano appoggiata al corrimano,

appena il vento ha mosso le tende
contro le assi del pavimento
e hai visto le crepe nella brocca,
ti sei voltata contro il bianco
squarcio del lino sulla parete:

o è stata la mia sete a disfarti,
lo sguardo osceno che getto al mondo
sulle braccia sode di una donna
in vestaglia, di primo mattino,
con la brama del volto coperto,
del taglio aperto lungo le natiche,

e ogni volta che le spalle forti,
ossute, come un quadrante bianco
tornavano a imprigionarmi
nel tempo del corpo sconosciuto,
in un interno spoglio e taciuto:

o è stato in una casa a due piani
sopra la croce di Sant’Andrea,
mentre anch’io nella marea
del desiderio cadevo vinto,
ansimando per la prima volta
preso tra i rami del suo ailanto,

o quando da dentro chiudevamo
le tende, a telefono spento
per sentire sul binario il treno,
senza più un gesto o un pensiero vero,
se da allora il passaggio è precluso
e non posso tornare a ciò che ero:

ma forse anch’io un giorno ho pensato
presto le macchine partiranno,
la casa sarà per noi sbarrata
e io sotto un lampione astioso
sfoglierò altre pagine, altri libri,

o camminerò lungo un parco
e nemmeno la notte potrà
nascondermi, se guarderai sotto
le tue finestre sulla panchina,

o se appoggiata a uno schienale,
nuda, alle undici di mattina
ti toccherai furtiva, e senza
più ben sapere chi siamo stati,
quando la lampada ci cadeva
a lato, e il letto si spostava
dal muro, e l’acqua non bastava:

così, se tutte le cose restano
su se stesse, come le colonne
contente di sopportare il peso,
di opporsi alla gravità che incombe
dalle architravi, dai porticati,

o i ciottoli sparsi sulle piazze,
i coppi scuri, incatramati
tra i lucernai aperti ai venti,
i fori da cui la luce piove,

e poi le griglie sui marciapiedi
impassibili a prender nota
della curvatura delle gambe,
del lino che corre tra le cosce,

come tutta stia nel suo contegno,
e accolga indifferente la luce
nella presa rapace dell’ombra
che cade sulle facciate calme,
sull’intonaco che irride i nostri
sforzi di camminare eretti,
restare fermi a un davanzale,

o i tentativi di imitare
la fissità del cielo, di statue
mute che si tengono i gomiti
nell’aria domenicale, oppure
sotto due fila di luci in fuga
posano gli occhi su una tazza
con i polsi, le labbra serrate,
le dita richiuse con fermezza:

anche così si annega l’ansia
nello specchio marmoreo di un tavolo,
anche quando la vita si piega
tra le imposte, sull’impiantito
verde, o dietro la ghigliottina
che separa il tempo dalla stanza:

nemmeno così sarà redento
questo agitarsi, questo andare
esposti a ogni buffo di vento,

o nella luce artificiale
di un neon credere che la notte
non sia notte, il verde non scintilli
immune da ogni nostro sguardo,
le merci esposte nel silenzio
di una vetrina siano lo sfondo
del nostro tranquillo sovrastare,
del dominio saldo della specie:

e quando nelle insegne luminose
che ritmano i grani dell’asfalto
hai visto il segno certo, il richiamo
ribattuto da ogni nostro passo,

o in una vetrina, controluce
hai scorto sul ripiano le pose,
le ossa spigolose del suo corpo
segnarti senza più un riparo,

come il giorno che stesa sul letto
ti sei girata, tranquilla, e hai visto
le grate che spartivano il vetro,
e alzandoti di scatto hai detto
che non sarebbe successo niente,
che tutto era ancora intatto
e mentre ti guardavo in silenzio
sei sparita nell’angolo cieco:

allora ho visto che nulla torna,
che la fragilità ci insidia
dall’interno, dentro le giunture,
s’insinua nelle vene, riveste
la piega opaca dei discorsi,

allora, chiamandoti in disparte
a fianco del letto avrei atteso,
la pelle a toccare il marmo freddo,
che tutto fosse tornato a posto,
il braccio nascosto tra le gambe,
la luce sulle mie cosce nude,
la mano a coprirti il pube:

***

Il 7 agosto 2004, con in mano un taccuino verde – un monocromo pigna – sto in piedi su un prato, di fronte il Tamigi, a sinistra il Millennium Bridge, alle spalle la Tate Modern. Sono passate circa tre ore, ho scritto più di trecento versi a penna. Nel gennaio 2010, in un giorno imprecisato, sono a Milano, sul lato di piazza Duomo adiacente all’Arengario, sto in piedi sul sagrato e tengo in mano un sottile taccuino di carta riciclata, color panna. Ho scritto ininterrottamente per circa due ore quasi trecento versi a matita.

Con poche aggiunte e alcune revisioni, i versi del 2004 e del 2010 andranno a costituire rispettivamente la prima e la quarta sequenza – “un luogo qualunque”, “in una strana luce” – e la seconda e la terza sequenza – “ogni cosa”, “questi giorni” – del long poem che rappresenta l’anta centrale de La divisione della gioia e dà il titolo all’intero libro.

