Diario (seconda parte)

da | Mar 24, 2013 | Senza categoria

29 dicembre 2012

Forse non è soltanto morbosità. Forse è più semplice e anche più limpido di così. La verità è che DFW mi manca. E mi manca con un’intensità maggiore di quella con cui mi mancano, per dire, certe persone in-carne-e-ossa scomparse in modi altrettanto improvvisi / cruenti dalla mia vita, tanto che mi trovo spesso a fantasticare su forme strane di metempsicosi, nelle quali alcune molecole aeree del suo genio e della sua umanità fluttuano attraverso l’atmosfera fino a me, che le inalo, e diventano mie – e lui diventa me. Per esempio, mi soffermo a lungo su pagina 22, sulla coincidenza per nulla sorprendente e nemmeno felice che il primo episodio depressivo accompagnato da istinti suicidi di DFW corrisponda all’incirca al mese del 1982 in cui io venivo concepito…

Tutto ciò suona un po’ vergognoso, ad ammetterlo. Ma la disponibilità a innamorarsi dell’irreale tanto quanto del reale mi è sempre apparsa come una premessa essenziale della narrativa. Può darsi si tratti, più precisamente, di un disturbo, una sorta di ametropia del sentimento, per la quale non si riesce a focalizzare esattamente gli oggetti nel campo dell’affetto, a collocarli in profondità secondo quello che si presume l’ordine corretto.

DFW mi manca, sì, mi manca il suo essere-nel-mondo (non è forse questo il tipo di nostalgia che caratterizza l’amore?), quindi escogito dei modi per averlo vicino, e l’ultimo che mi si è offerto è questa biografia. Come per i Grandi Amori Romantici, esiste un’età favorevole anche per i Grandi Amori Letterari, e DFW è capitato al centro della mia più fertile: avevo diciotto anni. Le passioni che si instaurano in quella fase tardo-adolescenziale, quando il magma della personalità inizia a solidificare, diventano i miti fondanti del nostro carattere culturale, ci restano addosso, ostinate e prive di senso, come quelle cisti sebacee che capita facciano la loro comparsa in punti imprevisti del corpo. Di cisti sebacee, io ne ho due: una nascosta dietro l’orecchio sinistro e una più visibile e scura sul polpaccio destro (tendo ad attribuire loro una funzione di ammonimento, benché non abbia ancora capito specificamente verso cosa); di passioni-cisti ne avevo invece una miriade, oltre a DFW e al già citato Jeff Buckley: certe serie televisive più strappalacrime del sopportabile come The O.C., Tori Amos, Chuck Palahniuk, i frozen cocktail, Kirsten Dunst, il Natale in famiglia, Bret Easton Ellis… tanto per enumerarne alcune.

Spinto da una voglia iconoclasta di rinnovamento, verso i ventisei anni le sottoposi tutte quante a un check-up severo, casomai nel frattempo qualcuna fosse diventata maligna o invalidante. DFW ha superato il test (il Natale-in-famiglia e Chuck Palahniuk no), ma adesso mi chiedo se, dopotutto, fosse così necessario e salubre tentare di sbarazzarsi di tutte quelle passioni, magari un po’ ossidate, magari ormai poco rappresentative, che quando ero ancora semiliquido mi fecero palpitare. È davvero questa la via della nostra realizzazione di adulti, toglierci dal naso tutte le lenti deformanti che da ragazzi ci facevano ingigantire o mortificare gli oggetti (sentimentali) che si offrivano alla nostra considerazione? O questa smania di aggiornare anche i nostri affetti è solo l’ennesima lente deformante che poniamo in cima alle altre?

Ecco il genere di domanda sulla quale DFW avrebbe facilmente costruito un racconto ricorsivo di venti o più pagine: la storia di un ragazzo che, nel tentativo di guardare con onestà a ciò che ne è ormai dei suoi amori del passato, fa del suo meglio per massacrarli, con il risultato di aumentarne sempre di più il valore mitico e quindi l’indistruttibilità. Ogni volta che nelle storie di DFW compare qualcosa di analogo a una minuscola cisti sebacea, puoi stare certo che quella cisti si accrescerà – proprio nel tentativo di estirparla – fino a sfigurare l’intero organismo. Mi vengono in mente, in disordine, la «vanità di secondo grado» nella Scopa del sistema, le innumerevoli dipendenze maniacali e spiraliformi di Infinite Jest, il narcisismo della Persona Depressa nelle Brevi interviste con uomini schifosi, fino alla sudorazione incontrollabile di David Cusk nel Re pallido. Tutte le serie ricorsive costruite da DFW sono altamente divergenti, la direzione è sempre quella dell’aggravarsi perpetuo cosicché, una volta avviate, possono essere interrotte solamente da un atto esterno, violento, qualcosa di simile a ciò che ci succede quando il nostro computer «va in palla» e inizia a presentare con insistenza lo stesso messaggio poco comprensibile di errore, accompagnato da quel suono che ha qualcosa di apertamente accusatorio, e noi ci rendiamo conto che non siamo in grado di fermare quanto sta succedendo, che siamo del tutto inermi e fra un attimo lo schermo potrebbe ricoprirsi di lettere e numeri o diventare inesorabilmente blu, quindi premiamo con forza il pulsante Power e se neppure quello funziona stacchiamo la spina dalla presa di corrente, percorsi – noi, non più il computer – da una scarica elettrica di terrore.

