Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /6

da | Dic 22, 2013

Nel penultimo gruppo con le testimonianze delle ultime generazioni per Vittorio Sereni, i contributi di Maria Borio (1985), Davide Castiglione (1985), Marco Corsi (1985), Francesco Iannone, Alessandra Frison (1985), Anna Ruotolo (1985).

Maria Borio

Ho scoperto Sereni in un corso universitario sulla poesia del Novecento. In mezzo a una carrellata antologica di autori, sono riuscita a sentire davvero affine alla mia sensibilità soprattutto Vittorio Sereni. Lo leggevo e cercavo di entrare nel suo discorso poetico a strati, a sospensioni e riprese, fluido ma al tempo stesso solido. Adesso è strano pensare che quello fosse un linguaggio nuovo per me, è strano e per molti aspetti inconcepibile che avessi avuto, fino a quel momento, possibilità di lettura che non andavano più in là di Montale. Forse la Szymborska, e non so quanto sia un merito, per via di una specie di costume che circolava tra le persone che conoscevo. Tra i testi di Sereni che amo di più ci sono Ancora sulla strada di Zenna, Anni dopo, Appuntamento a ora insolita, Situazione, Ancora sulla strada di Creva, Dall’Olanda, Il muro, il poemetto Un posto di vacanza.

Cerco di spiegare i motivi per cui, secondo me, Sereni è il poeta più importante del secondo Novecento. All’inizio lo faccio un po’ trasversalmente, cioè partendo da Montale. Tra me e Montale c’è un’intercapedine. Questa intercapedine è Vittorio Sereni. Uso la parola “intercapedine”, ma non voglio assolutamente sminuire la centralità di Montale. Vorrei piuttosto spiegare che per capire alcuni aspetti della mia lettura di Sereni devo parlare del mio rapporto con la poesia italiana del Novecento. Se dovessi raccontarla o descriverla nel suo complesso, non posso non dire che Montale è l’autore che la rappresenta al meglio, in tutto il suo sviluppo: gli Ossi, le Occasioni e la Bufera per capire che cosa succede dalle avanguardie alla seconda metà del secolo, Satura per osservare che cosa accade dalla fine degli anni Sessanta in avanti. Montale è decisivo, ma se affrontato senza connettivi, senza inserirlo in un discorso letterario più ampio, nella sua nudità, non è particolarmente vicino al mio sentire di oggi. Quando leggo Sereni, invece, all’improvviso – indirettamente – Montale acquista un significato nuovo e questo vale anche per buona parte della poesia del Novecento. Attraverso Sereni ritrovo certa sperimentazione linguistica, la poesia inclusiva, la poesia degli oggetti, persino certi bagliori, certe rarefazioni che piacevano agli ermetici, ma svolte con una patina emotiva che si esprime in modo molto più diretto.

Sereni è l’autore attraverso cui la mia sensibilità riesce a connettersi con un organismo mobile, in evoluzione, qualcosa di plastico, ma anche di compatto. Ampio e compatto, come scriveva Raboni parlando di Una visita in fabbrica. Una poesia dialettica che non dimentica mai di mettere al centro la comunicazione del suo contenuto e che cerca di  parlare di una realtà in evoluzione continua e repentina. Ma, allo stesso tempo, riesce a dare una struttura comunicativa intellegibile a questa realtà: è mimesi e interpretazione, dialogo rappresentazione e messaggio, conservando una base forte di lirismo. C’è una dialettica relazionale in queste poesie che sembrano sporgersi verso il lettore, gli parlano di un mondo a cui non possiamo più applicare valori assoluti, ma che non dovrebbe essere lasciato in un groviglio irriducibile, come se avesse un linguaggio irrevocabilmente muto e se fossimo tutti automi. La poesia è anche sforzo, è tensione. Questa tensione deve entrare nelle pieghe della realtà, dissuadere dall’essere passivi, indottrinati o sedotti dalle circostanze.

