Diario (terza e ultima parte)

da | Apr 1, 2013 | Senza categoria

1 gennaio 2013

Il cambiamento di anno porta sempre con sé qualcosa di sconcertante. Sento il bisogno di colmare un horror vacui scaturito al pensiero dei dodici mesi da riempire e dell’eterno re-inizio, così mi dirigo di buon’ora verso l’Amoeba Music sul Sunset Boulevard, il negozio di dischi più mastodontico che mi sia mai capitato d’incontrare. Segretamente ho anche voglia di cercare l’album che, secondo D.T. Max, DFW amava più di ogni altro, almeno in quella che dovette essere la sua fase personale di solidificazione-del-magma-della-personalità: una vecchia produzione di Brian Eno dal titolo Another Green World.

All’Amoeba Music, di fronte a un’ostensione così spropositata di compact-disc, vinili, bootleg rarissimi, cofanetti in edizione limitata e, sì, perfino obsoleti nastri magnetici, non resisto più di quindici minuti (la possibilità di comprare dischi provoca in me un incontenibile stimolo fisico localizzato nel basso addome, simulacro dello stesso che mi prendeva nella fase di solidificazione-magma ogni volta che entravo in un negozio di musica: tale era la bramosia). Perciò afferro Another Green World, insieme a una manciata di altri CD scelti troppo frettolosamente, e fuggo verso l’albergo.

Quando ascolto il disco di Brian Eno in automobile, alcune ore dopo, mi annoio, lo trovo datato e un po’ algido. Un’altra cosa che, dopo un certo numero di anni e di esplorazioni analoghe, dovrei avere imparato: non è affatto scontato che i riferimenti dei tuoi riferimenti diventino tali anche per te, allo stesso modo in cui non è detto che gli amici della tua fidanzata ti vadano a genio. Anzi, saggezza popolare vuole che succeda proprio il contrario.

2 gennaio 2013

Nel suo pseudo-mémoire, oltre al codice fiscale, DFW aveva riportato per intero anche il suo indirizzo. Mi chiedo se, nel corso delle innumerevoli riletture che lo attendevano, avrebbe cautamente cancellato il dettaglio – in ogni caso non ne ha avuto il tempo. Durante un’incursione dentro una Books Inc. su California Street, a San Francisco, ho ritrovato la pagina del Re pallido dove è scritto l’indirizzo – 725 Indian Hill Blvd., Claremont –, l’ho ricopiato sul retro di un ticket di parcheggio.

Obbligo i miei compagni di viaggio a seguirmi in quel pellegrinaggio un po’ macabro attraverso la periferia senza fine di Los Angeles. Non protestano neppure, devono ormai avere capito quanto la questione sia importante e controversa e ad altissimo rischio di scontro verbale. Prima di partire m’informo sulla posizione e su varie ed eventuali da internet. In un sito viene dichiarato il prezzo a cui la vedova Wallace vendette la casa nel 2009 e compaiono alcune foto dell’interno, seguite da inevitabili commenti che spaziano dalla scelta del divano alla qualità della prosa del defunto. Uno è tanto truce da farmi vacillare nel mio intento: «Credo che la moglie avrebbe evitato parte dello sconto-suicidio se avesse rimosso la struttura del garage dalla quale [DFW] si è impiccato. Ogni volta che la vedi, dici: ‘Oh sì, è abbastanza semplice lanciare una corda lassù…’». A quanto pare, trovare il giusto-livello-di-trasposizione, misurarlo accuratamente, non è solo un vezzo artistico in un mondo di pazzi e di cinici (e di pazzi-cinici).

Arriviamo a Claremont al crepuscolo. L’aria si è rinfrescata di colpo. Le aiuole nello spartitraffico di Indian Hill Boulevard sono tutte fiorite, incredibilmente curate. La casa al numero 725 non ha nulla in più o in meno delle altre, soltanto il portone del garage mi colpisce per la sua larghezza, ma può darsi che si tratti di una suggestione. Nel cortile c’è un albero di Natale composto di sole palline, un cono da cui fuoriesce un cavo della corrente – l’albero è spento. Sul lato opposto, due limoni e un mandarino sono carichi di frutti. Il prato è stato sistemato da poco, come tutti quelli del circondario, intravedo ancora i segni paralleli del tosaerba.

Le luci dentro casa sono accese, ma ho l’impressione concreta che non ci sia nessuno. Avanzo di qualche passo, violando la proprietà privata e l’intimità degli sconosciuti che ora vivono qui. All’interno, appena oltre la finestra, svetta una coltelliera, i manici di varie dimensioni emergono dal ceppo in legno. Ci sono molti modi per togliersi la vita: scegliere il più appropriato non deve essere decisione da prendersi in un giorno.

Resto in contemplazione per alcuni minuti. I miei compagni di viaggio si sono allontanati da me, come per rispetto. Vorrei compiere qualche gesto simbolico, magari rubare un sasso dall’acciottolato che corre lungo il marciapiede, ma sono ancora abbastanza in me per desistere. Tocco solo uno dei limoni e poi m’incammino verso la macchina. Prima di salire faccio la pipì contro un acero, di fretta: è il genere di quartiere dove temi possano arrestarti per avere urinato contro un tronco.

