Gabriele Frasca legge “Dove m’hanno condotto le vecchie parole” – I poeti leggono se stessi /11

da | Set 30, 2015

Ciò che hanno fatto di me le vecchie parole,
spiccare il sole via dal midollo dell’osso
come s’essicca un frutto del proprio liquore,
spargere il senso assoluto d’un sasso
al debole grido che ha scosso
questo ordigno di sensi che è tutto un motore
muto e cocciuto in attesa d’un suono;

dove m’hanno condotto col loro fracasso,
lavorando d’intarsio lungo l’abbandono
che ho visto crescere mentre affrettavo il passo
per tener dietro a chi restò lontano,
ma sempre con l’eco del tuono
per dettare nel buio che resta qui in basso
l’ombra che s’allucina il cielo al lampo;

ciò che hanno fatto di me malgrado sapessi
che con gli echi dispersi si forgia lo stampo
che mantiene compatto fra sessi e decessi
almeno un fine alla miccia del tempo,
sebbene non resti mai scampo
alla lenta erosione che intacca gli stessi
semplici lacci che annodano il senso;

dove m’hanno condotto malgrado lo scempio
che fecero di me quando col loro incenso
affumicarono l’unico vuoto tempio
dove, dimesso il verbo, si fa a stento
la carne che chiede il suo censo,
non c’è verso nemmeno per trarne un esempio
di provare a ripeterlo in un verso.

Eppure quanta giusta inconsistenza resta
mentre la testa impasta da ciò che s’è perso
quel tanto di sostanza come cartapesta.
Vi si tenne la vita in quel rimorso
andarsene via di traverso
alla vegeta morte che ancora protesta
s’aprì una ferita che duole,
cui non rimane chi rimi in soccorso,
dove m’hanno condotto le vecchie parole.

***

In una pagina del quaderno che contiene le fasi di stesura di Poem on His Birthday, e che risale, malgrado la poesia fosse stata ideata due anni prima, alla seconda metà del 1951, Dylan Thomas elencava alcuni progetti futuri. L’anno che stava declinando, alla vigilia del suo secondo viaggio in America, va ritenuto per la sua produzione in versi senz’altro il più fruttuoso, fra quelli che susseguirono l’apparizione della fortunata raccolta Deaths and Entrances (1946). Aveva difatti composto due poesie di rara intensità, Lament e la straziante Do Not Go Gentle Into That Good Night, e tutto pareva prefigurare un nuovo slancio di creatività. Anzi, a tener fede a una lettera inviata all’amico John Brinnin, Thomas, in barba alle consuete tribolazioni finanziarie, e al deteriorarsi per l’incremento della dieta alcolica delle sue condizioni fisiche, sentiva di essere giunto alla svolta che gli avrebbe concesso da quel momento in poi di scrivere solo «versi felici».

E invece le cose sarebbero andate in tutt’altro modo: il radiodramma Under Milk Wood, capolavoro del genere che inglesi e americani ancora giustamente festeggiano (basti dare un’occhiata alla splendida versione televisiva per schermo di computer e attori sparsi in tutto il mondo allestita dalla BBC per il centenario della nascita), avrebbe negli ultimi due anni della sua vita assorbito completamente il poeta gallese, che si sarebbe limitato a redigere in versi solo il Prologue che apre la raccolta antologica Selected Poems del 1952, e quanto sopravvive dell’incompiuta Elegy. Ma a quell’altezza, in quel quaderno, ancora inebriato dall’inatteso successo del primo viaggio americano, Dylan Thomas proponeva a se stesso tutt’altro piano di lavoro: voleva innanzi tutto tornare a scrivere racconti nello stile del Portrait of the Artist As A Young Dog, almeno tre da destinare se mai al “New Yorker”, e quanto alla produzione poetica, si prefiggeva di dare un séguito a In the White Giant’s Thigh, e d’impegnarsi poi in una poesia per la moglie, in un’altra per il figlio Colm, e in un’ulteriore, infine, di cui aveva già composto a mo’ di titolo il solo verso incipitario: Where Have the Old Words Got Me (Dove m’hanno condotto le vecchie parole).

Quando all’inizio del 2012 ho inviato alla casa editrice Einaudi la stesura più o meno definitiva di Rimi, credo di avere allegato due file. Nel primo c’era solo il poema, con le sue quaranta celle d’alveare, o cubi innestati l’uno sull’altro; nel secondo vi avevo inserito due ante, Quevedo (rielaborazione della plaquette apparsa per la d’if nel 2009) e Dopo l’incursione, che conteneva cinque traduzioni da Dylan Thomas. Chiesi dunque in quell’occasione esplicitamente a Mauro Bersani di scegliere la versione che gli sembrava più convincente, senza nascondergli di propendere senz’altro per la prima. Il poema per essere metabolizzato aveva bisogno di tempo, e di un lettore che se ne facesse carico in prima persona, avvezzandosi innanzi tutto a respirarlo: una gabbia tipografica giusta, spaziosa quel tanto da agevolare il colpo d’occhio che facilitasse la voce a cogliere l’andamento sintattico, per come la vedevo io, era fondamentale. Ma Mauro non fu di questo avviso, e mi convinse di quanto fossero al contrario necessarie le ali, quanto meno per gli eventuali recensori.

