Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /1

da | Dic 13, 2013

Cent’anni fa nasceva Vittorio Sereni (1913-1983). Presentiamo la seconda parte dell’omaggio a lui dedicato, ricordando Sereni attraverso le parole di una serie di autori nati tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’80, per dare una testimonianza del rapporto che le ultime generazioni hanno con la sua opera. I testi verranno pubblicati da oggi 13 dicembre al 20 dicembre 2013, secondo un ordine anagrafico e alfabetico. Nel gruppo di apertura Andrea Inglese (1967), Guido Mazzoni (1967), Giovanna Frene (1968), Laura Pugno (1970), Gabriel Del Sarto (1972) e Italo Testa (1972). Leggi qui l’inizio della prima parte dell’omaggio.

Andrea Inglese – Antico e familiare

Ricordo tempo fa Biagio Cepollaro che mi diceva: “Figurati che Sereni, per me, è diventato già lontanissimo”. Sereni come gli Antichi romani.

Sereni l’ho letto molto, questo è sicuro. Molto giovane ho letto moltissimo Sereni, a partire dall’edizione Einaudi di Gli strumenti umani, approdando all’edizione Mondadori Tutte le poesie, per lo Specchio.

Credo siano anni che non apro più Tutte le poesie. Me lo sono portato dietro pure nei vari traslochi in Francia. Ho lasciato nei cartoni Risi, Raboni, Pasolini, Giudici, persino Caproni (che sciocchezza!), quasi tutto De Angelis e Magrelli, ma mi sono portato dietro Sereni, anche se non lo leggo più da anni, anche se continuo a non leggerlo, e quando ci provo, a leggerlo, non ci riesco.

Mi si è formato come una specie di bizzarro, radicato, pregiudizio: Sereni è un uomo degli anni Cinquanta, un uomo che deve avere il garbo e la serietà degli anni Cinquanta, degli anni Cinquanta che sono per me del tutto immaginari, gli anni di Sereni, appunto. Si definiscono assieme, il poeta Sereni e gli anni Cinquanta.

Per altri versi, è come se Sereni fosse ovunque. L’unica poesia possibile sembra una poesia alla Sereni, una poesia “verso la prosa” (come direbbe Berardinelli, in una delle sue solite orazioni funebri sulla poesia contemporanea), una prosa attenta e grigia.

Se esistono “sfondi sereniani”, devono essere grigi. C’è molto grigio nelle sue poesie. Un grigio tipico degli anni Cinquanta.

Prendiamo Al distributore (sfoglio un po’ a caso). È tutto ineccepibile, un attacco tagliente, un avanzare implacabile, dentro una sorta di sfondo vago, fino alla precisione toponomastica, a quell’inserto di oralità semplice, perfettamente ritmica e ritmata. Poi lo spazio bianco, e il distico finale. Distico al quale è impossibile credere. Oggi, almeno. C’è qualcosa di stridente, amaro e ironico, in quel breve ritratto: “O azzurra fermezza di occhi di re…”, a leggerlo oggi. Anche il “grigio” Sereni sembra troppo solenne. Si sente che appartiene a un altro mondo, un mondo dove ad un giovane, ma brillante filologo e critico, è possibile fare un ritratto incentrato sulla regalità dello sguardo. Si onorava diversamente la poesia e la cultura, allora. Sono versi degli anni Sessanta, ma è come se fossero eternamente prigionieri in un grigio e garbato sgabuzzino degli anni Cinquanta.

Ma c’è un altro Sereni: quel Sereni che io ho assorbito inavvertitamente, di continuo, e che è talmente familiare, da non potersi più riconoscere, è calato da tempo nella mia voce, nelle nostre voci, una cadenza diffusa, anche infida, contagiosa. Tutti adottano quel grigio, tutti smorzano, tutti ritagliano con abilità il paesaggio più ordinario, tutti si muovono in quella sua veglia stordita, ambigua.

Eppure, è come se Sereni fosse sul punto di dirlo – come a Fortini, a volte, riesce benissimo – il puro non senso, l’ottusa, affascinante materialità del mondo, e l’insignificanza dei gesti umani, degli strumenti fuori dallo scopo. In Ogni volta che quasi, la straordinaria scenetta, l’incontro umano, risibile-bizzarro-enigmatico. Ma poi Sereni deve iniettare la sua stilla simbolista, la sua oscurità evocativa, inserire il mistero, l’epifania, o chissà cos’altro. Quel mancato taglio, è il segno dell’antichità di Sereni, la poca, per me impossibile fratellanza.

