XII Quaderno italiano di poesia contemporanea

da | Mar 21, 2015

E’ uscito il XII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos) a cura di Franco Buffoni. Propone testi di Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Marco Corsi, Alessandro De Santis, Samir Galal Mohamed, con le introduzioni di Franco Buffoni, Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco, Gian Ruggero Manzoni, Fabio Pusterla, Niccolò Scaffai, Emmanuela Tandello. Di seguito una selezione di poesie scelte dagli autori e accompagnate da passi delle introduzioni.

Maddalena Bergamin

da Scoppieranno anche queste stagioni

(“«Esiste un luogo che distrugge le storie. Non che sia opposto o anche solo indifferente alla parola. La produce, al contrario, e la distrugge in uno stesso movimento. Questo luogo non esiste che nell’essere attraversato.» Ho ripensato quasi subito a questo breve passo di Phlippe Rahmy, uno scrittore contemporaneo di lingua francese, leggendo e rileggendo le poesie di Maddalena Bergamin, qui raccolte sotto il titolo Scoppieranno anche queste stagioni. Rahmy sta descrivendo nel suo libro, o meglio sta traducendo in parole, la realtà contraddittoria e sconfinata di Shangai, cioè di un gigantesco teatro dell’essere contemporaneo: una scena a suo modo terribile, che propone lo sfondo ormai incomprensibile della realtà, su cui si accampano, precarie, costantemente in bilico, minacciate e immerse nella generale indifferenza, le figure individuali, con le loro storie, le loro speranze, i loro timori.” Fabio Pusterla)

La madre è uguale alla figlia
sul fondo lo sfondo urbano, che strano
la madre è uguale alla figlia!
due volte gli stessi capelli
rossi sul fondo urbano
sullo sfondo profondo e quanto…
profondo. La madre e la figlia
sono uguali, hanno casacche
fosforescenti e parlano dietro
la linea gialla, sullo sfondo i treni
dal fondo, i rumori corrotti
i lamenti, i brusii della gente
che sta sullo sfondo. La figlia
è uguale alla madre, (la madre bisbiglia
sorride, la figlia)

*

Di vetro sarebbe comunque rimasto
il passaggio. Per scontrare le fronti
e vedersi invano parlare, garanti
le schegge minuscole del prodotto
sicuro, la trasparenza del sangue
nel labiale frainteso, l’infrangibile
velo che illude e con tonfo pesante
di carne su ghiaccio, beffardo
rinchiude

*

Descrivo lo sbalzo e la linea
nei segni rinchiuso si sposta
il segreto, il sobbalzo, l’eterno
nascondersi della parola
e della figura nel verbo
nell’acqua versata
che forma le nostre
viventi rampanti rincorse
e tu pensi che forse questo
tempo che passa si fermi
questa luce che acceca
ritorni, senza dare nemmeno
ragione dei torti
e dei giorni

***

Maria Borio

da Vite unite

(“La poesia “Mi sembra strano in questo giorno…” apre la terza sezione di questo bel libro d’esordio con quella che potrebbe sembrare un’affermazione di poetica. Ma il verbo dovere non è qui assertivo, anzi si sottrae, addirittura al punto di poter fare a meno di se stesso: quando deve parlare, cioè quando parla, o quando si propone di parlare; oppure si trasforma in concessivo […]. Il bilico, lo sbilanciamento: tra io e le cose, tra dire e pensiero, tra accordare esistenza alle cose e chiedere alle cose di legittimare la propria, il ritorno al “tu” e la sua mediazione tra l’io e il mondo sono i topoi principali di questo libro. Il testo di cui si è parlato è un discrimine in un percorso che sembrerebbe portare l’io dal timore di una “vita leggera” alla sconfitta della paura, e alla libertà (non a caso “ci libera” sono le parole che chiudono il libro).[…] Questo essere leggero e alato sembrerebbe proprio crisalide ancora oberata dal peso di ali troppo pesanti: “se potessero queste ali spesse rasoterra / trasformarmi…smetterei di guardare dritta”. Nonostante una brusca, ribelle accusa all’Altro: “Ti sei mosso su ogni lato / ti sei trovato / ogni parola disponibile, / chiara, perfetta, mostro”, il “ritorno al tu” segna un ritorno al dialogo lirico. Linguaggio, significato, essere, nel passare attraverso l’Altro, si radicano nella storia, propria e del mondo […].” Emmanuela Tandello)

