Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /5

da | Dic 19, 2013

Prosegue il nostro omaggio a Vittorio Sereni. Nel quinto gruppo, le testimonianze delle ultime generazioni sono di Carmen Gallo (1983), Marco Bini (1984), Guido Mattia Gallerani (1984), Omar Ghiani (1984), Lorenzo Mari (1984). Seguiranno nei prossimi giorni gli ultimi due gruppi.

Carmen Gallo – Uno sguardo di rimando. Su Sereni

Negli ultimi anni ho incontrato e ho parlato con molti giovani poeti, e sempre, per quanto diversa apparisse la nostra ricerca, l’accordo più insperato si è raggiunto pronunciando il nome di Vittorio Sereni: Gli strumenti umani o Stella Variabile sono considerate raccolte fondamentali, sia da quanti vi riconoscono un debito sicuro, sia da quelli che avvertono ormai una distanza, e faticano a riconoscere la poesia sereniana come cifra risolutiva o coincidente con ciò che tocca ora provare a raccontare.

Partire da questa relazione ambivalente, isolando alcuni degli spunti che essa offre, fa senza dubbio torto alla complessità di Sereni, ma mi pare in qualche modo utile per riflettere sul valore della poesia – quel valore che Sereni difendeva pure tra le macerie di senso che circondano il soggetto contemporaneo – e sul futuro di tre parole-chiave: liricità, esperienza, dialogo.

Se, contro le neoavanguardie, aveva ancora senso per Sereni difendere l’aggettivo “lirico”, le attuali contaminazioni prosastiche – che hanno ulteriormente abbassato e vaporizzato lo statuto diremo tragico della lirica contemporanea – mi paiono talvolta alimentare l’illusione che si possa fare a meno di questo slancio (foss’anche nel vuoto). E invece, soprattutto tra le maglie del discorso più colloquiale e quotidiano, l’azzardo lirico come infrazione sintattica e straniamento fonico e retorico  può aprire squarci di un senso profondo, e sottrarre all’autoreferenzialità di uno sperimentalismo tardo, equivocamente postmoderno, o alla facilità psicologica o spontaneistica, la pretesa di una ricerca poetica concreta.

Tornare a lavorare sulle forme più “aderenti” che la lirica può ancora assumere in questo primo scorcio di secolo significa anche, per venire alla seconda parola chiave, restituire un valore fondante all’esperienza diretta del soggetto. E non è un dato così scontato, questo, in un tempo come il nostro, lontano dalla storia, che sistematicamente tende a sostituire l’esperienza con surrogati simulati, rarefatti, lasciandoci a lungo superfici lisce e inscalfibili, rivestite di discorsi e impulsi prestampati. Gli stessi che ci illudono di poter riciclare esperienze indirette, mediate (rimbalzate da giornali o ri-mediate nella rete), per fare i conti con quelle che Sereni, in una precedente stesura della Nota a Gli Strumenti umani, chiama «le intimidazioni e i ricatti dell’impegno di vario tipo». Mi pare questa un’altra delle questioni più delicate della poesia contemporanea, e non solo di quella dei cosiddetti giovani poeti: la tentazione di mettere in piedi una “operazione” letteraria di forte impegno (o ostentato disimpegno, che è uguale) politico, sociale, culturale ecc. che di fatto esaurisce nelle intenzioni o nelle premesse il proprio valore, e che pur di prescindere dall’autobiografismo rinuncia alla compromissione personale con gli aspetti più contraddittori della realtà.

Avere il coraggio di trovare l’esperienza nel mondo prima che nella parola. E poi, rimandare tutto questo a un destinatario, a un interlocutore, interno o esterno, vivo o morto: un altro, che rende il colloquio possibile, e chiude il cerchio del tragico e del vissuto nella forma di una relazione ancora possibile, come, per esempio, il dialogo, l’amicizia. Lo sguardo che tra le macerie cerca l’altro, un altro indistinto o interiorizzato, che ricambia l’offerta di una fiducia temporanea, di rimando, è il monito più prezioso della poesia di Sereni, perché allude al persistere di un campo in cui, anche se accerchiati dalla perdita di senso delle cose, riconoscersi è ancora possibile.

