La torre d’avorio

da | Mag 22, 2019 | La torre d'avorio, Non Fiction

Bernardo Siciliano, Loading Dock (collezione privata)

Scriveva Proust che «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». Se vogliamo cercare di comprendere un tale io «possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi».
Per farlo, lo scrittore spesso decide di isolarsi dal mondo. C’è una scena ne Il rosso e il nero in cui Julien Sorel va sulle montagne e «come un uccello da preda» si nasconde in una grotta tra le rocce. Lì dentro «ebbe l’idea di abbandonarsi al piacere di scrivere i propri pensieri, così pericoloso per lui in ogni altro luogo. Una pietra quadrata gli serviva da leggio. La sua penna volava: non vedeva nulla di ciò che gli stava all’intorno». La grotta è il suo haut lieu: un luogo incorrotto dove lo spirito può trovare la giusta concentrazione. È la torre del castello di Montaigne, la Thoor Ballylee di Yeats e la torre d’avorio, assediata da «una marea di merda» di cui parla Flaubert in una let-
tera a Turgenev. Scriveva Pascal: «Quando, talvolta, mi sono posto a considerare le varie agitazioni degli uomini […] ho spesso detto che tutta la loro infelicità ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza». Nabokov, ritoccando il pensiero di quell’inflessibile giansenista, raccomandava, «non come prigione», ma «solo come indirizzo permanente, la vituperatissima torre d’avorio, purché ovviamente fornita di telefono e ascensore».

Il problema è che lassù, dentro la torre, arriva il segnale della televisione satellitare e funziona il wifi. Apri il computer per «architettare un’esistenza semi-immaginaria a partire dal dramma reale della tua vita» (come diceva Philip Roth), ma basta un
secondo di deconcentrazione o di stanchezza e – click – ti lasci sommergere su internet dal dramma reale della vita degli altri.

Che fare? Puoi tornare al tuo lavoro e continuare a tornire frasi che rendano al meglio la scena in cui la marchesa esce per il tè delle cinque; o provare a far entrare più realtà nella tua semi-immaginazione; oppure puoi spegnere il computer, scendere dalla torre e – come un novello Don Chisciotte – dedicarti a vendicare oltraggi, riparare ingiustizie, punire insolenze, vincere giganti e atterrare mostri.

Se ci affacciamo dalla torre, oggi, be’, il panorama è sconsolante: non sbaglia di molto chi sostiene che le lancette sembrano essere tornate indietro fino al 1922, quando, approfittando di un Paese con le pezze al sedere e di un’opposizione afona, Mussolini si impadronì dell’Italia e la folla fece festa. D’altro canto, siamo, dai tempi di Nerone, il laboratorio dei peggiori Mostri della Storia. Su questo non ci batte nessuno. L’Italia in questo momento sembra provare ripulsa per tutto ciò che è tranquillo, luminoso e sensato, infatuata com’è della violenza, delle tenebre e dell’irrazionalità; aspira a essere governata da nuove e sinistre incarnazioni dell’homme fatal che vogliono aprirsi un varco tra le vecchie abitudini della politica per cavalcare la cattiveria e il rancore fioriti dalla delusione per la mancata ripresa economica. E così è partita la caccia al capro espiatorio: il burocrate di Bruxelles, il banchiere, il comunista, il negro, il politicante, l’ebreo, la lobby gay, il tedesco, il padre della Boschi, Pasteur…
Siamo tornati a essere fascisti:

1. Populismo
Ci sono – e ci saranno sempre – demiurghi che si divertiranno a fare senatore il proprio cavallo o ministro dei trasporti uno che sostiene che oggi le merci viaggiano attraverso un tunnel che sarà costruito nel 2025. La sfiducia nei confronti della democrazia parlamentare a vantaggio di un melmoso populismo, porta a sostenere (e a credere) che uno vale uno, e che la competenza non sia un requisito necessario per sedere in Senato o tra gli scranni del Governo o in un Consiglio comunale. Un’ideologia che ci mette al riparo dai nostri eventuali fallimenti e sancisce che il merito altrui è solo un bitorzolo che va piallato alligna di quando in quando nel corso della Storia.