Decisi allora di aggiungere un ultimo (anzi penultimo) testo, che chiudesse l’intera raccolta, e segnalasse una via di uscita dalla forma-libro. Non ricordo in quale occasione, ma mi era già capitato di dichiarare pubblicamente che Rimi sarebbe stata la mia quarta e ultima raccolta di versi. Quei pochi che ci fecero caso, pensarono che avessi deciso di rinunciare alla poesia, se mai per concentrarmi sulla prosa narrativa, alla quale in verità tengo molto. Ma non era così. Volevo solo in verità annunciare la mia decisione di fuoriuscire, quanto meno per la produzione in versi, da una forma che non è certo sorgiva, ma si è piuttosto affermata per la poesia solo con la stampa, quando dall’organismo biologico dei Rerum vulgarium fragmenta (che solo la morte dell’autore può difatti consegnare immutabile), si è desunta l’ordinata, replicabile e seriale raccolta petrarchista, da cui deriva la lunga tradizione libresca della poesia. Tradizione, quest’ultima, che è fin troppo evidente quanto sia giunta oramai, con l’intera cultura tipografica, alle sue date di scadenza.

La trasformazione in atto, quella che con la digitalizzazione sta portando a compimento l’“età della carta”, è ineluttabile, ci piaccia o meno; e tanto vale cominciare ad attrezzarsi, e tornare a sciogliere la poesia nell’ampio letto di lava della sua storia a pendenza lieve, che intercetta sì la cultura chirografica, ma le sopravvive, tanto al di qua quanto al di là. Le regole melodiche e memoriali che sorreggono la poesia, com’era solito ricordare il gesuita Marcel Jousse, non sono un «gargarismo estetico» ma lo specifico della sua stessa trasmissione, che prevede la ripetizione a eco. La poesia, medium della cultura orale, nasce per spargere segni, senza i quali come specie non sopravviviamo nemmeno. Per questo la civiltà della scrittura non è mai riuscita a silenziarla. Né potrà farlo la sua fase digitale. Per la prosa narrativa, invece, malgrado la marea di carta che ancora ci sommerge, si aprirà una stagione di crisi salutare. Ma resto ottimista: perché l’«arte di narrare», per scomodare questa volta Benjamin, tornerà presto, magari non sulla pagina, a riscoprire il «lato epico della verità» che l’ha sempre sorretta, prima che tramontasse nell’intrattenimento borghese.

È dunque da considerazioni di questo tipo che è nato il testo che avete letto, e con esso il progetto Quarantena, che giunge a fare quinconce, pur senza una fine prefissa (se non quella comunque prevista), con le precedenti raccolte. Di necessità, per aprire al poi e traghettarvi il prima, quel testo avrebbe dovuto essere innestato nella carne viva della quarta, e non poteva dunque che cadere nella sezione di traduzioni di Dylan Thomas, come un sottoinsieme che, appartenendovi, la eccedesse. Non ricordo di preciso quando mi tornò in mente il verso nascosto, e rimasto irrelato, in quel quaderno del 1951. Ma quando avvenne, capii immediatamente che sarebbe stata la soluzione giusta: avrei composto il testo come se fosse una traduzione (persino nelle risoluzioni ritmico-melodiche che avevo escogitato per tener dietro al funambolico sillabotonismo del poeta gallese), e avrei segnalato quello strano testacoda riservando all’unico verso di Thomas la chiusa, e non la sede iniziale per cui era stato pensato. Come se insomma potessi procedere solo a rovescio, per intercettare l’originale che non c’era. La stesura non fu semplice, ma aprì una strada.

Che è difatti quella seguita dagli altri individui, uno per ogni anno a partire dal ’12, che segnano il tempo della quarantena, dove l’“io”, tornato a essere quello che è sempre stato, un pronome, un soggetto di carta velina, o piuttosto una maschera dagli occhi cavi nel carnevale del linguaggio, nemmeno fa più paura. Perché alla fine almeno un’acquisizione alla storia di questo testo la devo: comporre una poesia è tradurre da un’originale che non c’è, ma che si compie ogni volta all’inverso.

La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha già ospitato:
Mario Benedetti, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Umberto Fiori, Patrizia Valduga, Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, Gian Mario Villalta, Andrea Inglese, Maria Grazia Calandrone.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).