Credo che la poesia di Sereni riesca a iniettare questa tensione. Per due motivi: il primo riguarda il linguaggio, l’abilità di costruire una sintassi che sembra un sismografo e riflette tutte le schegge linguistiche, dialogiche, espressive della scena narrata; il secondo motivo riguarda la straordinaria “capacità figurale”, ossia la capacità di intessere il dettato poetico con una serie di figure umane, di riflessioni sui movimenti umani, sulle attitudini, sulle passioni senza mai presentarli in modo ‘eloquente’, ma di scorcio, come qualcosa che arriva tra i versi gradualmente e poi esplode all’improvviso attraverso un grumo di parole (come nei sintagmi “salutando salutando” di Ancora sulla strada di Zenna o “rasserenandomi rasserenandosi”  e “una sera d’estate è una sera d’estate” di Il muro). Si vede, allora, tutta la capacità di scavo che affonda nel rapporto tra la nostra umanità – sensibile, intelligente, ignava, fragile – e le cose del mondo. Ci ricorda che, nonostante tutto, non possiamo considerarci un ‘a parte’ rispetto alla complessità dell’esistenza, isolati in un asettico stato di solitudine o in una gabbia preordinata di comportamenti, che non dovremmo sfuggire al confronto critico con la sua mobilità, difficoltà, precarietà, ampiezza.

Amo Gli strumenti umani. Penso che, insieme a Stella variabile, sia la raccolta più importante del secondo Novecento e penso che la mia generazione riesca a sentirla vicina a sé – mentre, ad esempio, credo sia ormai incolmabile la distanza con la Neoavanguardia. Per me la poesia è un discorso dialettico che dovrebbe indagare i meccanismi della comunicazione e delle relazioni umane. È una tensione che si sprigiona dal singolo – l’autore, soprattutto l’autore di versi, è sempre solo, rappresenta idealmente le nostre solitudini – ma dovrebbe arrivare agli altri come un linguaggio ampio e compatto. E provare a corrodere le sensibilità incrostate, le intelligenze immobili.

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Davide Castiglione – Che (non) tutto porti me nella sua luce: Vittorio per me

Sarebbe per me facile, avendo studiato abbastanza Sereni e avendo pubblicato un saggio su di lui, raggranellare dei cliché critici – che, un po’ come gli stereotipi, hanno sempre un nocciolo di verità e una distesa più che un margine d’imprecisione – e spiegare come mi rispecchio in essi, da lettore e da autore. Ma a che pro? È vera la fedeltà dello sguardo di Sereni; vera la sua intelligenza che disciplina l’ispirazione in un distillato che, pur ruotando attorno a poche ossessioni (la verifica sulla vita, il ritardo sulla storia, la memoria, gli amici) sa rinnovarsi sempre (“e dunque anch’io / posso ancora riprendermi, stravincere”, La poesia è una passione?), perché senza concedersi lussi espressivi, coi suoi “tre quattro fradici acerbi colori” (Amsterdam) genera una varietà timbrica ed emotiva che ha pochi riscontri in autori assai più profilici. Allora riparto da qui, per tentare cosa di Sereni credo si sia fatto mio un sette anni fa e ormai per sempre, quasi per osmosi, complice una sensazione di somiglianza psicologica profonda. Riparto, cioè, da qualcosa di cui poco si parla, a proposito di Sereni: la fortissima personalità ritmica e timbrica dei suoi versi, che si fanno subito, in me che leggo, eco di una voce presente e mai in posa. La poesia di Sereni ha corpo, respiro, non tanto e non solo perché spesso nomina oggetti concreti (come la mettiamo allora con le astrazioni in Stella variabile, o con la “forza che ti sconfessava” in Ancora sulla strada di Creva?); ma in quanto punta a un crescendo emotivo spezzando la sintassi o rilanciandola, accennando a una balbuzie ma poi emergendo in endecasillabi come stilettate. Può essere percepita confessionale e meditativa (“La rissa / dura ancora, a mio disdoro. / Non lo so / chi finirà nel fiume”, Un sogno), sarcastica (“Certo, rispondo invece – è stupenda”, Pantomina terrestre), gnomica (“la gioia quando c’è basta a sé sola”, Le ceneri) e molto altro. Mi sono accorto di avere citato solo da Gli strumenti umani, in effetti il mio libro di riferimento. L’ho fatto forse perché è questa la fase più estroversa, varia e dialetticamente combattuta della poesia di Sereni: tanto lontana da noi per le contingenze dell’Italia del dopo boom in essa rappresentate quanto tuttora validissima in quanto a postura etica. Nel 2006 il ritmo e la sintassi di Sereni – e perfino i suoi temi – innervavano tutto ciò che scrivevo, come prima mi era accaduto solo per Montale. Mi ci sono voluti almeno tre anni per capire che il modo migliore di seguire un vero maestro è capire che non si può essere lui del tutto (“un grande amico […] che tutto porti me nella sua luce”, Il grande amico), troppo diversi i rispettivi contesti storici e troppo pressante la ricerca di una voce almeno un poco propria; bisognava allontanarsi dalle sue stanze più sue, lasciar stare quella sua qualità della solitudine, e raccoglierne invece la disponibilità verso il mondo, le punte volitive (“Non / dubitare – m’investe della sua forza il mare / parleranno”, La spiaggia), la capacità di corteggiare discretamente l’ispirazione, nella consapevolezza che, nonostante quanto la vulgata postmodernista vorrebbe insegnarci, un libro deve ancora essere un documento di noi e del nostro tempo, e in quanto tale esigerà da noi il massimo di cui siamo capaci.

