Il numero 70 di «Nuovi Argomenti», da maggio scorso in libreria, è dedicato al tema della libertà d’espressione. Al questionario hanno risposto una settantina di scrittori, poeti, intellettuali italiani (l’indice qui). Di seguito anche le risposte di Marco Corsi, Tommaso Di Dio, Franca Mancinelli, Francesco Terzago.
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1) La libertà d’espressione deve tener conto di altre libertà (per esempio legate a religione, credo politico, ruoli istituzionali, memoria storica,…) o non deve essere limitata? Quali dovrebbero essere gli eventuali limiti e chi dovrebbe deciderli?
2) Rappresentazione artistica e opinione personale dovrebbero godere dello stesso grado di libertà di espressione?
3) Dovrebbe essere diversa la libertà d’espressione di cui si può usufruire in ambito pubblico e in ambito privato? Perché?
4) È giusto limitare la libertà di un cittadino di esporre o indossare simboli religiosi, politici,…? Se sì, in che misura?
5) Chi difende o appoggia pubblicamente atti violenti o illegali dovrebbe esserne considerato corresponsabile sotto un profilo etico e giuridico, o dovrebbe avere diritto a esprimere liberamente la propria convinzione?
6) Si può ricorrere alla violenza fisica per l’affermazione di un ideale? Quali sono, se ci sono, i valori per la cui difesa varrebbe la pena ricorrere alla violenza o sacrificare la propria vita?
7) I valori della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sono assoluti e universali o tutto è soggetto alla storia e non esistono valori indiscutibili?
8) Si può dire che è in atto uno scontro fra due o più civiltà diverse e inconciliabili? E se sì, quali sono le cause di questo scontro (culturali, religiose, politiche, economiche,…)?
9) È possibile mettere a confronto e stabilire quale sia il migliore tra sistemi di valori di differenti civiltà?
10) Qual è lo stato della libertà di espressione in Italia? Ci sono argomenti tabù su cui risulta difficile o impossibile esprimersi liberamente?
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1) Il concetto di limite deriva da qualcosa di molto definito, settoriale, impossibile da comprendere se non come rovescio di una misura umanissima. Il concetto di limite ha la forma del divino, dell’assoluto. Per questo non riusciamo a intenderlo senza il suo opposto – l’eccesso, la dismisura: ecco, il monstrum. L’abnorme e il prodigio, ciò che sta fuori dalla legge e il miracoloso, l’ineccepibile. Limite è quanto determina la capacità di misurare le cose. Per questo domina le nostre menti, sotto forma di stupore o di paura. I limiti vengono imposti dall’inconscio, individuale o collettivo: superare i limiti equivale alla sfida, alla volontà di affermazione; rispettarli è ripiegare su se stessi, fare affidamento su una voce fra alcuni miliardi. Quella voce, sola, può tentare di superare le restrizioni del proprio essere (in quanto esserci), ma per la modulazione che le è propria, per il suo tono, per la sua volubile condizione, dovrebbe prima riconoscersi intera e poi prendere la parola. È questo forse l’unico limite che dovrebbe sussistere, quello della coscienza – della coscienza individuale, basata sulla percezione e sulla consapevolezza dei limiti dell’umano. La libertà ne conseguirebbe assai vitale, credo.
2) Rappresentazione è termine che indica un teatro, uno spettacolo: è una forma di mediazione della realtà. L’opinione personale dovrebbe essere qualcosa di immediato, forse di meno consapevole, non per ignoranza o sua propria menomazione, ma perché all’individuo non si richiede quell’in più di auto-coscienza che dovrebbe essere proprio – invece, a mio avviso – dell’artista. L’artista può fabbricare il bello e il brutto, in maniera del tutto contigua, senza temere per le sorti di ciò che costruisce, attribuendo al suo lavoro un significato puramente estetico, prima di sottoporlo a giudizio. Giudizio che è soggetto a un tempo molto lungo, un tempo non-umano, nemmeno quando si tratta una distanza di cinquantenni o di secoli. L’arte in qualche modo riesce a salvarsi, nelle tradizioni; la nostra vita, no. Forse più che gradi ci sono statuti diversi per la libertà d’espressione dell’uomo comune e di quello “eccezionale”: ma le regole sono illeggibili.