Tradurre e ricontestualizzare questa consapevolezza nella poesia a venire sarà desiderio non so di quanti, né si può escludere che questo debito se pure decisivo sarà a tal punto trasfigurato da essere irriconoscibile; tuttavia, mi pare questa la strada che condurrà, attraverso nuove forme, a una partecipazione più tenace, o disperata, alla vita del mondo: quanto più questa si fa impalpabile, e atomizzata, tanto più vale la pena tentare ancora, nella forma della poesia, lo scavo profondo, umano, condiviso.

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Marco Bini

Se decidi che la poesia farà parte della tua vita, c’è un momento in cui la lettura diventa un atto adulto, autonomo. Basta intermediari, ma la necessità di affrontare il libro, e le poesie che questo contiene, in immatura solitudine.

Quando ci si inoltra nel paesaggio novecentesco, Vittorio Sereni brilla di una luce sua propria. Con lui, si incrocia un poeta che fa esattamente quello che, in quel momento della vita, ti aspetti che faccia un poeta. Accoglie, innanzitutto. Pur sfuggente, talvolta ritroso, il passo del verso sereniano crea uno spazio abitabile, una sensazione di conforto. In un secolo che non ha lesinato quantità di energie intellettuali e dove molti sono gli scrittori dalla presenza monumentale, Sereni si muove in una dimensione interstiziale, quasi, con la pensosa impalpabilità di un uomo che abbia voglia di starsene per conto proprio.

Pochi i libri pubblicati da Sereni in una vita, e quindi un numero limitato di poesie, ma sufficienti a tratteggiare un’esperienza che – è un dato riscontrabile – oggi esercita un fascino lungi dal tramontare. Forse è per quel tratto gentilmente irrequieto, o per l’irreplicabilità di certi versi – nel duplice senso di stile da non potersi imitare e assolutezza degli enunciati – ma di Sereni sopravvive un’immagine forte, e probabilmente una particolare forma di nostalgia, quella che colpisce chi non ne ha condiviso il tempo.

Credo che di Sereni, in quel frangente, colpiscano l’assenza di iperletterarietà e la rinuncia ad atteggiamenti programmatici. Non che questi siano valori in sé, ma l’approssimarsi a una verità benché parziale e personalissima, e la costante tensione della scrittura a riprodurre i movimenti di un animo sono esposti in ammirevole immediatezza. Del resto, in uno scritto del 1947 (quindi coevo al Diario di Algeria), era lo stesso Sereni a descrivere il poeta, e dunque sé stesso, come «un credente che aspetti i segni della grazia […] e senza fiducia nel merito che l’opera potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo […] che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta». Un passeggiatore soprappensiero lungo le sponde del suo amato lago più che una guida esperta dei sentieri da percorrere.

I grandi poeti diventano tali perché largamente riconosciuti tali e per capacità di coinvolgimento, e Giovanni Giudici di Sereni sottolineava, all’indomani della scomparsa, «la spontanea […] coincidenza fra esperienza individuale ed esperienza comune». Questa capacità di diventare “comune”, cioè patrimonio ancor prima sentimentale che culturale di molti, è forse ciò che rende Vittorio Sereni uno di quei poeti che si possono pure superare in una vita di letture, ma non tralasciare.