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Guido Mazzoni

Ho cominciato a leggere Sereni alla fine degli anni Ottanta. Lo leggevo con assiduità, conoscevo a memoria alcune delle sue poesie, ma le cose che provavo velleitariamente a scrivere in quel periodo erano molto diverse da quelle che si leggono nei suoi libri più importanti, Gli strumenti umani e Stella variabile. Sereni è un poeta lirico, uno dei più grandi della letteratura italiana moderna; i testi che cercavo di mettere insieme erano pieni di schermi antilirici, usavano l’impersonalità, lo straniamento e l’ironia per mascherare o eludere la prima persona. La cultura dentro la quale mi ero formato diffidava dell’io. Ero influenzato dalle frange estreme del modernismo americano, da Beckett, dalla neoavanguardia, e prima ancora dall’idea che il presente, lo stato di cose presente, avesse svuotato gli individui dall’interno, trasformandoli in caricature. Fuori dai testi, nella realtà, le persone che incontravo non mi sembravano soggetti in senso enfatico ma aggregati di forze anonime, controfigure di qualcosa, spettri – io per primo. Nel 1993 smisi di scrivere.

Sereni ha cominciato a contare molto per me nell’età in cui il campo dei possibili, molto esteso quando si hanno vent’anni, comincia a chiudersi e si scopre di avere un destino, di essere diventati una persona, questa persona e non un’altra. In quel momento mi è sembrato chiaro che, se ogni individuo è la risultante impropria di forze che lo trascendono, questa risultante è anche la sua unica proprietà, l’unica cosa che non può scambiare, la sola che davvero gli interessi. Ciò è sempre vero, ma lo è ancora di più nella nostra epoca, la più individualistica, la più narcisistica della storia. Per questo non ha senso sfuggire al confronto con le strutture letterarie radicate negli a priori della condizione moderna, quella che fa di noi degli individui contingenti gettati in un mondo, nel tempo, in mezzo agli altri. Non prendere sul serio, per una sorta di partito preso, l’io (o i personaggi, o le trame) significa non cogliere, del tutto o in parte, l’essenziale di questa condizione, che però sfugge anche a chi adotta quei dispositivi in modo ingenuo, senza comprendere che l’io, il personaggio o la trama debbono essere riscritti di continuo, acclimatati a un’epoca che sistematicamente li svuota e li tritura. A metà degli anni Novanta, mi sembrava che occorresse trovare un modello di prima persona conforme a ciò che le prime persone erano diventate, e mi pareva che Sereni, e con lui Fortini o De Angelis, potessero aiutarmi in questo compito. Gli strumenti umani e Stella variabile presentano al lettore un io lacerato e plurale; ripetono i gesti della grande lirica tragica collocandoli nel nostro paesaggio psichico e fisico, fra i cavalcavia di Milano, i treni in manovra, il secondo anello dello stadio di San Siro. Quando ho ricominciato a scrivere, nel 1997, Sereni era uno dei miei autori.

Oggi lo leggo meno spesso. Oggi mi interessa esprimere di nuovo il pulviscolo impersonale che circonda e attraversa le vite personali; mi interessano le singolarità qualsiasi, la dialettica fra il qualsiasi e i nomi propri, a cominciare dal mio. Gli autori cui guardo sono altri, e molti di loro, come mi capita spesso, non scrivono poesie.

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Giovanna Frene – Vittorio Sereni: la chiara oscurità del tempo