Saint-Simon, duecento anni fa, fu il primo a scorgere con chiarezza l’incompatibilità tra l’idea che la società dev’essere governata da uomini saggi e l’idea che il popolo deve governarsi da sé. Se è difficile risolvere questo dilemma, quel che è certo è che oggi l’Italia è guidata da gente improvvisata e improponibile, ignorante e demagoga, oltre che dai freaks e dai drop-outs dell’Accademia; un Paese in cui serpeggia l’idea che le deliberazioni del Parlamento e le sentenze della Magistratura possano tranquillamente essere annullate da qualche migliaia di anonimi click sulla Piattaforma Rousseau. La «democrazia della rete» è il nuovo occhio onnivedente; la psicologia del potere del Partito Unico è mandata a memoria, specie quando promulga la necessità di un inganno cosciente mantenendo una fermezza di proposito che s’allinea con una totale onestà; e uno degli slogan del neo-mondo orwelliano – «l’ignoranza è forza» – è anche il nuovo mantra: il Grande Fratello ti controlla da un blog.

2. Razzismo
Il rapporto del Censis pubblicato nel dicembre 2018 evidenziava alcuni pregiudizi – un tempo inconfessabili: il settanta percento degli italiani non vorrebbe come vicini di casa i rom; e il cinquantadue percento è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani. Il settantotto percento dei disoccupati è ostile agli extracomunitari.
C’è in giro un clima per cui certi bassi istinti – da sempre presenti qui da noi – trovano legittimazione. È un fuoco su cui soffia il leader della Lega, nonché ministro degli Interni, Matteo Salvini. L’uomo che vieta lo sbarco nel nostro Paese a centinaia di disperati, malnutriti e da giorni in balia del mare, al grido di: «è finita la pacchia». Parecchi anni fa, il fondatore della Lega, Umberto Bossi, aveva dettato la linea – per così dire – arrivando a dire: «C’è chi sostiene che per non esser razzisti bisognerebbe abbracciare anche le scimmie, ma questo atteggiamento non mi pare che in Italia abbia seguito».

La specializzazione di Beppe Grillo, invece, è l’antisemitismo. Riferendosi a Gad Lerner, una volta ha detto: «non mi fido di qualcuno con un tale naso», alludendo alle origini ebraiche del giornalista. Per Grillo gli israeliani ammazzano i palestinesi «come in una tonnara» e «hanno nel mirino l’Iran»; gli «ebrei dominano il mondo attraverso l’usura» e «Eichmann è stato cattivo più o meno come Romiti». Nel Movimento 5 Stelle in molti, sugli ebrei, la pensano come lui. Il senatore Elio Lannutti, per esempio, è riuscito a riesumare la tragica farsa dei Protocolli dei Savi di Sion.

3. Sessismo
A una cantante che chiedeva l’apertura dei porti alle navi che trasportano i migranti, un consigliere comunale della Lega ha risposto: «Apra lei le gambe, piuttosto».
Soltanto cinque anni fa un titolo come quello messo in prima pagina da «Libero» – Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay – sarebbe stato impensabile. Il clima del momento presente lo permette. Grillo – ancora lui – si distinse in passato dando della «vecchia puttana» a Rita Levi Montalcini, accusandola di essersi comprata il Nobel e definì Nichi Vendola «un buco senza ciambella» per via della sua dichiarata omosessualità. Sempre il fondatore e leader carismatico del Movimento 5 Stelle è autore di questa affermazione: «Dicono che bisogna fare una mammografia ogni due anni e le donne la fanno perché si informano male, leggono “Donna Letizia”, del resto la differenza di mortalità tra chi la fa e chi non si sottopone alla mammografia ogni due anni è di due su mille. Certo è qualcosa, ma comunque pochissimo».

4. Antiscientismo
Tralasciando l’idiozia del presupposto secondo cui le donne s’informano leggendo le rubriche sul bon ton, la pericolosità della disinformazione leghista e grillina sul tema della vaccinazione ha generato un sentimento di paura nei genitori, facendo tornare l’Italia in pieno Medioevo (perché non abolire anche gli antibiotici e la penicillina, già che ci siamo?). È recente il caso di un bimbo di otto anni, guarito dalla leucemia, che non può andare a scuola, a Roma, perché la malattia lo ha immunodepresso e i compagni di classe non vaccinati mettono a rischio la sua vita.