3) Più che sul privato dovremmo insistere sul concetto di pubblico, dovremmo prestare attenzione a ciò che esso indica in prima istanza, ovvero la presenza di una comunità alla quale ci si rivolge. E che sia un gruppo con interessi in comune o condivida esperienze più o meno di passaggio, transitorie rispetto al senso di destino o di identità formata da secoli, questo è indifferente rispetto alla posizione relativa di ciascuno. Dovremmo imparare a non eccedere nello spazio altrui. La libertà è, ancora, costrizione consapevole dell’individuo, il suo farsi spazio all’interno di un raggio d’azione sedimentato e per lo più stanziale, tanto nella sua dimensione intima quanto in quella più estroversa o estrovertita. E il privato non è soliloquio, ma la possibilità di accedere a un clima di confidenza pur sempre minato dalla distrazione dell’interlocutore. L’interlocutore è altro, come a volte noi a noi stessi. Per questo la libertà è prima di tutto un vincolo soggettivo.
4) Non credo possano esistere limiti o misure per l’osservanza di una pratica, di un uso che è tale in quanto consuetudine, finché appunto non interviene l’eccesso opposto, l’ostentazione. L’insofferenza che genera l’altrui dolore o il proprio, quando l’ideale cui si presta fede non alimenta la segregazione, nostra o dell’identità altrui. Non c’è limite per l’ottemperanza, purché vi sia consapevolezza.
5) Certamente non è deprecabile per la sua condizione di partenza. Non è difficile immaginare una persona schiava del sistema. Il diritto di esprimere le idee dovrebbe incontrare il dovere di discernere le cause: dovremmo porre poi alcune restrizioni, dalle piccole tensioni alle grandi guerre. Ma finiremmo col fecondare – senza ovvietà – i semi di un qualche rimpianto. Sotto il profilo giuridico credo dovrebbe esistere una regolamentazione non tanto dei comportamenti, prescrittiva, ma una giusta e severa pena (se così possiamo ancora chiamarla) per chi supera la misura stabilita dal vivere civile.
6) La violenza fisica, come atto di costrizione, o di violenza gratuita, barbara, ignorante e incivile, deve sempre rispondere (nel senso di mettersi sull’avviso rispetto a qualcosa) alla logica caritatevole del non fare agli altri ciò che non vorremmo subire – senza esclusioni. La violenza non afferma: anzi, nega ciò che nel rapporto con gli altri rappresenta l’opinione dell’altro. Se si vuole, è ancora meno tollerabile che un corpo e una mente umani diventino la macchina esplosiva della sopraffazione. L’umano diventa quella entità abnorme che supera i limiti non solo della propria esistenza, ma dell’esistenza altrui, determinandone un destino non appartenente a nessuno se non a chi ne viene privato.
7) I valori umani sono concetti imprescindibili cui le parole cercano di dare una forma: una forma sempre deperibile. Ci sono parole, tuttavia, che prescindono dagli uomini, dalle sovrastrutture, che li attraversano biologicamente, di generazione in generazione – che sono inscritte nel loro stesso vivere. Non a caso nel preambolo della Dichiarazione si parla si parla di “famiglia umana”: in senso anti-etimologico, senza sottomissione ad alcuna potestà. Famiglia come appartenenza alla specie, dall’universale al particolare e viceversa. L’unico valore assoluto è l’appartenenza, dunque, da cui dovrebbe discendere in maniera diretta il nostro vivere civile. In senso verticale e orizzontale, guardando all’uso e alle leggi. I diritti umani non sono relativizzabili, non sono soggetti alla storia, fanno parte di quel DNA che segna in maniera tangibile l’appartenenza di ciascuno a un sistema di non-monadi.
