«Avrei voluto parlare senza immagini» – Le forme della poesia /2

da | Set 27, 2016

«Avrei voluto parlare senza immagini, semplicemente / socchiudere la porta»: questi versi di Philippe Jaccottet, che ho tradotto per la prima volta quasi trent’anni fa, mi hanno sempre colpito e interrogato. Cosa intende l’autore parlando di immagini? Queste immagini possono avere un rapporto con, o addirittura essere, quelle che noi chiamiamo genericamente figure retoriche? E cosa vorrebbe dire quella cosa probabilmente impossibile: «parlare senza immagini»?

L’ultima domanda, apparentemente la più ampia e complessa, è forse quella a cui è più facile rispondere subito: «parlare senza immagini» vorrebbe dire un’aderenza assoluta tra il linguaggio (poetico) e la realtà, aderenza che, come sappiamo, è invece drammaticamente negata dal filtro che la parola interpone tra noi e la cosa. Come non ricordare l’immagine (di nuovo questo termine; e qui forse potremmo tradurlo con allegoria) di Vittorio Sereni nel sesto movimento di Un posto di vacanza, in cui appare dalle profondità marine una razza «viola nel turchino / sventolante lobi come ali», ma ferita a morte, «sconciata da una piccola rosa di sangue» per via della fiocina che l’ha uccisa, e raggelata nel colore e nell’immobilità della morte? Questa è l’unica possibilità, per l’io della lirica sereniana, di “vedere” la razza, che tuttavia nella realtà del mare è cangiante, mobile e imprendibile. Così la razza morta e la parola poetica, ci suggerisce Sereni, si somigliano: entrambe rappresentano il nostro massimo avvicinamento possibile all’oggetto reale, alla sua essenza; ma contemporaneamente segnano il limite di questo nostro avvicinamento, il confine conoscitivo e percettivo, e insomma l’assenza della cosa vera nella sua rappresentazione lingusitica. Le immagini, allora, e con esse l’armamentario retorico del linguaggio, sono inevitabili; e riconoscerne il limite può significare diminuirne, se non azzerarne, il tasso di artificiosità: non per stupire con gli effetti pirotecnici, non per esibirsi in uno sfoggio di bravura i poeti che ci interessano davvero ricorrono alla retorica; per disperazione, piuttosto, per umiltà, nella coscienza del limite e dell’inganno, e solo per necessità profonda.

Necessità di che tipo, ci si può ancora domandare? Molte le eventuali risposte; ma io direi, soprattutto: necessità conoscitiva, non puramente estetica. Propongo un sillogismo: il linguaggio poetico (un certo tipo di linguaggio poetico: quello che provo a considerare anche mio) tenta di scendere nelle parole verticalmente, per stanare un frammento di verità; questo linguaggio poetico farebbe a meno ma non può fare a meno delle figure retoriche; quindi, le figure retoriche diventano uno strumento di avvicinamento alla verità (che nel contempo allontanano).

Leopardi, Zibaldone (frammento 1856): «Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico»: e ancora (frammento 1650): «Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini (…) L’animo in entusiasmo (…) discopre vivissime somiglianze fra le cose (…) facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe». Leopardi non sta qui parlando di una precisa figura retorica (la similitudine in senso tecnico), ma del meccanismo profondo della retorica, che muove appunto dai rapporti e dalle somiglianze, e che così facendo avvicina con improvvisa agnizione, mostra e disvela ciò che si nascondeva dentro o sotto le parole.

Mi sono sempre domandato se Milo De Angelis, intitolando proprio Somiglianze il suo libro d’esordio, potesse aver pensato a queste parole leopardiane; per conto mio, le osservazioni del conte Giacomo si alleano subito, e nell’alleanza si infiammano, con il Baudelaire delle préfaces  alle Fleurs du mal, e con il suo concetto di réthorique profonde che tanto piaceva a Giorgio Orelli. Cosa significa? Significa che le figure retoriche non sono affatto, contrariamente a ciò che per forza di cose insegnano i manuali scolastici, un elenco di accorgimenti atti a modificare e intensificare il significato, alterare l’ordine e ordinare i suoni delle parole; sono anche questo, naturalmente, sono questo  a un livello superficiale; ma sono soprattutto la parte più visibile ed emergente di un diffuso fenomeno di profondità. Nelle stesse profondita del linguaggio in cui volteggia la ràzza di Vittorio Sereni l’acqua linguistica è costantemente sommossa dalla réthorique profonde, che va a toccare ogni molecola, ogni particella dell’espressione; sempre nel tentativo, così facendo, di inseguire il senso che sfugge, la verità che s’intravvede per un istante e che scompare o trascolora, la cosa che non sta in superficie e che non si sa se non dentro il processo espressivo.

