Poema a Trotsky – I poeti leggono se stessi /13

da | Dic 1, 2015

POEMA A TROTSKY

E cosa avrai mai pensato
ucciso dai tuoi stessi fratelli
braccato dai mitra proletari
un sapore di dolce e d’amaro
un sapore di sangue in bocca
che cosa mai avrai pensato degli
uomini
se pure hai pensato
Leone Trotsky

Nel 1918 Trotsky era a capo
dell’esercito rosso. Aveva dovuto organizzare,
come è noto, un esercito dal nulla.
Aveva organizzato una cavalleria fatta da
operai,
utilizzato lo spirito patriottico di molti ufficiali
zaristi,
organizzato l’azione di bande che agivano isolatamente,
ecc. Aveva dovuto
essere furbo, astuto, spietato, e
lungimirante.
Seppe che Aleckin, campione del mondo di scacchi,
e uno dei più grandi genii, del mondo degli scacchi,
grande maestro internazionale,
era in prigione a Mosca.
L’andò a trovare e lo sfidò
a una partita.
Aleckin, timoroso, cominciò
a giocar male.
Trotsky gli disse: se perdi,
ti faccio fucilare.
Fu l’arroganza di satrapo
o l’esaltazione della lotta
a suggerirgli questa frase indubbiamente ironica?
Aleckin voleva perdere?
Trotsky voleva forse perdere?
Entrambi volevano forse perdere?
Mi ha sempre colpito questo incontro
tra lo stratega e lo scacchista
come la partita a scacchi tra il cavaliere
e la morte
(c’è un bellissima fotografia di Tito
che gioca a scacchi).
Trotsky voleva perdere?
La sua anima ebrea concepiva già
il terribile esodo?
Aleckin vinse. Poco più tardi
fu liberato ed emigrò a Parigi.
Fu campione del mondo
dal 1927 fino a poco prima
della morte. Si suicidò nel
’46, accusato
di collaborazionismo coi tedeschi.

Nella mia gioventù sono stato
trotskista per molti anni. (gli anni migliori). Soggiacqui
al fascino di Trotsky,
uomo sconfitto.
Soggiacqui a questa angoscia della sconfitta
a questo fascino dell’angoscia della sconfitta,
quest’uomo sconfitto,
doppiamente sconfitto,
Io studente soggiacqui.
Quest’uomo nobile e dolente,
e insieme forte,
io che ho avuto un padre
generale, e fascista, e non molto affascinante,
Soggiacqui.
Ora ti rivisito
e vedo me stesso.
La tua ferocia purificata dalla morte,
Fosti un padre
pulito,
un esempio,
una figura nobile,
Un guerriero
che sa morire.
Io che non sapevo assolutamente che fare della mia vita,
scelsi la tua morte
permeata di intelligenza.
Tu, intellettuale ebreo radicale,
pedante,
cristallizzato e andato in briciole,
padre dolente
nuovo Gesù e Cristo.
Il fascino del martirio
m’ipnotizzò studente.
Mi affascinò l’uomo tagliente,
quasi pirandelliano,
capace di esprimersi
in frasi lapidarie,
“Né pace né guerra”
“Proletari a cavallo”.
Come tanti anche tu morivi per gli altri
nobile cavaliere
anch’io ho mangiato un pezzetto di te.
Troppo velenoso è il tuo nutrimento.
Uomo dall’equilibrio
sempre spostato in avanti
in moto incessante
forse volevi cadere (in avanti).
E il bello era che avevi ragione
o almeno avevi in gran parte ragione.
Mi rannicchiai nella tua ragione, perché avevi ragione,
ma tanto, era ormai una ragione sconfitta, e così,
vivevo nella parte di dietro della storia, e stavo comodo.
Nessuno poteva disturbarmi. Tanto ormai tu eri morto.
Io avrei dovuto aspettare ancora qualche diecina d’anni
[per morire
e intanto mi tenevo la ragione. Studente, decisi così.
Eppure la tua razionalità radicale era eroica
comodo vivere dell’eroismo altrui. Così morii vivendo.
Poi rinacqui. (Non potevo rinascere se prima non morivo).
[dalla tua morte
cosa rinasce? Nulla. Una sola frase, una sola
parola,
“O socialismo o barbarie”. La ragione sconfitta ha la sua
[rivincita.
[Rivincita orribile, tragica rivincita, tragica consapevolezza, ]annichilante
profezia. Vissi grondante di morte, sapendo quello che
[sarebbe
venuto, ed ora che la barbarie
dilaga, e il tuo ottimismo cade,
non cade la tua intelligenza. Intelligenza sterile. E’ vero: o
[socialismo
o barbarie. La barbarie dilaga,
o socialismo o barbarie. Io lo sapevo e fingendo
ottimismo rivoluzionario
contemplavo la catastrofe della Storia.
Forse volevo perdere anch’io, come la storia che ho
[raccontato,
che non so se è vera,
ma mi ha affascinato
Trotsky, capo dell’esercito rosso, sfida il
campione del mondo di scacchi, entrambi
vogliono perdere, entrambi perdono, finiscono
tragicamente, ma che bello,
che bello scegliere la parte perdente, morire per procura
attraverso
gli altri,
suicidarsi in effige
(in quel periodo avevo pensato al suicidio come possibile
strategia
del mio senso di inutilità)
e poi incontrai l’articolo di giornale che parlava di questa
partita a scacchi
e ne fui
affascinato
adesso sono molto diverso da quando ho cominciato
[questa
poesia
so molte cose
e tante altre poi che non sono scritte qui
in quel periodo c’era anche una ragazza bionda un amore
[sfortunato
ho giocato troppo coi sentimenti degli altri
Non è vero: vissi una situazione di millenarismo,
per questo vi rimasi tanto tempo.
in questo mondo che scade verso la barbarie