3 gennaio 2013

Dentro il parco di Joshua Tree mi perdo di nuovo nelle fantasticherie di metempsicosi. L’atmosfera del luogo contribuisce in larga parte: un deserto roccioso dove la notte – puoi scommetterci – gli arbusti così distanziati parlano l’uno con l’altro, al riparo da sguardi umani. La natura qui sembra in uno stato di quiescenza, pronta a ritornare quella prospera che era un tempo.

Inizio a pensare ai joshua tree e ai cactus e alle palme giganti come a incarnazioni di morti, la cui forma specifica dipende dalle qualità possedute in vita. L’albero che attribuisco a DFW è un’impalcatura di tronchi e rami spogli, con la corteccia elegantemente attorcigliata su se stessa, un albero che non si è mai visto dalle nostre parti, complicato eppure razionale contro il cielo azzurro. Mi faccio scattare una foto lì accanto, poi cerco di rubargli l’energia, abbracciandolo: conosco persone che con gli alberi fanno così.

Ciò che devo ammettere lungo la strada di ritorno verso Palm Springs e con un po’ di delusione per me stesso, è che leggere DFW mi ispira almeno quanto leggere di DFW. Seguire le sue vicissitudini mi suscita la stessa irreprensibile voglia di sedermi alla scrivania e di scrivere a profusione, come avvenne dopo La scopa del sistema quando, senza premeditazione alcuna, mi avventurai nei miei primi goffi racconti. E non è soltanto questo: DFW – i suoi libri e, scopro ora, anche i libri che parlano di lui – mi spingono a scrivere come lui, con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me. Dev’essere per via di quella sua spacconeria irritante e così fascinosa, della sua smania di essere a tutti i costi più lungo, digressivo e interconnesso di quanto sia davvero necessario, della sua esigenza di attraversare sempre tutti i livelli di profondità di un fenomeno fino a sbattere il sedere contro il cemento armato dell’unica verità fondamentale sottesa a tutti: la consapevolezza, in questo mondo, di essere soli e irraggiungibili. Tutto, e di più è il titolo di un suo saggio sull’infinito, l’unico libro di DFW che nonostante le mie propensioni matematiche non sono riuscito a portare a termine, e Jonathan Franzen lo prosegue, per compendiare l’operato dell’amico: «Tutto, e di più è quello che lui voleva da e per la sua scrittura» (JF, L’isola più lontana).

Mi prefiguro il momento in cui scriverò il saggio sul mio maestro che reprimo nella testa da lungo tempo. Già mi vedo perso nella sua stessa ambizione super-inclusiva, deciso a leggere qualunque testo filosofico abbia affrontato il tema del suicidio da Seneca in poi, e con l’opera omnia di DFW impilata sul pavimento, che intendo sfogliare tutta prima di mettere giù anche una sola parola, perché è così che lui avrebbe fatto. Una parte di me è convinta che quello sia il modo giusto di procedere, l’unico degno per uno scrittore. L’altra, per fortuna, è consapevole che il mio stomaco non sarà mai abbastanza capiente da digerire quella mole di informazioni e che il modo-giusto-di-procedere, dopotutto, non esiste. D.T. Max sottolinea più volte quanto DFW fosse, dietro la sua apparente noncuranza, di una competitività sfrenata. Ebbene, riesce a esserlo con me anche adesso che non c’è più.

9 gennaio 2013

Sul volo San Francisco-Zurigo dove con ogni probabilità contraggo l’influenza virale con complicazioni urinarie che mi terrà a letto nei successivi quattro giorni, termino di leggere Every Love Story Is a Ghost Story. Nelle ultime pagine si avverte l’imbarazzo di D.T. Max nel fare i conti con il suicidio di DFW che, paradossalmente, è anche l’ombra che tiene insieme tutto il libro. Il biografo sceglie la via più sobria: poche frasi di storia medica, molto nette, che accreditano in pieno la tesi della cessazione volontaria del Nardil da parte di David dopo anni di trattamento, e del suo conseguente tracollo.

Il finale lo conoscevo già, eppure ha il potere di annientarmi. Complice il jet lag, la prima notte a casa non mi addormento fino alle cinque del mattino. Ho una sola consolazione in mezzo al flusso disorganico dei pensieri: sembra che la casa di DFW che ho visitato non fosse davvero quella dove si è tolto la vita. Dopo essere vissuti in affitto al 725 di Indian Hill Blvd., lui e la moglie ne acquistarono un’altra non troppo distante. Il portone del garage che ho visto era solo un normale portone di garage, dal quale DFW è entrato e uscito insieme ai suoi cani. Non so bene il motivo, ma saperlo mi fa sentire meglio.

 

La prima parte del Diario è qui.
La seconda è qui.

(Il Diario di Paolo Giordano è tratto dal numero 61 di Nuovi Argomenti, attualmente in libreria)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).