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Marco Corsi – Da Sereni a me e ritorno

«Ma perché tanto nero?/ gli domando con gli occhi»: da questi versi, ricordo, è nata una certa fedeltà alla Stella variabile di Sereni. Versi che tornavano come «uno sguardo di rimando» dalla lettura di due emistichi da Aprire di Antonio Porta («sul soffitto nero/ una macchia più scura»), quasi indicasse una rediviva concretezza dell’umano e dell’umanità della poesia quell’interrogativo di Vittorio, più tardi avvertitamente inteso come pegno di una tradizione che affonda nella lirica petrarchesca (il suggerimento mi arriva ora da Francesca D’Alessandro). Eppure c’è stato un passaggio immediato, pure con qualche margine di distanza, dopo un paio d’anni, quando è tornata a parlarmi la poesia di Sereni aveva il colore dell’«estate tirrenica», trasognato e fortemente segnato del “posto di vacanza”, di Un posto di vacanza, uno come tanti – verrebbe da dire – sebbene quell’«amaranto», quell’incresparsi di luci e di spie, sembrano non avere altro luogo, né altra possibilità di esistere. Ecco, davvero, qui, è nato il rapporto più fecondo con Sereni, e come per una tremenda sventura scoprivo di essere ancora al punto di partenza: «ancora un poco, ed è daccapo il nero». Il «nero», altrove «il colore del vuoto», comunque, non mi è mai sembrato così definitivo, credo per una certa consentaneità e familiarità allo svolgersi ostinato della visione. Vorrei citare per intero la traduzione di Le banc d’ocre da René Char raccolta ne Il musicante di Saint-Merry: «Per una terra d’ombra e per rampe sanguigne tornavamo alle strade. Il timone dell’amore non ci sorpassava, non ci precedeva più. Hai aperto la mano e me ne hai mostrato le linee. Ma vi sorgeva la notte. Ho deposto l’infima lucciola sul solco della vita. Anni di prostrazione si sono illuminati di colpo a quel fanale vivo e assetato di noi». Vorrei estrarre alcune parole, ancora, da questo stesso passo: «Hai aperto la mano e me ne hai mostrato le linee. Ma vi sorgeva la notte». Scoprivo allora le ragioni dell’incontro, tutto continuava a farsi più chiaro, anche se poi, ovviamente, da questo esempio ho preteso che sapesse parlare la mia lingua, e il cedimento definitivo, per me che allora assieme ricercavo la coerenza di stilemi traguardata nel Giudici di Salutz e nei “documenti” di Amelia Rosselli, il cedimento definitivo – dicevo – la resa di fronte al modello è giunta con la strofe che spalanca lo sguardo In una casa vuota: «Si ravvivassero mai. Sembrano ravvivarsi/ di stanza in stanza, non si ravvivano/ veramente mai in questa aria di pioggia. Si è/ ravvivata – io veggente di colpo nella lenta schiarita –/ una ressa là fuori di margherite e ranuncoli./ Purché si avesse». Avevo quindi tutte le ragioni per notare che una parola mite come «ranuncoli», declinata nel mio caso al singolare, ci apparteneva, apparteneva al mio e al suo vocabolario, per una sorta di addomesticamento all’usato, anche se ora ammetto che l’attrazione scaturiva dall’elemento ritornante, dalla ripetizione differente e anzi contraria, dalla negazione dell’identico, dall’occorrenza sinottica di apparizione e sparizione, da questa sintassi multipla delle presenze e delle assenze. Di Sereni, oggi, seguo la militante lezione di una voce, ricerco i modi di una retorica che è riuscita a comporsi sull’avviso di poche ma indecidibili sostanze, immaginifiche e verbali, rappresentando quell’indeterminato e vasto limite in cui si muovono le nostre intenzioni, i nostri intendimenti e, soprattutto, ciascuna delle nostre esistenze, del loro senso, ormai più chiaro di molte futuribili ossessioni: «non una storia mia o di altri/ non un amore nemmeno una poesia | ma un progetto/ sempre in divenire sempre/ “in fieri” di cui essere parte/ per una volta senza umiltà né orgoglio/ sapendo di non sapere».