Le noci aperte sul tavolo
sono ancora suono
– il movimento brillante degli occhi
dalla porta al tavolo:
il lavoro, il peso che non esiste,
le ansie leggere per le persone –
come se la bellezza non avesse un’origine.
Queste noci hanno fatto rumore,
mi tolgono i pensieri
(nascono e sono già di tutti,
tutti i pensieri…),
mi richiamano al corpo,
a quello che dico sapore
(le idee sono sempre senza corpo,
sono parte di tutti?),
mi trattengono a contare i resti,
a radunarli sul tavolo (e i miei
pensieri chi hanno reso felice?).
I gusci spaccati appartengono a queste mani,
nell’incavo, nelle linee dei palmi,
punte di semi – nasce una vita
all’istante dentro queste mani.
Non avere pensieri.

*

Appena sopra le notizie io so nomi e persone
come era il labirinto dei vetri, al parco, degli specchi
finché sbattendo trovavi l’uscita.
Perché non ho l’uscita adesso –
si chiama rete,
taglia un quadrato
e un luogo che è ovunque.

O sono il bianco in fondo
al corridoio degli specchi,
inciso di diagonali e metallico
a terra, stretto intorno al corpo
con i neon che facevano indistinti
la pelle e l’aria come un’ombra trasparente
che segue ognuno, ma a voltarsi non c’è.
E lì il pezzo di vecchia moneta,
il cerchio di bronzo con il delfino
era caduto a terra
quando siamo stati vicini all’uscita,
e per non perderla l’abbiamo lasciato.
Lì, esattamente ho creduto
a una lingua per tutti
identica dall’aria agli specchi,
dall’inventore del labirinto alle nostre mani sudate
che proteggevano la fronte:
errore o deviazione,
ma era solidità
sbattere la fronte a volte
prima di arrivare.
E all’uscita del parco il maestro delle crepes,
la breccia in cerchio come la piattaforma scura
dove tiri e peschi
e perdi, e poi le scarpe da ginnastica
sulla breccia e il mese certo
novembre – sempre un rito

mentre il tempo adesso è filiforme
e i sentimenti certi che tutti possono capire
e vedere nella sola infinita
rete – o, a volte, in equilibrio,
qualcuno che riporta la moneta.

*

Mi sembra strano in questo giorno
quasi alla fine della settimana
mettersi a guardare
le cose e il mondo,
le cose che potrebbero essere diverse
dal mondo e il mondo
che potrebbe esistere anche senza le cose.
Le cose – è stato detto – parola imperfetta,
male educata perfino quando dice
né questo né quello
né alto né basso – e il mondo che è
questo quello alto basso.
Le cose e il mondo dovrebbero dare
lo stesso – perché una poesia identifica
e unisce, quando deve parlare
delle cose e del mondo,
se deve parlare.

………Ho vissuto il mondo nella sfera –
le foglie diventano alberi,
le pietre case, la stoffa protegge,
la pioggia non bagna sempre allo stesso modo.
E se le cose prendono nome
all’improvviso la linfa esiste platano,
l’arenaria condominio,
il lino ritorto è la giacca,
le gocce enormi che macchiano il catrame
arrivano prima di un temporale forte ma breve.
Guardo i nomi, sono ancora qui dentro,
stanno per sbilanciarsi sul

………………..mio amore mio
che non può parlare né suggerire,
ma lascia un’emozione in ognuno
di voi, per finire con me
all’interno, ma sempre meno
sempre meno fino a sparire,
nessuna traccia di me,
un alone che dal platano torna all’albero
dalla linfa alla foglia dall’arenaria alla terra dall’edificio
alla casa, da io e te
a una donna e un uomo,
dal nostro conoscerci sui desideri
all’amore – dal mondo al mondo
a un altro mondo, senza storia
eppure lungo nella storia, un mondo
attraverso tutta questa verità
che c’era prima, che c’è sempre stata.