Tra i pentastellati non ci sono solo i no-vax. C’è anche di peggio. Il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia, ad esempio, ha espresso più volte i suoi dubbi sull’effettivo sbarco dell’uomo sulla Luna. E recentemente nel blog di Grillo è stato pubblicato un post in cui si saluta l’aumento negli Stati Uniti del numero dei sostenitori della teoria per cui la Terra in realtà sarebbe piatta.
D’altronde, il patrono dei 5 Stelle, Rousseau, oltre a credere erroneamente ai cuori ingenui degli uomini incorrotti, aveva in sospetto le arti e detestava le scienze…

5. Giacobinismo
Abbiamo un Presidente del Consiglio che, nel presentarsi all’Italia (da perfetto sconosciuto), si è definito «l’avvocato del popolo», forse dimenticandosi – o forse no – che in nome dell’avvocatura popolare un tale Robespierre mozzava teste come fossero asparagi. Che la citazione non sia casuale lo conferma il capitolo del “contratto” dedicato alla giustizia: un pamphlet, dove trova spazio un terrorizzante giustizialismo un tanto al chilo, con innalzamento indiscriminato delle pene, allungamento dei termini di prescrizione, uso indiscriminato della carcerazione, istituzione di nuovi reati, potenziamento delle intercettazioni, abbandono del principio della terzietà del giudice e addirittura l’inserimento dell’agente provocatore! Una miseria forcaiola, indegna di un Paese civile.

6. Sovranismo
Ci sono dei partiti politici che hanno deciso di camminare sull’orlo del baratro, alla ricerca programmatica del trauma, purché l’altrove vinca sull’attuale. Spesso per arrivare all’altrove si attinge al passato, e di solito non è una buona idea. Il sottosegretario alla Difesa Tofalo, del Movimento 5 Stelle, ad esempio si fa fotografare sui social con mimetica e mitra in mano e conclude un suo intervento alla Camera al grido di «boia chi molla». Del ventennio fascista più d’uno, nelle file del Governo attuale, rimpiange il sogno autarchico: le radio passino almeno una canzone italiana ogni tre! A quando un provvedimento simile pure per libri e film? Dietro lo scetticismo nei confronti della globalizzazione da parte dei sovranisti, si nascondono poi troppo spesso idee vecchie e ripugnanti. Il quotidiano «La Verità», ad esempio, ha pubblicato un lungo articolo – I Rothschild, banchieri dei re che hanno lanciato Macron – intessuto di teorie cospirativiste ed elementi di antisemitismo mutuati dall’archivio antisemitico di stampo ottocentesco.
L’autore dell’articolo, Paolo Sebastiani, afferma che «la famiglia Rothschild tiene le redini dell’economia globale. Da oltre duecento anni» e che ha sempre prosperato, soprattutto in tempi di guerra: «quando scorre il sangue per le strade è il momento di comprare». Il souverainisme non è che la moderna riproposizione del vecchio nazionalismo.

I nemici non sono solo le organizzazioni sovranazionali e le nazioni i cui interessi sono in conflitto coi nostri; ma anche tutte le forze che minano l’unità nazionale e conducono alla disgregazione e alla decadenza: l’ingresso dello straniero coi suoi usi e costumi diversi; il cosmopolitismo senza radici; i principi astratti che governano l’Uomo e i suoi diritti; gli oppositori interni.

* * *

Un altro nemico classico del nazionalismo è l’intellettuale: decadente e cosmopolita. Salvini, infatti, ha scritto che gli intellettuali – «anti-razzisti», «di sinistra» e «anti-Salvini» – vivono «su un altro pianeta». Di fatto ha ragione: l’intellettuale che gli si oppone lo fa perché è contro la teoria del Volk come vero portatore di valori condivisibili, perché crede che esistano criteri superiori a quelli sovrani con i quali è possibile ordinare i diversi valori della vita degli individui, perché sta su un pianeta e non dentro un confine o dietro un muro.
È vero, però, che la Torre in cui abita è alta. Altissima. Così alta che, così come succede a Dante sporgendosi dall’Empireo, da lassù – sette cieli sopra – questo nostro pianeta, la Terra, appare grande come un’aiuola: «l’aiuola che ci fa tanto feroci».
Che fare, allora? Scendere dalla Torre con l’idea che la letteratura possa trasformarsi in un’azione in grado di sortire effetti e determinare un’assunzione di responsabilità sociale e politica, oppure starsene chiusi lassù, in nome di un diritto al disimpegno che ormai dilaga tra gli intellettuali, ed è spesso ideologico non meno di certe pose à la Sartre?
In questo numero della rivista, fatte qui le doverose premesse e dato il “contesto”, abbiamo girato la domanda ad alcuni nostri scrittori: Lagioia, Pavolini, Trevi, Susani, Van Straten e Veronesi.

Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.