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Francesco Iannone – La grazia che chiede pane

Vittorio Sereni è certamente poeta dell’esperienza e delle cose, poeta del reale e della memoria. Elementi, questi, che si intrecciano, si fondono, a volte, si sovrappongono, fino all’esito inquieto di una poesia senza nevrosi, assolutamente non caotica, ma che incorpora, a partire dalla raccolta d’esordio Frontiera, i presagi di una inadeguatezza tutta personale che ritroveremo nelle opere successive. I luoghi familiari della sua amata Luino appaiono, già in Frontiera, dominanti e inalienabili. La fragilità di una giovinezza percepita nella densità del suo mistero (Improvvisa ci coglie la sera. // Più non sai / dove il lago finisca; / un murmure soltanto / sfiora la nostra vita / sotto una pensile terrazza.), nella infinità del possibile, come categoria del reale effettiva ed evidente. Sereni è poeta delle circostanze, in questa adesione o meglio fedeltà al reale sta la sua forza, il suo slancio
amorevole e commosso. L’occasione in Sereni diventa pretesto, lavoro di scavo in atto. Sereni è poeta perché Homo sum: humani nihil a me alienum puto, le parole pronunciate da Cremete, personaggio di una delle più celebri commedie di Terenzio: Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso).

Della vicenda umana dell’uomo Sereni nulla resta a lato, marginale, fuori campo. Nel 1943 è prigioniero in Sicilia, trasportato in Nord Africa (Algeria e Marocco) vi rimane fino al 1945. Da qui nasce, come messa a fuoco dell’esperienza vissuta e mai commiserata, il fondamentale Diario d’Algeria. Persino la guerra e la prigionia, che pure seminano nell’animo del poeta turbamenti e un profondissimo desiderio di giustizia, aprono la domanda sul significato; sì, perché in Sereni non c’è sentenza o dichiarazione di una qualche verità, perseguita o raggiunta, ma quella sospensione a lui tanto cara più simile ad una domanda, ad una richiesta. Non ci stupisce perciò il versificare asciutto e stremato fino al trauma, versi lampo densi di secche sonorità e atmosfere ora luminose ora oscure.

Sereni è un viandante, homo viator. La strada diventa allegoria del possibile e della scoperta (Presto sarò il viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso.), presagio di eventi, messa a fuoco di stati d’animo che il poeta subisce nella solitudine mormorante della prigionia e della guerra dove i volti cari e le voci familiari si perdono (E la voce più chiara non è più / che un trapestio di pioggia sulle tende) e solo nella memoria sopravvivono, sempre attese, sempre desiderate (Per una traccia certa e confortevole / sbandavo, tradivo ancora una volta). La via è il pentagramma su cui scorre la vita del poeta, con cadenze di partitura, sempre segnata da un altissimo sentimento del dovere, del compito: in questo Sereni è maestro, uomo più che consapevole della sua responsabilità intellettuale.