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Guido Mattia Gallerani

Mi chiedo se la sintassi si possa considerare una funzione caratteristica della poesia di Sereni: un valore artistico a sé stante, indipendente da ogni ipotetico oggetto o dal suo compito di conduzione del senso. Ad essa va riservato forse un qualche posto in un ipotetico catalogo degli stili lirici novecenteschi, dacché una combinazione così funzionale tra lirica e periodo sintattico non credo sia riuscita nemmeno a Montale. Penso a Saba: difficile dire se il tema di questo componimento sia più l’omaggio al poeta o l’accusa al nostro paese. Colpisce ad ogni modo la tenuta di un periodo, definito da alcuni come il più bel giro di frase della poesia italiana del Novecento (“Sempre di sé parlava ma come lui nessuno / ho conosciuto che di sé parlando / e ad altri vita chiedendo nel parlare / altrettanta e tanta più ne desse / a chi stava ad ascoltarlo”). La sintassi è di norma razionalista; non è suo compito esaurire i dati emotivi, come la metafora. Una frase ben fatta dà a una poesia un effetto di struttura ma diventa invisibile nella successione dei versi. Il verso breve di Ungaretti, l’osso di Montale, sono, in qualche modo, il mito della nostra poesia; rappresentano la merce in abbondanza disponibile nella scrittura d’oggi, il capitale che s’ingrandisce delle proprie imitazioni, se è vero che la ripetizione di un classico coincide con la sua accumulazione. Ma anche se il verso lirico moderno può farsi mito, la sintassi resta immune da ogni appropriazione: si salva come residuo, come trasparente articolazione del linguaggio anche dentro la lirica stessa. In tal senso, la frase di Sereni è trascendentale non solo rispetto alla lingua ordinaria, ma anche alla lingua della lirica, e non solo per questione di ritmica, di enjambement. La sua sintassi è espressione di una lotta creativa interiore e, al contempo, la precondizione per una lotta della lirica stessa. 1) Stringe in un solo periodo una definizione quanto mai precisa (l’identità di Saba) ma ne dilata al massimo l’espressione; nega la coercizione tipica della frase moltiplicandone i livelli, i passaggi verticali: a ben guardare, rivendica la libertà della lirica come complessità necessaria alla parola che rimira le profondità del pensiero. 2) Dopo quel “giro di frase”, la poesia Saba continua in un tono colloquiale e accetta l’interferenza della comunicazione di massa, della “radio”, della parola volgare (“Porca”): siamo già a una separazione di stili. La Storia ha fatto la sua entrata (le elezioni del 1948) e con essa la contaminazione di un genere borghese, la lirica, per mano di un disilluso ex-prigioniero di guerra intrappolato nella città del capitalismo industriale. L’inseguimento di Saba a Milano è quello di un’altra politica e di un altro esito. Allo stesso modo, la sintassi di Sereni è una delle forme più controllate scaturite dalla sua tentazione per la prosa.

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Omar Ghiani – Sereni: poeta di storia