8) Se c’è qualcosa di inconciliabile, di irrisolto, di non appianabile all’esterno, al di fuori di noi, questo vuol dire che dall’interno, da noi, deriva qualcosa di simile. Il conflitto si replica indissociabile. Non può rimanere separato dall’affermazione dell’io. Finché non si anteporrà in maniera incondizionata l’appartenenza alla distinzione, il conflitto aleggerà sempre. Che oggi ci siano due, tre, cinque, sette, undici fazioni non riducibili, non scomponibili in minimi fattori d’esistenza – al di là dell’intraducibilità di queste parole, come di ogni altra cosa che ci riguarda – questa è diretta conseguenza del nostro essere, che deve crescere nella consapevolezza. Della nostra storia pregressa e di quella a venire, come pegno di continuità.
9) La riduzione ai minimi termini implica un’esattezza disumana, otre-umana. Si possono stabilire dei sistemi d’equivalenza che regolino la norma – o la prassi – della percezione? E cosa possiamo porre a garanzia di ogni atto di interpretazione se, come dimostrano gli studi sulla traduzione, il complesso socio-psico-antropologico è continuamente deviato dalla continuità del senso in contesti diversi? Ecco che la garanzia allora dovrebbe essere qualcosa di personale prima che istituzionale. Ciascuno, garante per la propria persona, dovrebbe promuovere un istinto alla socializzazione che fa della differenza il motore, il meccanismo della contiguità. Nel momento del salto poi, breve o lungo, lì, dovrebbe trovarsi lo spazio del silenzio, della riflessione. Riflettere, vedere se stessi nel bene e nel male degli altri, nelle superfetazioni, certezze, omissioni, colpe, danni. Dentro la memoria attiva.
10) In Italia purtroppo si parla di tutto, ma il clima di dialogo e il confronto spesso scade nella bramosìa di assecondare il prossimo. È la libertà del grande fratello, degli interessi, delle parole dette con scaltrezza, con presunzione, quasi per noia. Purtroppo i tabù non esistono più: credo che in certa misura contribuissero a covare positivamente certe esistenze; ora, al contrario, esaltandole, le uccidono. C’è una mutilazione pervasiva e sottile, poi, che decurta gli argomenti, toglie loro consistenza e peso. Si parla di tutto per non dire niente, per non sbagliare, per tirare acqua al famoso mulino.
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1) Penso che la libertà debba essere limitata secondo diritto. In prima battuta, allorquando essa provochi o direttamente induca violenza fisica; quando si scagli contro un singolo con il deliberato intento di degradarlo e umiliarlo; in ultimo, quando offenda intenzionalmente la sensibilità di comunità riconosciute o implicite. In questi ultimi due casi, il limite non è da pensarsi in maniera rigida, ma dinamica e aperta, flessibile e passibile di continue modifiche: non tutte le libertà hanno la stessa storia. Il garante in questo caso dovrebbe essere non di certo un gruppo di censori, ma i medesimi che amministrano la giustizia ordinaria insieme a coloro che fanno le leggi: saranno essi a vagliare il grado, l’intenzionalità e l’opportunità di frenare l’eventuale perverso uso della libertà, a seconda dei mutamenti di costume che la comunità che rappresentano subisce.
2) Non credo: sono due cose completamente diverse. L’arte non è – e non è radicalmente – un’opinione. Un’operazione artistica è costruita e determinata da un contesto peculiare che contribuisce a renderla condivisa, aperta e plurisensa: da un lato protetta dalla propria storia e dall’altro permeabile da parte della comunità secondo un determinato codice culturale. L’opinione personale, quando è personale e quindi non pubblica, penso non abbia alcuna importanza: non è e non può essere censurata in alcuna maniera.
3) La differenza mi sembra evidente. La prima, pubblica, deve tenere conto dell’impatto di una vasta rete di sensibilità e di diritti, che potrebbero essere lesi. La seconda, no.