Per un motivo che in genere ci sfugge, si nasce in un certo luogo; se si nasce in un paesino di provincia, può accadere che nella locale biblioteca alcuni libri di poesia contemporanea non si trovino, o che l’attrattiva del genius loci poetico sia così forte, da oscurare inizialmente tutto il resto. Sono dunque arrivata tardi, direi già “formata”, a Sereni, poeta grande in cui però non mi sono mai rispecchiata, e che non è stato per me fonte d’ispirazione, quanto di ammirazione. Paradossalmente, di Sereni mi colpisce da sempre quella che definirei una chiara oscurità: Sereni è un poeta, anche linguisticamente, molto difficile, oserei dire impervio, irto di difficoltà laddove invece si crede di leggere facili trasparenze. Tra i miei testi preferiti di Sereni colloco sicuramente Intervista a un suicida (ne Gli strumenti umani), una delle più belle poesie del Novecento europeo. Fortini e Mengaldo in memorabili saggi hanno posto in rilievo il prevalere, ne Gli strumenti umani, l’uno della ripetizione e della reticenza, l’altro dell’iterazione e della specularità, e specialmente Mengaldo ha dimostrato come tali “strutture verbali” vadano quasi sempre a combaciare con le corrispondenti “figure tematiche”, per cui “ricorrenza e specularità sono le matrici tematiche dominanti secondo cui s’organizza la visione della realtà negli Strumenti umani” (Mengaldo, in Vittorio Sereni, Tutte le poesie, Mondadori-I Meridiani, 1995, p. LVIII).

Intervista a un suicida è una poesia scritta come allo specchio, ma con lo specchio tipico di Sereni, ossia quello che, ruotando, a un certo punto si pone esattamente di fronte a sé stesso, reduplicando all’infinito la realtà che all’inizio sembra essersi fissata in esso come su di una pellicola: 1) la realtà che emerge  è ancora una volta quella mnemonica – l’io narrante vede nel ricordo (lo dimostrano i tempi verbali) l’ombra (l’anima?) del suicida e il suicida racconta, con un effetto di mise en abyme, la vicenda precedente alla sua morte, e ciò che l’ha poi causata; 2) l’enunciazione del discorso inizia ad un certo punto di un moto continuo, e tale per cui fino al v. 4 non si capisce quale, dei due, sia l’io che inizia a parlare, rivolgendosi all’altro; 3) la fuga contrappuntistica delle due voci, l’io del suicida e l’io del poeta, è strutturata in modo tale che le riprese tematico-lessicali rendono alla fine intercambiabili le due voci e le due sponde (es. v. 1, “L’anima, quella che diciamo l’anima”, ripreso in v. 15 “alla detta anima, cosiddetta”, confermato al v. 17, “rispose per lei (per me)”).

Dentro questo gioco di specchi, si diramano le direttrici dell’emergenza di fatti dell’esperienza/passato; ma la deformazione onirica (come ritorno), causata in ultima analisi dall’esperienza di una morte traumatica, crea l’effetto di una giustapposizione temporale – una sorta, anche qui, di doppia sponda –, piuttosto che di un concrescere del passato nel presente: il posto “non cambiato” (v. 8) è allo stesso tempo “ora in polvere” (v. 11), con il sovraccarico inoltre della contrapposizione bagnato-passato/secco-presente; la storia/Storia che racconta il suicida (l’anima?) è poi essa stessa un passato diventato memoria, con le immagini dei morti della guerra (v. 25, “la carretta degli arsi da lanciafiamme…”) e quelle più private degli affetti (v. 31, “<<mia donna venne a me di val di Pado>>”, v. 35 “ebbi un cane, anche troppo mi ero affezionato”).

La stessa prospezione verso il passato, è un consuntivo verso il futuro: il tempo in cui parla l’io del poeta è quello dell’hic et nunc, il tempo dove non solo si è consumata la distanza del crimine e del suicidio, ma anche della consunzione del corpo introdotta dalla morte (vv. 48-49, “Ma venti trent’anni / fa lo stesso, il tempo di turbarsi / tornare in pace gli steli”) e della parallela modificazione antropologica del “corpo” del paese del suicida (vv. 54-55, “lo spazio / si copre di case popolari, di un altro / segregato squallore dentro le forme del vuoto”).

Questo testo in definitiva è forse il canto più apocalittico, in quanto ricapitolativo dei tempi, di Sereni, perché l’ombra (l’anima?) che appare, come un Ulisse dantesco, è già quella giudicata nel contrappasso, e dice all’io sull’altra sponda, cioè a tutta l’umanità dei vivi, che l’ammanco, il vuoto, il male, era nel suo cuore, e non nelle cose; e allo stesso, tempo per chi sappia ascoltare i “lamenti dal cuore della città / sulle città senza cuore “ (vv. 58-59), a questi il poeta affida l’eterna verità dell’inferno umano e del destino di polvere che attende, qoeleticamente, l’uomo di ogni tempo.