Sereni per me è poeta di storia: da anni lo leggo soprattutto in questo senso. Lo è intrinsecamente, la sua è una lirica che supera l’ermetismo forse non tanto nella lingua quanto nell’oggettivazione dei contenuti, determinati all’interno di un contesto storico precisato. Ciò è visibile a partire dall’esperienza del Diario d’Algeria in poi. Scrive Fortini nel 1966 che Gli Strumenti Umani “è un libro che può essere letto come raffigurazione della storia italiana – in una certa misura europea […]. Non soltanto per le indicazioni di scena: avvento della Repubblica, […] la guerra d’Algeria […]. Ma per vere e proprie “intermittenze storiche”, identificazione d’atmosfere, di attimi particolari che diventano sovraccarichi di significato.” Questo è verissimo: nelle “intermittenze storiche” Sereni dispiega il suo discorso; ma a mio avviso la sua indagine è portata avanti in modo ctonio da un orecchio permanente che pratica l’auscultazione dei suoi luoghi come soggetti storici a lunga durata. La poesia di Sereni è infatti rivelatrice di questa duplicità di sguardo storico: da un lato la concretezza di “un improvviso vuoto del cuore/ tra i giacigli di Sainte-Barbe”, che sottolinea l’esperienza nell’immediato; dall’altro un soggiacente presentimento del tramonto di un’epoca, quella eurocentrica delle espansioni, che lo aveva condotto senza senso “spesso per viottoli tortuosi/ quelque part en Algérie“, e che lo obbligava a pronunciare – quasi a denunciare – il nome del luogo non nella sua lingua o nelle lingue locali (araba o berbera) ma in quella della Francia coloniale. In quegli anni in Algeria si agitavano appunto i movimenti anticoloniali (il Manifesto del popolo algerino veniva scritto nel 1943, periodo d’inizio dell’esperienza algerina di Sereni) che avrebbero portato nel 1962 all’Algeria indipendente. In tutto ciò Sereni percepì chiaramente la fine di un’era, la mutilazione dell’Europa sentita di persona prima che “d’oblio/ solo un’azzurra vena abbandona/ tra due epoche morte dentro noi”. Se per Eliot l’umanità finirà in un whimper, Sereni trova nel “latrato” il valido corrispettivo che fuoriesce da “il muso erto d’Europa, della cagna/ che accucciata lì sta sulle zampe davanti”. Riconoscere tale lungimiranza non può corrispondere a de-storicizzare l’opera di Sereni, la quale risente di una certa patina anni Cinquanta palese. Per esempio, nella fattispecie di questa analisi, in Sereni si sente ancora il mondo nordafricano come alterità percepita con uno sguardo sociologico tipico del suo tempo (il “folle/ ritmo di ramadan” in questo senso ha un sapore estetizzante, così come lo avrà la fede improvvisata dal poeta nella poesia Muezzin dove questi “dice che Allah è grande/ e a quest’ora della notte/ in questa ora morta/ io ci credo”). Lungi da ciò tutta l’opera è pervasa dal declino del ruolo europeo che aprirà la strada, mezzo secolo dopo, ad un mondo arabo di varie primavere. Questo per me significa rileggere Sereni oggi, questo ha significato leggerlo negli anni: trovare nelle sue parole il sentore dei fatti che a partire dagli anni in cui scriveva hanno cambiato o cambieranno il mondo – ossia trovare una certa concretezza demistificata da dare al valore vaticinante dello sguardo poetico, in cui credo fermamente. Scriveva Quasimodo nel 1953: “ma un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra; in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.” Forse è azzardato leggere dentro le parole di Sereni tutta questa storia. Ma questo è certo: geopoeticamente Sereni non rinunciò alla sua presenza e sguardo verso il futuro in un dato spazio. In conclusione viene da domandarsi: è azzardato ritrovare in questi scritti la matrice che determinerà la gioventù araba iscritta nel declino stesso dell’Europa centralizzata, dalla quale il poeta si distanziava (“Europa Europa… sono un tuo figlio in fuga”)? Lo è, me ne rendo conto. Questo allo stato attuale non mi sembra azzardato: concludere questo scritto con un suo verso che ha sempre suscitato in me un sentore storico grande – e la cui portata, come quella dell’ultima parte della sua opera, non si è ancora manifestata che con baluginanti segni in attesa che sopraggiunga la storia: “quanti dispiaceri la gioventù (degli altri) ci darà d’ora in poi.”

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Lorenzo Mari – Diario bolognese: prima dell’arrivo, la partenza

Non  cabala, ma opere di bene. O anche soltanto un’opera di bene diffusa – di contro al male – in pagine di diario…

…Mi spiego, se riesco.

Il 2013 segna il centenario della nascita e il trentennale della morte di Vittorio Sereni. Se non la poesia, l’aritmetica, almeno, non fa sconti. Tra il 1913 e il 1973, infatti, si dipanano una biografia e una scrittura che contengono qualche imprescindibile salto in avanti e al tempo stesso rimangono, in fondo, ‘tutto Novecento’. E anche quando, a chiusura dell’edizione definitiva di Diario d’Algeria, si legge dell’”8 settembre ’43-63”, il ventennio è novecentesco, e assai gramo… Pur venendo dopo un ventennio peggiore…. Se è vero poi che 63 e 93 sembrano fare d’altri conti, suggerire la forza dei numeri è soltanto uno spintonarsi invano, dentro un certo secolo: anch’essi vi appartengono e allo stesso tempo vanno, con qualche limite, oltre…

…Le pagine di diario, allora. Un amico mi confidava in un baretto, qualche tempo fa, di aver sempre sostenuto che dopo Laborintus Sanguineti scrisse molto diario, infiorettandolo di segni diversi, certo, ma pur sempre scrivendo pagine di taccuino. E questo forse basta a fare opera di bene – di contro al male – e chiudere certo secolo scorso davanti a un caffè.