***

Lorenzo Carlucci

da Prose per Ba’al

(“Con un tipico sillogismo, o para-sillogismo alla Carlucci, la mancanza del padre diventa presenza o ricerca e finanche creazione di Dio (teurgia). È uno dei momenti di aperta chiarificazione in un contesto che in genere accusa, anzi esibisce un certo disprezzo per l’articolazione saggia del discorso. Quando Carlucci ragiona, è per argomentare una follia, una follia generativa e, come qui, illuminante. Il sospetto è che sia il divino il centro vuoto di questa scrittura e forse di tutta una generazione. Di certo, è venuta a cadere una barriera, uno dei tanti tabù storicistico materialisti, e in questo senso Carlucci è un’avanguardia: si può parlare di Dio anche al di fuori di una logica confessionale, se ne può parlare anche contro una logica confessionale. Carlucci cerca Dio, non lo cerca per deriderlo, non ne fa una metafora vuota, lo cerca sul serio, e non per un bisogno di fede. Qui la fede c’entra assai poco. A dispetto della quantità di citazioni, esplicite o meno, dalle più diverse tradizioni religiose (la Qabbalah, l’Avestā, la patristica cristiana, l’ermetismo umanistico…) l’universo di riferimento di Carlucci è mondano, non mistico.” Stefano Dal Bianco)

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Tra una pattumiera e un distributore, su una panchina
[rossa.
La mia vita è uno straccio.
È evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo.
La panchina è rossa come il distributore.
È evidente che le buste della spesa mi segano le dita.
Evidente.
Io ti accolgo nella mia vita straccio perché sono vuoto.
Sono per voi.
Le mie mani sono vuote. Il mio petto respira il respiro
[del cielo.
Le mie mani sono vuote, il sangue `e rosso come questa [panchina.
Voi andate, avete sangue. Andate.

Tra una pattumiera dalla quale mi aspetto che esca
il viso di uno scoiattolo
un topo
un uccello
e un distributore dal quale mi aspetto che esca
una coca-cola
mi fumo una sigaretta e la butto per terra a metà.

Il mio respiro è uno straccio, voi mi attraversate.
Il mio petto è attraversato dalla sigaretta
fumata a metà.
che butto per terra.
Questo silenzio è insopportabile. Andate.
Lo stare seduto sotto lo straccio del cielo
è insopportabile. Venitemi a prendere.
Dalla pattumiera dalla quale mi aspetto che esca
il viso di uno scoiattolo sporco
non esce nessuno. Voi andate.
Continuate a vendere piante lungo una porta a vetri.
Le mie tasche sono vuote.
Pago ogni piantina con una malattia.
Venitemi a prendere.

Dal distributore dal quale mi aspetto che esca
una coca-cola
esce una coca-cola.

*

Sulla spiaggia, un cormorano ed io. Osservo i suoi passi. Sono trasceso dalla sua natura. Non c’è nulla di più profondo che il guardare un animale di un’altra specie. Forse soltanto il guardare un animale della stessa specie e di un altro sesso. Forse soltanto il guardare un animale della stessa specie come se fosse di un’altra specie. Forse il guardare se stessi come un animale d’altra specie. Guardando un animale di un’altra specie si giunge al fondo di tutto quello che conta sapere nella vita. Al collidere ed esplodere di somiglianza e dissimiglianza. Al collidere ed esplodere della ragione come facoltà del dissimile e dell’immaginazione come facoltà del simile.

*

lui viene e va, viene e poi va, è come è sempre
tu morirai piangendo, per tutte le bugie
per ogni falsità e peccato che hai commesso
lui viene e va, mi svuota il frigo ed esce
io morirò da vecchia in casa e sola
col latte in mano.

apri la porta ed entra: prenditi i mobili
svuota il salone e svuota la cucina
vieni con il tuo amico, amica,
quello col camioncino –
prendi le cose gratis di questa casa vuota.

su questo tavolo ha giocato il mio bambino
ha giocato tra i fiori, a nascondino.

scendi a comprar la droga e poi risali
vieni qui a rantolare
– piastrelle fredde contro le caviglie
fatti una sega steso accanto al muro.

tu morirai piangendo, per tutte le bugie
per ogni falsità e menzogna non svelata
su questo tavolo giocava il mio bambino
a nascondino, dietro le rose rosse.