4) È giusto ciò che una comunità stabilisce che sia giusto. La misura di questi limiti denuncia e proclama la storia di questa comunità. Se la comunità occidentale fosse consapevole e cosciente della propria storia, non avrebbe alcun timore nell’esposizione di simboli religiosi o politici. Saprebbe che ha già scelto la propria religione, costruita al fine di essere capace di ridurre ogni altra a sé, ovvero l’economia capitalistica e il paradigma scientifico e militare che la difende.
5) Trovo sia logicamente corretto che difendere pubblicamente un atto violento (quindi illegale) sia considerato illegale. Ma ci sono differenze: difendere pubblicamente il furto delle macchine non è uguale a difendere e incitare all’odio razziale o all’omicidio. Ovvero difendere la violenza su persone o simboli comunitari è più grave che difendere la stessa contro cose inerti. Poi: non tutti i contesti pubblici e non tutte le comunicazioni sono uguali: un articolato saggio filosofico non è uguale ad uno slogan ripetuto in televisione. È nella sensibilità dei giudici e nell’intelligenza delle leggi stabilire se c’è opportunità di pena e quanto grave sia la proporzione.
6) La violenza fisica a difesa di un astratto ideale è retorica letteraria, perseguita per lo più da un ristretta élite che se ne arroga il privilegio. Le comunità umane difendono con la forza il proprio diritto materiale di sopravvivere o di vivere una vita che essi ritengono degna. Sono nato in occidente: credo che difenderei con la violenza fisica il diritto di vivere secondo la mia cultura e la mia storia, proprio in quanto sono consapevole che questa mia stessa storia e cultura è stata quella che ha saputo cambiare se stessa nel tempo e farsi permeare materialmente dalle altre culture: difenderei il mio diritto di continuare a farlo.
7) Non esistono valori indiscutibili. È pur vero che ogni valore posto come assoluto è un sintomo di un cammino possibile e forse anche auspicabile: la Dichiarazione Universale dei diritti umani rappresenta questo.
8) Sono radicalmente contrario all’uso di questa terminologia, che trovo subculturale e ipocrita. Il contrasto fra civiltà non esiste; o meglio è una manifestazione di un conflitto permanente fra le comunità umane per l’affermazione di sistemi di potere. Le culture, le più diverse, quando sono culture, ovvero alti complessi ideologici liberi e consapevoli, hanno da sempre ricercato e trovato la necessità nell’arricchimento reciproco. È invece l’ignoranza e la brutale logica del dominio a costruire l’ideologia dell’illusorio “scontro fra civiltà”: quando c’è in campo questa espressione, quello che si intende è uno scontro fra inciviltà.
9) Ogni scala di valore finirebbe per essere propria di una specifica comunità ed è ridicolo che un’altra civiltà faccia altrettanto (se così fosse, non sarebbe altra). La stessa pretesa universalistica di un sistema di giudizio di valori tradisce una volontà di dominio, tipica della mentalità universalistica. È vero che il sistema di vita occidentale, con la violenza materiale e con il consenso, si sta diffondendo e, forse, alla lunga, sarà l’unico mondiale; se così sarà (e non so se sia un bene), allora – e solo allora – sarà molto chiaro quale sia il migliore tra i sistemi di valori delle civiltà.
10) La libertà d’espressione in Italia mi sembra assolutamente malata. Si dà importanza e vasta eco a espressioni dell’ignoranza e della deficienza umana che meriterebbero al limite pietà, spacciandole per opinioni addirittura interessanti. Non è un problema di argomenti sui quali si può o non si può parlare; è che ormai si è creato un sistema di espressione mediatico che puntualmente disinnesca ogni possibilità di espressione intelligente e che renda merito alla complessità dell’esperienza umana.
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1) Una libertà senza limiti sfocia nell’autodistruzione o nella distruzione dell’altro (che, alla fine dei conti, è la stessa cosa). Per questo, ogni libertà, è alla ricerca di un limite. Come in una corsa sfrenata, cieca, in una terra di precipizi, chi ferma i passi un attimo prima, tra la terra e il vuoto riconosce un confine, una misura umana. A guidarlo è soltanto un istinto, un ordine radicato come una pulsazione sanguigna. Se siamo presenti a noi stessi, portiamo nelle nostre parole e nei gesti anche l’altro, lo straniero che attraversa le nostre acque buie. Ereditiamo dai morti il cammino, la direzione del viaggio.