Di buono, però, le pagine di diario, specialmente quando poi si tratta di un diario letterario, hanno che sono tutte perfettamente conchiuse, concluse in sé, come invariabilmente si chiude ogni giorno, ma devono essere sempre lette insieme, con il volgere del calendario. La poesia – vorrei dire, prendendo il respiro, e con la dovuta calma: tutta la poesia – di Sereni, è questo che mi racconta: le fasi, le transizioni, i percorsi son cosa da filologia e da critica d’alto bordo; ogni singolo testo di Sereni è apice di una sua fase, e la trascende, è perfetto, e conchiuso, nel suo essere aperto. Si dirà, questa è l’esattezza del canone: già, ma è l’esattezza che si è persa. E il lamento si trascrive, ineffabile, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Amare tutto, di Sereni, e scegliere un singolo testo. In quest’ottica, e solo in questa, per me, è un’operazione che si può tentare.

Se dunque non c’è transizione che tenga tra le sezioni “La ragazza di Atene”, “Diario d’Algeria” e “Il male d’Africa”, se in fondo non è che in Diario d’Algeria irrompa la storia, per dirla con Giacomo Debenedetti, o che questa prenda la forma di un angolo morto di se stessa, per dirla con Giovanni Raboni, le sezioni del libro rivisto, nella prima e nella seconda pubblicazione, questa o quella, per me pari sono: in tutte, l’angolo di visuale – sulla storia, sul diario, eccetera – è perfetto.

Indugio tra il già citato “8 settembre ’43-63”, dal plurilinguismo esploso – che può essere frontiera, si può dire?, di certo futuro – e il “Diario bolognese”, testo forse ancorato a fasi precedenti. Scelgo quest’ultimo, perché nonostante l’importanza del futuro, questo testo mi è più caro…

…Perché lì succede, infine, che ci si imbatta in un’apertura devastante, uno sbrego aperto anche per il presente, anche visto da una Bologna che per me è sempre dal basso. Perché qui si strappano i taccuini e si può scorgere, di soppiatto, come “fugge oltre i borghi il tempo irreparabile / della nostra viltà”.

Diario bolognese

Io non so come sempre
un disperato murmure m’opprima
nell’aria del tuo mezzogiorno
tanto diffusa ai colli dentro il sole
tanto quaggiù gremita e fumicosa.
E non è fiore in te che non m’esprima
il male che presto lo morde,
non per finestra musica s’inoltra
che amara non ricada sull’estate.
Invano sotto San Luca ogni strada
voluttuosa rallenta, alla tua gioia
sono cieco ed inerme.
E l’ombra dorata trabocca nel rogo serale,
l’amore sui volti s’imbestia,
fugge oltre i borghi il tempo irreparabile
della nostra viltà.

Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /1
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /2
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /3
Per Vittorio Sereni (1913-1983): testimonianze delle ultime generazioni /4

[Gli autori che hanno aderito all’iniziativa sono, in ordine anagrafico e alfabetico: Andrea Inglese, Guido Mazzoni, Giovanna Frene, Laura Pugno, Gabriel Del Sarto, Italo Testa, Gilda Policastro, Giovanni Turra, Corrado Benigni, Andrea Ponso, Alessandro De Santis, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Roberto Cescon, Isabella Leardini, Matteo Fantuzzi, Carlo Carabba, Matteo Zattoni, Carmen Gallo, Franca Mancinelli, Mariagiorgia Ulbar, Tommaso Di Dio, Domenico Arturo Ingenito, Marco Bini, Guido Mattia Gallerani, Omar Ghiani, Lorenzo Mari, Maria Borio, Davide Castiglione, Marco Corsi, Alessandra Frison, Francesco Iannone, Anna Ruotolo, Lucia Cupertino, Bernardo De Luca, Francesco Terzago, Dario Bertini, Giorgio Meledandri.]

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).