Il tema del ritorno ai luoghi della giovinezza, della gioia convocata con determinazione militare, attraversa Gli strumenti umani e la poesia Ancora sulla strada di Zenna ne è un esempio (Perché quelle piante turbate mi inteneriscono? / Forse perché ridicono che il verde si rinnova / a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?); Sereni è anche il poeta dell’amicizia, emblematico il rapporto con Fortini che scriverà pagine intensissime sulla sua poesia. È nell’incontro che si compie il suo desiderio, in quella tensione all’ideale vicina alla perfezione; un amico, un uomo capace di essere presenza affettiva virile e sincera (Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi…), presenza fraterna che abbia a cuore il suo bene più di quanto ne abbia egli stesso, e lo sappia riconoscere e prevedere (Ma volano gli anni, e solo calmo è l’occhio che anti vede / perdente al suo riapparire / lo scafo che passava prima al ponte. // Conosce i messaggeri della sorte, / può chiamarli per nome. È il soldato presago.); l’amicizia con Saba, a cui Sereni fu legato malgrado il suo difficile carattere, e che ricorda in un bellissimo testo dal titolo Saba, dove descrive il poeta triestino ramingo in un Italia di macerie e di polvere, è l’Italia del primo dopoguerra, ci chiarisce definitivamente l’importanza dei rapporti per Sereni, sempre pronto a fare dono di sé, fedele ad una innata semplicità che lo contraddistingue e lo eleva.

Qualcosa di irreparabile è accaduto: la guerra, il dolore dell’abbandono, la solitudine del viaggio. Stare dalla parte sbagliata, non partecipare alla Resistenza. Nulla potrà riscattare la coscienza del poeta, la sua storia inadeguata. Anche in Stella variabile, ultimo libro in versi di Sereni, tutto il
dolore si srotola e converte situazioni di vita ordinaria in ricordi di guerra. Nessuna primavera gli farà dimenticare la fine del triste inverno o del fragile autunno, tutto si rincorre puntuale nella sua memoria, aquila che insegue aquila, ala contro ala. Sì, perché la vita di Sereni va per farfalle / e
per baratri, sempre al culmine di una speranza disattesa e una parola -abisso che si slancia in verticale, si offre al lettore nella statura della sua ineluttabilità e valore.

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Alessandra Frison – Sereni, maestro di forma

Il mio primo incontro con Sereni è stato, in qualche modo, mediato da un altro grande della poesia italiana: Franco Fortini. Durante i miei primi approcci con la poesia Fortini fu uno dei primi autori che lessi e che tentai di “copiare”. E, proprio nei versi fortiniani tratti dalla raccolta L’ospite ingrato, mi apparve la figura di Vittorio Sereni, un Sereni, a dire il vero, dipinto in maniera non troppo lusinghiera, come un poeta poco coraggioso (strappalo quel foglio bianco che tieni in mano), un esile mito che “non rischiava l’anima”.

Ovviamente m’incuriosii e, procuratami poco dopo un’antologia delle poesie di Sereni, mi misi alla ricerca del motivo di quella sospetta “codardia”. Ma non lo trovai.

Trovai invece una poesia carica di significati e di discese coraggiose nei ricordi, un verso incisivo, modellato sulla vita e sull’esperienza dell’esistere. Ma, soprattutto, in Sereni scoprii la necessità di trovare una forma.

Ogni componimento di Sereni è segnato da un rigore formale che cattura l’attenzione del lettore e lo trascina in una dimensione di assoluta empatia. Dalla guerra alle strade di Milano, dalla vita alla morte, i contenuti della poesia sereniana scorrono verso dopo verso, senza cadere mai nella banalità o nel ridicolo di un mero racconto diaristico.

Quello che è riuscito a creare Sereni è un lessico “universalizzante” e “rigenerante”: attingendo dall’esperienza privata fatta di cose, persone, dolori e gioie, è arrivato a portare sulla pagina un discorso universalmente valido. Qualcosa che non fosse più solo una testimonianza dell’uomo Sereni, ma la voce di ogni singolo lettore. Ogni storia diventa, dunque, immediato presente, qui ed ora dell’esperienza poetica. Fatto, vissuto.

Per fare questo Sereni ricorre ad una forma fluida, estremamente musicale, fatta di respiri lunghi e brevi, di versi che si spezzano e si rincontrano all’improvviso. I meccanismi sottili che regolano le poesie sono sottilmente celati dietro ad un’apparente semplicità, il labor limae del poeta è dunque portato al massimo, sempre in bilico tra la poesia e la prosa, in una materia che pare in un movimento continuo.