Il singolo testo più lungo che abbia composto sino ad ora è stato scritto in un periodo estremamente concentrato, proporzionalmente la poesia che mi ha richiesto meno tempo in prima stesura. Da qui devo partire ogni volta che cerco di renderne conto a me stesso e agli altri.  Da come sia stata la disgiunzione del primo verso, “o sulle poltrone in prima fila”, a generare a cascata e in modo non pianificato la trama decasillabica che fa da argine al continuum metrico che avrebbe costituito l’ossatura del poema.

Non voglio con questo suggerire che La divisione della gioia sia stata scritta sotto dettatura degli alieni, come avrebbe potuto pensare Jack Spicer. Ma l’esperienza di scrittura che ne ha accompagnato la genesi mi ha fatto spesso pensare all’idea che la poesia sia un’interferenza. Il lavoro preparatorio, l’apprendistato, l’affinamento tecnico dei mezzi, la volontà d’espressione, e la pulizia dello sguardo, altro non valgono che ad acuire il nostro apparato ricettivo, predisponendolo a captare un’onda linguistica, ad attendere una pluralità di voci.

Né la velocità estrema d’esecuzione contrasta con la dimensione progettuale della scrittura, se captare un’interferenza è abbandonarsi a un ritmo liberatorio che dia forma e struttura ad un preconscio linguistico. Dopotutto, un’intuizione non è altro che una forma estremamente condensata di pensiero che si emancipa dalla propria individualità e si lascia andare, esponendosi senza esitazione. Ed è soprattutto una cellula ritmica il nucleo generativo de La divisione della gioia, il veicolo che ne ha messo in moto e accelerato il meccanismo, trasportando e organizzando metricamente una serie di immagini, voci, pensieri, luoghi e situazioni che in questo processo avrebbero mostrato di non appartenermi più, di esser stati miei perché di chiunque.

Ho scelto in seguito di intitolare la sequenza d’apertura “un luogo qualunque” dopo aver constatato la ricorrenza di questa e analoghe espressioni nel poema. Negli ultimi versi della seconda parte, intitolata “ogni cosa”, si parla ad esempio di “un giorno qualunque”.  Mi sono accorto che ciò ha a che fare anche con la forma circolare del testo, che non ha una direzione lineare di sviluppo, e potrebbe iniziare da qualsiasi punto, in un qualsiasi giorno.  E’ la trama di un tessuto discontinuo, dell’esperienza come qualcosa di continuamente interrotto e anaforicamente ripreso, della soluzione di continuità che accomuna le vite individuali – questa lacerazione condivisa.

Qui c’è effettivamente un’esperienza qualunque. Il qualunque giorno, e luogo, non però nel senso della fungibilità, ma perché chiunque deve poterli attraversare, accedervi da qualsiasi punto. L’autore, e chi dice ‘io’ nel testo, non dovrebbero fare ostruzione.  Sebbene siano nominati un ‘io’ e un ‘tu’, il poema tende così ad assumere la forma di un canto anonimo, di una voce che è di tutti e di nessuno. Ciò non toglie il carattere individuale delle figure e voci che compaiono, ma non si tratta qui né soltanto di individui particolari, né di individui generici, senza note caratteristiche.

Non è escluso che questo abbia qualcosa a che fare con quanto Luigi Ballerini mi ha fatto osservare in un’occasione, sostenendo che La divisione della gioia avrebbe la forma dell’epos, di un’epica erotica che intreccia figure di fusione e abbandono, inganno e riconoscimento. Per quanto vi sia una cornice quasi narrativa, essa non è unitaria e temporalmente lineare, e neppure centrata sull’unità biografica, sulla continuità di una sostanza individuale.  In prima battuta si può leggere La divisione della gioia anche in questo senso. Ma se ci si addentra nelle sue oscillazioni sintattiche, nelle biforcazioni disgiuntive, vi è la possibilità di impersonare La divisione della gioia in forma plurale.  Una porta girevole, che si apre in molteplici direzioni. Questo elemento rimanda a una struttura quasi teatrale. Le prospettive di prima e seconda persona da cui muove l’incipit delle quattro sequenze non sono fisse, ma variamente rimodulabili, anche nello scambio dei generi, e riprese ora in un ‘noi’ duale, ora in un ‘noi’ impersonale, una sorta di coro.  E’ così una varietà di voci a manifestarsi,  ove le linee narrative collegabili a due nuclei biografici si distaccano dal fondo del paesaggio, entrano via via in un campo di interferenze, diffratte in tante possibili biografie, liberate da se stesse, prendono dimora in una serie di tableaux vivants, diventando un tu e un io qualunque.

Immagine: Kevin Cummins, Joy division, 1979.

La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha già ospitato:
Mario Benedetti, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Umberto Fiori, Patrizia Valduga, Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, Gian Mario Villalta, Andrea Inglese, Maria Grazia Calandrone, Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Carlo Bordini.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).