***

Diego Conticello

da Le radici del senso

(“Vincenzo Consolo proponeva tempo fa l’immagine di una Sicilia culturalmente divisa in due zone; l’una, occidentale, con al centro Palermo, sarebbe stata illuminata dall’astro lucido e raziocinante di Sciascia; l’altra, orientale e barocca, manifestata dai versi e dalle immagini di Lucio Piccolo. Secondo questa geografia, non ci dovrebbero essere dubbi: Diego Conticello appartiene a tutti gli effetti alla Sicilia orientale, al barocco del suo maestro Piccolo, di cui egli è studioso attento (a Conticello, in collaborazione con Franco Valenti, si deve del resto la monografia Lucio Piccolo. Poesia per immagini «nel vento di Soave»), e i cui celebri Canti barocchi, cari a Montale, vengono esplicitamente rievocati nel giovanile libro d’esordio di Conticello, Barocco amorale.” Fabio Pusterla)

Esercizio (ma non troppo)

Quella luce
col crepuscolo bieca
che crepa il velo
nuvolare,

ci dice del giorno
che non tace

ma sulle soglie
ancora traluce
d’un giro
che mai giace,

il rimestio
per cui si vive

questo limite nostrale.

*

Cosmagonia

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
(Lucio Piccolo)

Se un’enorme massa,
una dell’infinita
gragnuola
trapassante le galassie,
sfondasse i fragili
veli sferici
ad un’ora, ad un tempo preciso,
avremmo un’altra Tunguska,
impensati megatoni
del tramonto.

Questione di traiettorie,
risucchi implosivi
per cui siamo
conigli abbagliati,
sagome inutili
inette a smuoversi.

Chimiche brillanti
attraversano le ere
proiettando particole, orologerie
cieche puntate nelle tenebre,
luci scottanti della fine

l’universo enfiato
in un punto
che tutto sugge,
il nero foro dei mondi,
ombra contratta,
nulla allo stato puro.

Oscureremo per troppa chiarità,
un collasso
per veemenza di stelle…

entropia
non è piacere
di belle metafore e brune
ma morte della luce,
fuga da grazia
materna,
totale penetrazione
del gelo.
In un grande strappo
il mietitore fosco
espanderà questa
illusione vitale
esternandola all’oscura potenza

sebbene
serbiamo il segno,
unica serie di curve
al limite del sensibile
nella sera del cosmo.

*

Della naturale resistenza

a Natàlia Castaldi

La leuca infiorescenza
del pomodoro
non presagisce pesantezza
alcuna
ma lo stelo gracile sa,
dunque s’alza,
estende la fisica del possibile
e resiste
alla graverìa dei frutti venienti.

Così l’esistenza
d’ogni creatura minima
anche infima

(effimera o effemeride)

rocciosa e lustra,
pulsante

in sfregio al mondo.

***

Marco Corsi

da Da un uomo a un altro uomo

(“Il tratto di esperienza individuale viene, a seconda dei casi, sofferto o giustificato dalla transizione universale che lo contiene. ‘Da un uomo a un altro uomo’, perciò, non è tanto l’insegna di un dialogo quanto di una trasformazione: da un’età o generazione a un’altra, da un livello di vita a un altro, in cui si sfuma la consistenza (e anche l’egocentrismo o il narcisismo) dell’io lirico. E sfumato è appunto il titolo dell’ultima poesia, che insiste sull’idea di passaggio. […] Il «passaggio dal passato al futuro» può invertire la sua rotta, regredendo verso un’elementarità biologica senza tempo – o, almeno, soggetta a un tempo incommensurabile rispetto ai limiti della cronologia umana.[…] Disgregare elementi di realtà e memoria, per riaggregarli in mosaici dai contorni imprevisti, resi ancora più sfuggenti dall’abolizione delle maiuscole tanto a inizio di periodo quanto nei nomi propri. Ne deriva un effetto di orizzontalità verbale, straniante rispetto alla norma; del resto, come si legge in pronomi personali, «c’è una capacità espansiva diversa/ inversamente proporzionale rispetto al giorno/ e alle norme della lingua che parliamo».” Niccolò Scaffai)