Guardando l’argomento da questo punto di vista, non posso più parlare con precisione di questa o quella figura retorica, né tantomeno posso affermare di utilizzare gli strumenti della retorica come un orpello o uno stratagemma; la retorica è ovunque, anche in quelle poesie e in quegli autori che sembrano sfuggirle in nome di una estrema chiarezza espositiva, che tuttavia non è mai naturale ma sempre effetto di un arduo cammino del linguaggio. Così per me la vera distinzione, il vero discrimine non sta tanto tra l’una e l’altra figura, ma tra un uso delle figure teso verso l’avvicinamento alla cosa e alla sua verità relativa (nella lucida coscienza dell’impossibilità di un simile tentativo) e un atteggiamento retorico volto invece alla cosmesi, all’abbellimento, allo stupefazione (che porta con sé, generalmente, una sorta di soddisfazione estetica, di compiacimento e di sicumera). I due termini dell’antitesi possono naturalmente trovare una convivenza e una collaborazione, e la faticosa ricerca del senso può benissimo accompagnarsi alla ricerca della bellezza e persino dell’eleganza: i due nomi grandissimi che ho fatto poco fa, Leopardi e Baudelaire, e i molti che a loro si potrebbero accostare, lo provano in modo evidente. Ma se la bellezza e l’eleganza dimenticano l’impulso conoscitivo di partenza, se la retorica diventa tronfio fiore di beltà, io chiudo il libro e vado a fare una passeggiata.

Se parlo in quanto autore, posso ancora dire che un simile ragionamento si è formato lentamente, nel corso degli anni, delle letture e delle esperienze; il mio atteggiamento iniziale era probabilmente più rigido, più diffidente nei confronti di quelle zone della retorica da manuale che più facilmente mi sembravano far scivolare il linguaggio poetico verso una forma di orfismo sacerdotale. Da qui, la mia iniziale cautela nei confronti della signora Metafora e delle sue amiche più invasate, il fastidio che immediatamente provavo per formulazioni come La parola innamorata (che continua a parermi uno dei titoli più infelici del secondo Novecento) e la preferenza per la più modesta Similitudine. Oggi, le cose mi sembrano più complesse, come ho cercato di manifestare in questa chiacchierata, e non credo più di non dover usare assolutamente questa o quella figura, anche se l’eccesso di metaforismo mi pare sempre indizio di problemi intestinali seri. Ma se parlo da insegnante, e soprattutto da insegnante liceale, questo percorso complica non poco le cose: non riesco quasi più, se mai ci sono riuscito, a insegnare le figure retoriche  come se si trattasse di un argomento nitidamente circoscrivibile. Preferisco rinunciare alla trattazione sistematica, accettare il rischio dell’incertezza nomenclatoria da parte degli studenti (caso mai, spiego, ve lo dico io come si chiama), e aspettare che l’evidenza della retorica e del suo potenziale espressivo e conoscitivo appaia da sola in questo o quel testo, o meglio nella lettura di questo o quel testo, nell’ascolto. Mi sembra molto più importante affinare il sismografo di lettura, che rivela l’increspatura, il sussulto, il brivido che percorre la parola e la frase, allontanandola dalla piattezza comunicativa, e schiudendo, non senza fatica, la vera dimensione della parola poetica: cioè la dimensione ritmica, nel senso più ampio e più complesso del termine. È dentro la corrente di un ritmo che coinvolge ogni elemento del testo che quella similitudine, quell’onomatopea acquistano il vero significato e collaborano al fluire della coscienza e del respiro; smettono di essere un trucchetto tecnico e si fanno parte del movimento profondo del linguaggio che rincorre la sua realtà.

Umberto Fiori, Quattro righe sulla similitudine – Le forme della poesia /1

Immagine: Art & Language, No Secret Painting XI, 2007.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).