Qualche anno fa ho visto in Marocco una sottile recinzione di canne che seguiva il tragitto della strada. Non capivo a che cosa potesse servire. Non c’erano animali né campi coltivati da custodire. Il paesaggio si faceva sempre più desolato. Quando ho compreso che eravamo sulla soglia del deserto, ho sentito che anche la mia caparbia e fragile barriera interna stava per essere annullata. La mia incredulità mi aveva protetto fino all’ultimo. Ora la diga di canne spariva, mangiata dalla sabbia. Era solo l’aperto a segnare la strada.
Se penso a dei limiti torno in questo margine dove ho visto la tenacia dell’uomo, la sua fede che a un tratto cede a qualcosa di più grande. Penso che ogni confine, come ogni segno, venga tracciato con la speranza di proteggere la vita, di custodire un sentiero.
2) Un’opinione è una lente che può offuscare la visione del mondo. Un’opera d’arte è il dono di una visione, il dono di un mondo. Pochi guardano a occhi nudi, dall’infanzia, continuando a immaginare. A questi pochi è concesso, per la natura immaginativa del loro lavoro, di misurarsi con la libertà. Ciò che li guida è una necessità interiore. Se hanno opinioni le hanno raccolte camminando, come legna per il fuoco. Un’opinione è sempre in rapporto con la falsità. È la simulazione di un convincimento; è il teatro a cui siamo chiamati. Un’opera d’arte è in rapporto con l’autenticità. Con la creazione di una bellezza di cui abbiamo bisogno. Limitarla dall’esterno è come fare di un prato un quadrato di verde.
Bisognerebbe guardarsi dalle opinioni, da chi le ostenta come da chi finge di interessarsi alle nostre.
3) Certo, la nostra responsabilità aumenta in modo proporzionale alla nostra esposizione.
4) I simboli tracciano il nostro orizzonte. Su loro posano le nostre intenzioni e direzioni. Sono labbra che incessantemente pronunciano. Qualcosa che auguriamo così profondamente da averlo spogliato del trascorrere del suono per donarlo alla fissità di un’immagine. Un augurio di bene, una preghiera: non può comprendere il male di un altro.
5) Queste domande pongono di fronte a tanti vicoli ciechi, ad una serie di distinguo necessari e di inevitabili considerazioni, ad un passo dal luogo comune, dal politically correct. Chi scrive versi non è più da tempo depositario di sapienza, né tantomeno, ahimè, un intellettuale. L’ultimo capace di attraversare il suo tempo amandolo oltre la superficie, dentro le sue contraddizioni, è stato barbaramente ucciso. I principali mezzi di comunicazione hanno lentamente ridotto i poeti al silenzio, consegnandoli al bisbiglio della rete, al parlottare dei loro piccoli cerchi. Ora piovono queste domande su argomenti di un’attualità sconcertante; comprendono fatti che hanno insanguinato i nostri giorni, che hanno riempito piazze, schermi, giornali. E io vorrei non rispondere, aprire spazi bianchi, luoghi del silenzio, o di quell’unica voce che ripete inerme e ingenua “non so”, forse l’unica sapienza che ci è rimasta, che ci può essere chiesta. Poeti e narratori, più che compilare un questionario, dovrebbero forse formulare domande. Squarciare la cronaca con un’interrogazione incessante.
Rispondere, per me, è quasi un atto di presunzione. Lo compio, tra nostalgia di un ruolo che era nostro e senso di colpa per un dovere a cui non potrò adempiere.
Di che libertà parliamo quando parliamo di violenza e di distruzione?