sfumato

tutte intere le mie generazioni
le ossa ridotte nelle ossa
fino al restringimento
dei nodi vitali
mi accompagnano, fanno il colore sfumato
ripreso nelle didascalie
per un breve commento delle immagini.
tutte intere meno le presenze
fatte salve al di là dell’emozione
e non più parlanti.

*

ad ogni mano un gesto ripetuto
sopravvissuto, portato incolume negli anni
per la sua evidente nudità
d’aspetto o di sensazione.

*

oggetto delle tue perlustrazioni
tutto si allontana, diminuisce,
perde valore.
ora come sempre
il cielo concede a tratti l’azzurro
illimpidisce, arriva dentro le cose:
per quanto possiamo reggere
di fronte all’evidenza
per quanta ingenuità si dilati
nello spettro discreto dei colori,
le tue mani sono ancora nere
non c’è più nessuna remissione
abbiamo un freddo lungo di anni
e di anni una debole stagione.

***

Alessandro De Santis

da Il verso del taglio

(“Se teniamo presente, all’apertura del libro di Alessandro De Santis, Il verso del taglio, la serie dei quattro, seppur non tradizionali, haiku e ricordiamo la consuetudine con cui essi vengono definiti in quanto genere letterario (ossia: il fotografare un attimo con la conseguenza che tra le peculiari caratteristiche di questo genere troviamo la brevità, la leggerezza e l’apparente assenza di emozioni), forse si è già esaurientemente introdotti nell’intera raccolta di questo poeta. Cogliere il mondo come una serie di apparizioni”. Mario Benedetti)

Giardinetti
Ore 16,30. Al sole tra polvere e zanzare

Su una panchina
nel parco a pochi passi
c’è la signora Ida
seduta, ferma immobile
Lenta come un pavone
muove l’unghia pittata ad indicare
com’è che vuole il taglio
allegra la rumena
le apparecchia intorno al collo
le guance un po’ arrossate
La gita fuori porta è cominciata
la tavola imbandita, anche stirata
Si gioca a fare i ricchi, pomeriggio
ché appena cala il sole
il gioco finisce
le donne vanno a casa
in ritirata,
attente a attraversare sulle strisce.

*

Torre Maura
Ore 10,35. Sguardi ottimisti. Un insolito vento

L’uomo senza braccia
non cerca appigli
l’uomo senza braccia
ha sporte che gli pendono dai lembi
muove il mento
come a voler dire qualcosa
il volto smunto
povero di peli
un tipo biondo lo fissa
segue con lo sguardo
la sua ellittica geometria
un uomo – si sa – esige dei legami
non ha motivo d’essere
quell’albero potato,
senza rami.

*

Giuochi istmici
Ore 12,22. C’è pure la lirica. Le scarpe scendono

Sei, i gradi di separazione
tra un trivellatore e un centurione
e ferri, cocci, e materiali
Si scava verso un fondo
che fondo non è mai
e quando il gran lavoro
(s’) appressa al taglio-nastro,
ossa e occhiaie vengon fuori
e la gente scalpita,
mescola da bere col ricordo,
in un banchetto scomodo,
dove il rumore di fondo è un
ballo felice e rovinoso.

