Una lunghissima similitudine – Le forme della poesia /5

da | Dic 19, 2016

La similitudine è una figura che appartiene alla storia.

La storia del nostro continuo essere e ritornare sotto la stessa forma, in prossimità dei medesimi eventi. Catastrofe o costernazione, sempre più spesso ci siamo assuefatti all’idea che quanto accade abbia un precedente più o meno illustre nella fantasia dei secoli. Sorretto dallo studio altrui, ultimamente mi càpita di pensare a una similitudine storica fondata sulla crudeltà: la Shoah e il genocidio armeno. Come i turchi poterono su tante vite e teste e cuori, così, a distanza di pochi decenni, efferati e simili, i tedeschi aprirono i cancelli dei campi di lavoro, dei campi di sterminio… E molti altri, in diverse forme, fino ad oggi.

La similitudine, dunque, non è soltanto un luogo della scrittura, ma è anche – e forse soprattutto – una forma del tempo: il tempo del pensiero. Quindi, essere in tempo può significare addirittura ricondurre le immagini del nostro presente all’imperturbabilità, vera o presunta, dell’imperfetto – oppure presagire nel passato antico il futuro, imminente o posteriore, di un nome o di una sola intuizione.

L’intenzione della scrittura – il suo ritmo profondo – determina la creazione delle immagini. Dopo il primo sommovimento della memoria (viva e interattiva come un elastico), ecco allora che scaturisce una proposizione simile a un’altra: l’idea che la nostra ragionevolezza possa farsi visibile. Ragionevolezza e non ragione, per via di quell’orizzonte distorto e soggettivo che ci porta, secondo coscienza, a vedere le cose a modo nostro, magari cercando un pretesto universale nelle figure che si evocano.

La similitudine come tempo della comprensione, dunque. Se accostare nome a cosa, per parafrasare Sereni, già implica uno spostamento orizzontale e oggettivo nella determinazione del senso, ecco che accostare una cosa a un’altra cosa (ma forse bisognerebbe dire qualunque cosa a qualsiasi altra cosa, per non correre il rischio di essere detti fuori della realtà) richiede l’intervento verticale del tempo, la stratificazione del senso per accumulo o bulimia di significati: un profilo, un segno, un ritratto, un qualcosa che viene messo fuoco e subito si snatura, perché l’immagine è troppo satura, i colori sono troppo pesanti. L’ipotesi progettuale si arrende di fronte alle troppe evidenze.

Ripartendo da Montaigne dovremmo poter integrare l’assunto per cui: «C’è il nome e la cosa; il nome è un suono che designa e significa la cosa; il nome non è una parte della cosa né della sostanza, è un frammento estraneo aggiunto alla cosa e fuori di essa» (M. De Montaigne, Saggi, II, Adelphi, Milano 1966, p. 824). In poesia, come in qualunque altra espressione della scrittura verbale – e forse anche non verbale – accostiamo dunque fra loro, mettendole a contatto, idee e sostanze, pretendendo, a torto o a ragione, di attivare un processo abbastanza facile di permutazione: come conciliare l’istanza del nome separato dalla cosa, quindi, al duplice movimento della similitudine? Risposta: la similitudine abbina cose, non nomi. La similitudine è una pratica di secondo grado, molto probabilmente una pratica inconscia, che precede la nostra stessa possibilità di predisporre nomi nel giro di un verso. C’è un senso di similitudine inconscio, che guida verso la comprensione: precomprensione, di fatto, per via di quel movimento temporale di cui si diceva, e ora costretto al cortocircuito, per cui non è A che determina B e non è B a condizionare A. A e B godono di un principio di identità irriflesso: è impossibile sovrapporli fino all’esasperazione: è la cosalità, l’effettività del male a fondare un meccanismo reversibile di significato nell’assunto che tra l’esperienza degli ebrei e quella armena, in realtà, non c’è differenza. Poi ci sono i documenti, certo, ci sono i dati e le statistiche, ma la similitudine rifugge ogni filosofia.

La similitudine non è una scienza esatta. Gode di un’approssimazione diversa rispetto alla metafora che, sopprimendo i nessi logici fra i termini di paragone, addirittura abbatte i ponti della comunicazione, avvicinandosi vieppiù all’analogia. Non occorre altra filosofia. Le immagini, specie se in movimento, possono bastare a se stesse:

Movesi il vecchierel canuto et bianco
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l’antiquo fianco
per l’extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal camino stanco;

et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di Colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disiata vostra forma vera.

Mentre Petrarca contorna di nomi e aggettivi la materia della peregrinatio, l’essenza del discorso travalica l’evidenza delle immagini per configurare, nel tempo dell’ascolto, un significato ulteriore. Il commento di Santagata che leggiamo nel «Meridiano» utilmente ci guida verso la comprensione: dietro al motivo del servizio d’amore, c’è pure quello – tutto terreno e indissociabile – della fedeltà nonostante le apparenze. È così difficile non riconoscere nei lineamenti candidi di un uomo che si sottrae alla famiglia «sbigottita» per ricercare ciò che per lui di più alto esiste – è possibile far coincidere, a priori, l’immagine del vecchio col concetto dell’essere fedeli d’amore? Sì, perché la fedeltà dovrebbe essere dote del tempo, dovrebbe potersi misurare col tempo, e dal tempo essere generata. E la fedeltà dovrebbe essere bianca, immacolata. Stiamo forzando il testo? Forse. Almeno nella misura in cui non possiamo accedere per intero – non possiamo penetrare i processi del pensiero che hanno guidato la scrittura.

La poesia è, di fatto, un gesto del pensiero. Spiegare diventa un’esigenza capace di rendere ragione al tempo. É la condizione della «lettera rubata» di Poe; è il significato che migra sempre in cerca di una sua destinazione. La similitudine è un gesto derivato dal puro significante, dall’astrazione dei nomi, che si fa significato. Non è significato di significati. È l’essenza del nome in grado di generare cose e stabilire orizzonti. Anche quando si manifesta in tutta la sua evidenza, come nel Montale di Non chiederci la parola…, verso la chiusa, nella «storta sillaba e secca come un ramo»: il potenziale significativo è in realtà sbilanciato sull’effetto di contrasto, laddove questa iper-determinazione si scontra appunto con l’impossibilità rilevata di portare a compimento il proposito evocato dal primo verso.

………………………………………

E mi domando, allora, in un tempo sempre meno disposto a fare i conti col passato, se l’esigenza di ravvisare “nell’essere come” – se il postulato più intimo della similitudine, possa diventare almeno il luogo di una “ragione emotiva”, del desiderio derealizzato capace di avvicinare ciò che è lontano. Evocare nomi distanti all’interno di un processo – splendidamente descritto dalle barche comunicanti di Mandel’stam, che in Dante per lui traghettano da sponda a sponda i significati – in cui si riattiva la possibilità nostra di essere nel mondo per comunicarlo.

Immagine: Art & Language, Tell Me, Have You Ever Seen Me? II, Xi Jinping, 2014

Umberto Fiori, Quattro righe sulla similitudine – Le forme della poesia /1
Fabio Pusterla, «Avrei voluto parlare senza immagini» – Le forme della poesia /2
Marco Malvestio, Iperbato, o della complessità – Le forme della poesia /3
Carlo Bordini, Libertà e figure retoriche – Le forme della poesia /4

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).