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Laura Pugno

Direi che ho incontrato la poesia di Vittorio Sereni – rispetto a tanti altri nomi del nostro Novecento e non – piuttosto tardi. Ero già all’Università, studiavo alla Sapienza di Roma per la seconda, tanto desiderata, laurea in Lettere, doveva essere la fine del ’93 o l’inizio del ‘94. I due corsi monografici in Letteratura Contemporanea di Bianca Maria Frabotta – con cui poi mi laureai – che frequentai erano uno su Giorgio Caproni e uno, appunto, su Vittorio Sereni. Il tema di entrambi era,  più o meno, “un altro Novecento”.

Non c’era ancora un’edizione delle opere complete, e per quel corso in particolare ricordo altissimi mucchi di fotocopie, che avevo fatto rilegare con una spirale di plastica per riuscire a portarmele dietro. Sono scomparse in qualche trasloco, ma forse le ritroverò.

Pur trovando struggente quello che leggevo – una certa qualità di struggimento, come se tremasse l’aria, mi è sempre sembrata la cifra di questo poeta così contenuto in se stesso – mi sembrava allo stesso tempo di non potermi muovere per quelle strade, che quell’altro Novecento non fosse il mio. Quella poesia tracciava un paesaggio coltivato, condiviso, umano, un’ora del giorno che era, nonostante tutto, quella della condivisione. Io volevo andare per altri e più feroci territori.

E così mi è sembrato per anni, e ora il Novecento è finito, e a tanto tempo da quelle prime letture, mi rendo conto che la memoria ha fissato “a memoria” molti dei versi di Sereni, anche se in forme distorte, come fa sempre. La distorsione rivela qualcosa di chi ricorda, non di chi è ricordato, ma non ne parlerò ora.

E – più sorprendente questo, per me, quando me ne sono resa conto, già prima di questo anniversario – a volte qualcosa di quell’altro tempo e luogo, di quel controtempo e luogo, e in modo particolare, qualcosa della sintassi di Sereni, torna nella mia sintassi in versi. Lo fa quasi di nascosto, è vero. Ma io me ne accorgo.

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Gabriel Del Sarto – Servirmi di Sereni

Leggere Sereni per me è diventato un antidoto all’intellettualismo dei bravi speculatori, dei filosofi che vogliono convincermi che la vita e quello che chiamiamo mondo siano realtà complicate e inestricabili, insensate e vivibili solo cinicamente o stoicamente. Leggere Sereni è ritrovare quell’istinto che da sempre mi porta a diffidare di chi diffida della pura esperienza. Leggerlo è sentire la vita nei versi, l’esperienza concreta dell’uomo sulla terra e sentirla più vicina. Una poesia fatta di e per questo. Dell’esperienza che ottieni quando non ottieni ciò che desideri, o anche dell’esperienza che maturi quando ti è preclusa la scelta, quando tutto è nulla e silenzio e la storia e la cronaca ti tolgono il fiato, e il vento non soffia più leggero. Rileggere Sereni è davvero percepire la possibilità di un diverso uso della mia esistenza.

Questo accade perché aleggia in Sereni, come nel finale de La spiaggia, una speranza, per quanto difficilmente afferrabile, di un racconto che tornerà, che ancora ci parlerà dei nostri destini. Ecco, un così onesto e diretto amore, non intellettualistico, per le umane vicissitudini assegna ad esse una dignità che ormai spesso le scienze, la sociologia, la psicologia e pure la filosofia, non conoscono più.  La realtà di cui Amsterdam è figura, infatti, alla fine è vertiginosa e magnifica nella sua semplicità, nei suoi tre quattro elementi che la compongono. L’enigma in cui siamo immersi, che pure non pare dileguarsi, richiede – questo mi insegna il mio Sereni! – fiducia e non solo resistenza al non senso. Si tratta di una fiducia che discende, forse, dal fatto che la realtà è anche un dovere, un obbligo. Essa irrefutabilmente esiste domandandoci di prendere una posizione, per quanto questa sia impossibile da assumere totalmente.