La sola via d’uscita dalle ricorsività di DFW è lo spegnimento, che in certi casi estremi, come quello del manipolatore seriale protagonista del racconto Caro vecchio neon o in quello assai più realista della sua vita, coincide con la morte – con il suicidio.

30 dicembre 2012

Non bisognerebbe mai, mai dire a qualcuno: «Tu pensi troppo». Né il suo analogo specchiato: «Basta solo che ti lasci andare». È presumibile che la persona alla quale rivolgiamo questo tipo di consiglio sia proprio quel genere di individuo incatenato dalla propria intelligenza, per il quale capire o vedere qualche cosa non corrisponde affatto a sentirla e men che meno a viverla intensamente. Mostrargli quanto sarebbe facile smettere di pensare o lasciarsi andare significa esattamente spingerlo a pensare ancora di più, e in particolare a quanto per lui sia difficile, impossibile realizzare qualcosa di tanto semplice. Ecco un altro tipo di ricorsività in cui DFW avrebbe potuto sguazzare. Tipo: pretendere che un bambino con la bocca cucita ti faccia un bel sorriso.

31 dicembre 2012

Anche leggendo D.T. Max e anche qui a Los Angeles, benché splenda finalmente quel sole che cercavo e il clima sia dolce e la città sembri distesa ai miei piedi colma di promesse, viene da pensare che sia stato l’eccesso di intelligenza a uccidere DFW, che siano state tutte quelle sue ricorsività geniali, più che i difetti nella conversione di triptofano in serotonina da parte del suo sistema nervoso centrale. All’università, più o meno quando decise di cambiare rotta dalla filosofia alla letteratura, DFW fu un seguace strenuo del decostruzionismo di Jacques Derrida. Nel romanzo La trama del matrimonio Jeffrey Eugenides racconta di un certo Leonard Bankhead, studente brillante come DFW, adepto della bandana come lui, maniaco-depresso come lui, e fissato con Derrida: somiglianze che appaiono davvero poco casuali benché, ancora una volta, sarebbe un errore violare il livello (in effetti bassino) di trasposizione del reale che JE ha voluto dare alla sua storia. Comunque sia, leggendo La trama del matrimonio viene da ipotizzare che sia stato Derrida in persona, con tutto quel suo insopportabile decostruire, a portarsi via DFW. È un’idea azzardata, non scientifica certo e nemmeno suffragata dai fatti, ma scegliere di non credere ad alcuna delle illusioni che ci circondano, ambire a smontare tutti i giocattoli della nostra vita è di certo un azzardo.

A diciotto anni, il modo di procedere del primo DFW mi colpì tuttavia come un esercizio di onestà dissacrante e perfetto, il genere di demistificazione che andavo cercando in quegli anni di solidificazione-del-magma-della-personalità: DFW fu per me ciò che per lui era stato Derrida. Il senso tragico che stava alla base dei suoi ragionamenti si accostava bene con quello residuale della mia adolescenza; lo sfoggio di intelligenza, poi, era proprio il traguardo che mi ponevo a quel punto. Tutto questo stabilì la nostra affinità segreta – quasi ultraterrena –, indusse la crescita della mia passione-cisti più che per qualunque altro scrittore mi fosse capitato di leggere fino a quel momento. E, anni dopo, rese il suo suicidio doloroso quanto un tradimento personale.

Allora, alcune delle domande sottese a questo articolo dovrebbero essere: quanto ci conviene sapere?, quanta verità siamo in grado di sopportare?, e quanto a fondo è bene che comprendiamo i libri che leggiamo?

[continua…]

La prima parte del Diario è qui.

(Il Diario di Paolo Giordano è tratto dal numero 61 di Nuovi Argomenti, attualmente in libreria)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).