***

Poema a Trotsky, anche se la cosa può sembrare strana, è stato scritto nell’arco di trentatre anni. Il testo è diviso in tre parti. La prima parte, molto breve, l’ho scritta quando ero un giovane trotskista, ed era un ritornello che mi ripetevo molte volte: non aveva niente di politico, era una sorta di commento sul fatto che un uomo è ucciso dai suoi fratelli ma continua a lottare per essi. Ben presto la militanza politica azzerò queste considerazioni. Per un periodo molto lungo (nove anni) ho smesso di scrivere e mi sono dedicato a quella che credevo fosse la lotta politica. A quell’epoca pensavo, e lo pensavano in molti, che era più utile un mediocre rivoluzionario che un buon scrittore.

Appena uscii dal gruppo politico a cui appartenevo ricominciai a scrivere. Fu una cosa naturale. Ma le incrostazioni ideologiche con cui avevo vissuto tanto tempo si facevano sentire. Ci ho messo alcuni anni per liberarmene del tutto. E fu in questo periodo che lessi l’articolo sulla partita a scacchi tra Trotsky e Aleckin (amo molto il gioco degli scacchi, anche se sono un mediocre dilettante). Mi colpì il fatto che Trotsky, durante la guerra civile, abbia sfidato uno dei più grandi giocatori della storia degli scacchi. Immaginai questo intellettuale ebreo che nel 1904 aveva elaborato la teoria della rivoluzione permanente, e che di fronte all’aggressione delle principali potenze alla neonata repubblica si era improvvisato stratega ed era riuscito a creare un esercito dal nulla. Si era fatto costruire un treno blindato e con quello percorreva instancabilmente la Russia, organizzando, coordinando, stimolando, dormendo poche ore per notte, e in caso di necessità facendosi dare un cavallo e lanciandosi alla testa delle truppe, cosa che un condottiero non dovrebbe mai fare. Immaginai il senso di potenza che lo spingeva a lanciare questa sfida simbolica al più grande scacchista vivente. E mi proposi di scrivere una poesia su questo episodio, dimostrando (qui la retorica, qui le incrostazioni ideologiche) che Trotsky, pur perdendo la partita, aveva vinto, perché la rivoluzione si era salvata.

Il progetto rimase inattuato, anche se ogni tanto ci pensavo ed annotavo qualcosa. Poi nel ‘95, trentatre anni dopo aver scritto quella prima piccola poesia, e dopo trentatre anni di sommovimenti violenti e radicali della storia, in occasione della pubblicazione del mio libro Mangiare, tirai fuori dal cassetto quel vecchio progetto e pensai di terminarlo. Misi all’inizio della poesia i versi che avevo scritto da giovane e cominciai, dopo essermi documentato, per quel che era possibile, scoprendo che quella partita era avvenuta realmente, a scrivere la parte relativa ad essa. L’idea era sempre la stessa: Trotsky aveva perso; Trotsky aveva vinto. Ma qualcosa non quadrava. E lì, per la straordinaria capacità della poesia di creare forme mentali nuove, cambiò tutto. La storia non poteva non avermi insegnato qualcosa. E lì capii che la cosa che mi aveva attirato in quell’uomo era stata la sua sconfitta. Sconfitta che stavamo tutti vivendo da molto tempo senza rendercene conto, e che dietro gli slogan rivoluzionari di generazioni di giovani era già consumata da tempo. E capii che il mio aderire alla forma più pura ma ormai seppellita dalla storia era stato determinato dal bisogno di staccarmi dalla realtà. E capii, sentii, la fragilità che mi aveva spinto a nascondermi in questa utopia, e insieme, ne rivendicai la forza, la forza sconfitta che però conteneva ancora in parte l’aureola della ragione; aureola che poteva essere rivendicata soprattutto dopo che la morte le aveva tolto tutte le brutture che tutti gli organismi viventi hanno addosso. Specchiandomi nella morte in cui mi ero nascosto scoprii molto del senso della mia esistenza, della mia fragilità, e sentii anche il senso intimo di quella esperienza. L’epopea sconfitta era un mito: e come mito e come utopia aveva ancora qualcosa da insegnare. Scoprii anche, forse, credo, il valore formativo della nostalgia.

 

La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha già ospitato:
Mario Benedetti, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Umberto Fiori, Patrizia Valduga, Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, Gian Mario Villalta, Andrea Inglese, Maria Grazia Calandrone, Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).