Ed è proprio questo che ho cercato di imparare da Sereni. Il lavoro del poeta non è un semplice gioco sentimentale, non è un raccontare le vicende della propria vita. È piuttosto un creare da quelle un’esperienza nuova e universalmente valida, che riesca a toccare il profondo. È un’esperienza estetica.

E per fare questo è necessario “sporcarsi le mani” con le parole, lavorarle, plasmarle, fino ad ottenere un verso così potente che possa risuonare il più possibile in ognuno di noi.

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Anna Ruotolo – Poesia di residenza (con Vittorio Sereni)

Nessuno più di un poeta è adatto a dire cose concrete sulla poesia. Per contro, nessuno è meno adatto di lui a enunciare verità che escano da un ordine affatto personale ed entro certi limiti utili a lui solo e a lui solo necessari.

(da “Esperienza della poesia” in “Gli immediati dintorni”, Oscar Mondadori “Vittorio Sereni, Poesie e prose”, Milano 2013)

Cominciavi a renderti conto in concreto di tante cose – le donne, i viaggi, i libri, la città, la poesia; cominciavi a vivere con pienezza, uscito una buona volta dallo sbalordimento giovanile.

(da “Cominciavi” in “Gli immediati dintorni”, Oscar Mondadori “Vittorio Sereni, Poesie e prose”, Milano 2013)

Abitare sulla cartina, fisica e politica italiana, un non luogo è come abitare niente. Non abitare affatto. La geografia ha confini sottilissimi e sfumati. Così anche qui si rifà il «nulla nessuno in nessun luogo mai», ancora più forte, qui dove gli strumenti umani si danno per scontati ma non abbiamo veramente (nel senso di concretamente) nulla.
Non li abbiamo. Punto.
Abitare questo luogo scoprendo di avere aggiunto alla propria vita una responsabilità e sapere che questa responsabilità è una “questione di dire”, è la poesia, rende una terra così ancora più grigia, cieca, fredda. Un pozzo vuoto dal quale dover pure attingere qualcosa.

L’incontro più vivido con la poesia di Vittorio Sereni data duemilasette, ventidue anni, l’incoscienza e il momento del recupero di una tradizione liquidata sbrigativamente nell’esame di maturità.
Il primo bisogno era quello di intercettare qualcuno, considerarsi dentro una continuità storica, quale che fosse l’esito del “tentativo scrittura” e la posizione registrata nello stivale italiano. Montale, Sereni, Luzi, Gatto, Bertolucci, i primi. Poi altri e altre. Ma Montale, Luzi e Sereni sempre. Dell’ultimo, poi, più a fondo, la poesia dell’attimo breve, del secondo. In un mondo – questo non luogo – che non assomiglia che a una riduzione cinematografica di un racconto breve e greve dove, però, i secondi non hanno importanza ma seguono un copione preconfezionato e pubblicizzano una pièce che dura quel che deve durare. Conta l’accumulo del tempo, non i singoli frammenti. Il tempo si vende ma non si valuta per quel che vale.

In tutto ciò si può capire come mi ritornasse benissimo la concentrazione sereniana della storia in versi puliti, calibrati. La storia che io tenevo fuori e che facevo (e faccio) entrare attraverso l’umano più umano. E a volte solo quello. La sua storia aveva, certo, il tragico momento: procedeva dalla seconda guerra mondiale. La storia della giovinezza, qui, deve trattenere troppe vicende e deve imparare che la Giustizia si modella su vasti spazi. Siamo entrati in un mondo che i nostri sessantottini non riconoscono quasi più, sbattuto l’eskimo nell’armadio e dettisi un paio di frasi di circostanza. Eppure abbiamo questo e quello, il vecchio e il supernuovo. Ancora vicini alla guerra mondiale e già pieni di inediti e inquietanti conflitti. Qui e altrove. Abbiamo forse saltato il “nuovo”, manca un anello. Questa l’ambientazione di fondo e questa la geografia personale: una terra che non si muove e, forse, non si può muovere più.