Ecco mi interessano i poeti e le poetesse che quando gli strumenti umani sono da costruire, perché i già noti non funzionano più, questi strumenti li costruiscono, scavano e trovano con le loro parole, un senso oltre le illusioni e le percezioni. In altre parole accettano la sfida infinita, compiono il loro viaggio. Non solo godimento estetico quindi, ma poesia come mezzo per edificare abilità su come vivere la vita. Per questo, ad esempio, leggere il dialogo coi morti a partire dalla solitudine di una spiaggia, come quella che davanti alla mia casa d’infanzia ho spesso battuto d’inverno, può essere uno strumento privilegiato per creare, quel poco che realisticamente ci è concesso, il nostro destino. I morti ci indicano che siamo già nudi e che le toppe d’inesistenza, il non senso vissuto come quieta disperazione, sono il vero nemico della vita, il contrario della ricerca della felicità cui siamo chiamati.

Quando torno a rileggere silenziosamente Amsterdam o La spiaggia, lo confesso senza reticenze, mi commuovo e penso che la gratitudine che provo sia una forma di felicità non illusoria. Torno a dirlo: l’atteggiamento di adesione alla realtà, di fiducia e interesse nei confronti dell’esistenza, che mi pare di percepire anche nei testi più duri e angosciati, possono insegnare, a chi si accosti a Sereni senza filtri e con lo stesso atteggiamento da esploratore, uno sguardo straordinario.

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Italo TestaSpecchioSereni

Sereni per noi – quest’immobilità – non arrivare mai – Sereni – da nessuna parte – in nessun luogo –

Sereni – il tempo sospeso – Sereni – persi in una bolla – Sereni – lago d’ombre –  Sereni – il passato che non passa –

Sereni – di noi sempre in ritardo – Sereni – il tempo irreparabile – Sereni  –  in ritardo sulla propria generazione – la nostra generazione – a insabbiarsi per anni –

Sereni – girare in cerchio – Sereni – la nostra Algeria – Sereni – a volte in sogno – Sereni – spalare al più presto –

Sereni – tempo speso male – Sereni – gioventù in malora – Sereni – tradire ancora – Sereni – ancora tradire –

Sereni – volto voce sogno – Sereni – sogno voce volto – Sereni – scegliere un volto – Sereni – scegliere migliaia di volti –

Sereni – il nostro ventennio – Sereni – la nostra viltà – Sereni – le paludi del sonno – Sereni – le paludi del caimano –

Sereni – scegliere un volto per specchiarsi – Sereni – specchiarsi in un volto inesistente – Sereni – vivere tra parentesi – Sereni – insabbiarsi per anni –

Sereni – morti alla guerra – Sereni – morti alla pace – Sereni – cono d’ombra – ripetizioni – Sereni – iterazioni –

Sereni – sbandare – perdersi in sogno – Sereni – altri frammenti – altre sconfitte –

Sereni – il tempo nebbioso – gli anni abbacinati – Sereni – swamp thing – vado a dannarmi –

Sereni – stanno sereni – i morti come noi – Sereni – in un loro limbo  – ombra stagno volto – Sereni – mimetizzarsi – Sereni – mimetizzarsi e sparire –

Sereni – questi fantasmi  – adesso è finita – Sereni –  stagni malvagi – epifanie di volti –

Sereni – i giorni opachi – Sereni – gli anni in proroga – Sereni – le nostre paludi – Sereni – la mente prigione –

Sereni – a crogiolarsi – Sereni – su un binario morto della storia – Sereni – a dannarsi – Sereni – la palude del caimano – Sereni –  la nostra gioventù in malora

Sereni per noi – lancette ferme – Sereni – quest’immobilità – Sereni – persi in una bolla –Sereni – espulsi  dal futuro – SpecchioSereni

[Gli autori che hanno aderito all’iniziativa sono, in ordine anagrafico e alfabetico: Andrea Inglese, Guido Mazzoni, Giovanna Frene, Laura Pugno, Gabriel Del Sarto, Italo Testa, Gilda Policastro, Giovanni Turra, Corrado Benigni, Andrea Ponso, Alessandro De Santis, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Roberto Cescon, Isabella Leardini, Matteo Fantuzzi, Carlo Carabba, Matteo Zattoni, Carmen Gallo, Franca Mancinelli, Mariagiorgia Ulbar, Tommaso Di Dio, Domenico Arturo Ingenito, Marco Bini, Guido Mattia Gallerani, Lorenzo Mari, Maria Borio, Davide Castiglione, Marco Corsi, Alessandra Frison, Francesco Iannone, Anna Ruotolo, Lucia Cupertino, Bernardo De Luca, Francesco Terzago, Dario Bertini, Giorgio Meledandri.]

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).