***

Samir Galal Mohamed

da Fino a che sangue non separi

(“In questo panorama che risulta quel tanto mirabolante, per quantità e per bisogno, sempre più iniziano a diventare interessanti le voci meticce, quelle di confine, le personalità aventi sangue misto, come, in accezione positiva, le definisce il filosofo, drammaturgo, sociologo francese Bernard-Henri Lévy, col quale, almeno in questo, mi trovo in sintonia. E Samir Galal Mohamed, di padre egiziano e di madre italiana, è una di loro. Ragazzo attentissimo al nostro sapere occidentale, studioso di esso, calato in esso, comunque non può tradire il plasma del genitore, e sempre lo si avverte nel suo poetare. Infine è il deserto, che fu anche di Jabès e di tanti altri erranti, lo spazio in cui le sue norme si perdono e i suoi personaggi trovano un’assenza di collocazione straniante e diglossicamente misterica, ma non tanto perché la lingua Fusha, tipica dell’Egitto, si contamini con l’Italiano, o viceversa, ma quanto perché le anime, le componenti metaspirituali, dell’una e dell’altra tradizione, rimbalzano tra loro, concedendosi profusioni amorose tipiche della più alta poesia araba unite a sfregi suburbani, sub culturali, metropolitani che niente hanno di Alexandria o di Minyā; come un certo rigore, se non rispetto, di stampo accademico (cioè di codice), si contorca serpentino per poi avvolgersi, per poi avvitarsi a rasoiate ribellistiche di un certo nostro (passato) underground”. Gian Ruggiero Manzoni)

A Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò

I

È il contenuto del vostro sacrificio contro la legge
formale che, in quanto tale, non sa che farsene di voi,
se non assimilare l’azione al terrore/l’azione alla mafia,

uniformando le modalità processuali. Ingenuo
è colui che ritiene sia possibile non strumentalizzare:
non esiste voce imparziale. Io voglio strumentalizzare,

poiché la strumentalizzazione dichiarata è,
quantomeno o nel mio caso, un atto d’amore,
di riconoscenza, di debito e rispetto morale.

Io sono – o potrei essere – un fratello, qualora voi voleste
accettare: chi vi scrive non lo fa con intenti e stile paterni,
ma con la voce rotta di paura, con il balbettio dell’insicuro,

l’intelligenza dell’escluso: con un borghesismo formale.
Con le squame.

Insomma, se fossi un fratello, saprei.

Saprei se tacere oppure parlare.

Purtroppo, ora non conosco
che l’ottimismo della vostra volontà;
così non posso fare altro
che cominciare con il chiedere:

posso tacere o devo parlare?

II

Avrei voluto vivere la vita di ognuno di voi,
anziché affrontare la condanna per moderazione;
per la mia giusta – sebbene mai dolosa – medietà…

drastico, invece, riverbera l’arbitrio che fu tutto
oppure niente, puro ed empio. No, non sono, QUESTI,
quattro vangeli che possa interpretare QUESTO tempo:

non una ermeneutica civile che traduce
in terrore quella vita attiva farsi luce.

Quanti amici mai venuti al mondo!
Quanta intelligenza ancora in grembo!

E nessun interlocutore, nessun contraddittorio…
dov’è la mia comunità?
Che io sia così contemporaneo? O tanto reazionario?

(Non una parola che non sia soverchia, in poesia;

né Assoluto che non si dia azione, in ideologia…)

Madre puttana, come ti hanno scopata male!
Senza lambire le pareti – le tue valli –,
addomesticando le tenebre – i tuoi abissi –,
stemperando quell’alba amaranto di rancido

sole. Terre mute e misericordiose, di museruole
sante vi vestirono! Terre padroni e salvatrici.

In fila come tanti devoti nel giorno della Stipsi
domestica saremo – anche – redenti. Allora Voi

sarete stabbio, noialtri, pigmenti.

*

…vorrei (solo) conoscere il Tutto… già provata l’esistenza
interrotto è il coito originale; nel dramma misero e maestoso
a un tempo – questo segreto – venga il mio ristoro. Sia l’intero…

l’attualità qualsiasi: posologia dell’istante di dolore imprescrittibile, io non saggio più
– parole per questa redazione – soppresso infine (anche)
quel mio trafiletto leale di vita.

*

Tutti noi crediamo in te, Dio/Stato/Famiglia:

(è questo che vuole la nuova-solitudine) – il disgregarsi
reazionario dell’Insieme – nella formazione intellettuale
per l’idoneità alla salvezza contingente;

l’emarginazione che si fa tale laddove l’integrazione
è omologazione, quando la nostra è impersonale
vocazione in divenire nel delta della nuova-libertà

e il dissentire,
un grado inesprimibile
di consapevolezza.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).