Fare una poesia di resistenza o una poesia impegnata (civile) è una scelta. Anche il famoso foglio bianco di Sereni, così bene imbiancato da Fortini, lo era. Questa scelta a me è sempre parsa la più adatta, la più funzionante. Il foglio rimette in contatto il mondo con l’uomo. Niente è troppo inspiegabile e niente ancora è così vicino, “mentre tu dormi e forse / qualcuno muore nelle altre stanze”. Una storia invivibile è una storia che si deve poter dire attraverso le microstorie, umanissime, reali, coerenti e quotidiane. È così che ha speranza di durare e diventare un nuovo posto.

Pare che allora, dove si vive con poco o con niente, sia ancora meglio fare della poesia una scrittura di residenza. Il vero impegno civile (e civico, prima) è quello di ricostruire i luoghi, gli incontri, ricucire gli spazi di una memoria perduta o, meglio, cancellata e riprogrammata ciclo dopo ciclo, pièce dopo pièce. A volte anche la poesia sembra non avere proprio più parte e senso.
In altri luoghi fare questa operazione di costruzione sarebbe faticoso ma non così difficile. Perché in altri spazi il certo sarebbe proprio il luogo.
La mia residenza si costruisce senz’altro con un materiale che mi è familiare, quello che Sereni ha chiamato “milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente identificabile, in cui trasporre brani di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete di quest’ultima […]” (cfr. Il silenzio creativo in Immediati dintorni).

Rimane, evidentemente, da chiarire lo scarto tra quel milieu identificabile e uno, qui – oggi –  addirittura da ricostruire.
Sono quegli scatti, frammenti, illuminazioni, secondi, che Sereni ha intercettato e scritto e gli hanno fatto da lente e da raccordo alla totalità della storia, della società:  geografia e topografia che ho esaminato e preso in considerazione e sentito profondamente idonei a rintracciare il mio non luogo, a rifondare una qualche sua immagine perduta. Come se ci fosse bisogno di un ulteriore stimolo, viene in aiuto la lettura comparata che ricomprende certa prosa inequivocabile: la vita sa plasmare il meraviglioso da materiali assolutamente comuni, scriverà nel 1943 l’ungherese Sándor Márai e, ancora, è meraviglioso che il prodigio sia in carne e ossa, che il destino, quando si presenta in varianti così inverosimili, abbia un visto e un passaporto… […] È meraviglioso e sorprendente quanto il prodigio sia comune e reale. (cfr. “Il gabbiano”, Adelphi, Milano 2011). Le interconnessioni sono presto date.

Lungi dal diventare troppo aerei, troppo sospesi, poco legati alla fin troppo evidente realtà, queste due, tre linee guida conosciute e volute hanno prodotto in me anche il tentativo di una continua comunicazione che proceda proprio dalla pagina scritta. Il prodigio del comune va sempre consegnato e confessato o, almeno, detto, se si vuole costruire. I vettori sono quelli che Sereni chiama a difesa e a testimonianza (e in aiuto) nella poesia Anni dopo, in “Gli strumenti umani”:
“Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia”.
Ma rimangono, inquiete, anche poche altre domande a cui nessuno risponde: per quanto ancora, per chi davvero, con quale nome?

Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /1
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /2
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /3
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /4
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /5

[Gli autori che hanno aderito all’iniziativa sono, in ordine anagrafico e alfabetico: Andrea Inglese, Guido Mazzoni, Giovanna Frene, Laura Pugno, Gabriel Del Sarto, Italo Testa, Gilda Policastro, Giovanni Turra, Corrado Benigni, Andrea Ponso, Alessandro De Santis, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Roberto Cescon, Isabella Leardini, Matteo Fantuzzi, Carlo Carabba, Matteo Zattoni, Carmen Gallo, Franca Mancinelli, Mariagiorgia Ulbar, Tommaso Di Dio, Domenico Arturo Ingenito, Marco Bini, Guido Mattia Gallerani, Omar Ghiani, Lorenzo Mari, Maria Borio, Davide Castiglione, Marco Corsi, Alessandra Frison, Francesco Iannone, Anna Ruotolo, Lucia Cupertino, Bernardo De Luca, Francesco Terzago, Dario Bertini, Giorgio Meledandri.]

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).