6) Il sacrificio della vita è in un rischioso e sottile discrimine con l’idolatria della morte. Chi esige il nostro sangue può essere un idolo falso e malvagio che sogghigna alle nostre spalle. Ci sono valori che nutriti di sangue si sono avvelenati, si sono mutati da germogli bisognosi di luce a piante carnivore, insaziabili.
I valori sono parole bambine aperte sulle dita di una mano: hanno bisogno di tutta la nostra fede, chiedono ciecamente. Sono fragili, sono un soffio che chiama la realtà, che cerca un corpo. Si può dare corpo a una parola perché si avveri, perché si radichi nel mondo. Ci sono momenti storici che esigono che questo dono di noi sia letterale. Si può ereditare questo dono, custodendo il significato di quelle parole che l’hanno originato, mantenendole come cardini del nostro pensiero e della nostra civiltà; e si può perderlo, confondendolo tra i fantasmi e la polvere della storia. Finché qualcuno di nuovo, con la sua vita, anche simbolicamente, ridona significato e senso a parole che erano tornate fievole fiato.
Un ideale può anche chiedere la nostra morte, ma mai quella dell’altro. A uccidere l’altro può spingere l’ideologia.
7) Quella Dichiarazione vale ancora come un orizzonte. Gran parte dei principi che enuncia non sono ancora applicati o lo sono solo in parte. Non credo che nel mondo si siano prodotti mutamenti tali da mettere in discussione quei valori o da farne sorgere di nuovi. Forse potrebbero essere espressi in un’altra forma, avere bisogno di alcune precisazioni, ma il nucleo di quei valori resta.
8) Da una prima e immediata lettura questo scontro tra civiltà sembra evidente, eppure mi chiederei piuttosto chi e che cosa si serve di questo schema. La crudeltà dei fatti di questi mesi, lo shock provocato dai video e dalle immagini che li riproducono è tale da mettere in crisi la nostra stessa capacità di analisi e di comprensione. Da quale torpore dobbiamo essere risvegliati? Di che cosa siamo chiamati a prendere coscienza? Nel gioco di specchi dei mass media una stessa immagine si ripete da una parete all’altra, rimbalza appena deformata e variata nei riflessi (quella appunto dello scontro di civiltà). Ma una frangia estrema di uomini capaci di atti di inaudita barbarie e ferocia non può essere l’espressione di una civiltà, è semmai il sintomo di una frattura e di un profondo disagio al suo interno.
9) In altri termini, si può parlare di civiltà più o meno evolute? È possibile, e in base a che cosa, stabilire e giudicare il grado di evoluzione di una civiltà? Mi tornano in mente le parole di Brodskij che riconosce nella perdita della capacità «di leggere o di ascoltare i poeti […] il piolo della scala evolutiva su cui la società è rimasta bloccata». Tanto più la poesia risulterebbe oscura e difficile tanto più la società starebbe arretrando, allontanandosi da ciò che più appartiene alla natura umana, a ciò che ne rappresenta l’espressione più fragile e insieme più fertile e portatrice di futuro. Sulla base di questo parametro la nostra società è indiscutibilmente regredita nell’ultimo mezzo secolo, da quando è venuta meno quella che ancora, fino agli anni Sessanta, poteva riconoscersi come una civiltà letteraria. Ma risulterebbe più regredita anche di quella di un paese come ad esempio la Colombia, più nota per i suoi problemi legati al narcotraffico che come paese dove la poesia è ancora l’espressione e l’immaginario di un popolo. Ad ogni modo, la capacità di custodire e di prendersi cura della bellezza, della parte più inerme e più propria dell’essere umano, potrebbe essere un punto importante su cui mettere a confronto civiltà diverse.
10) In Italia, apparentemente, si può parlare di tutto. Di fatto però la concentrazione editoriale e dei mezzi di comunicazione, limita fortemente, come un enorme diga, la libertà di espressione. La rete può scavalcare questo argine, ma pochi sono capaci di riconoscere nel suo oceano le correnti e di navigare attingendo ad altre fonti di informazione. Ad ogni modo, prima che di argomenti occultati e rimossi, parlerei di forme. Quella poetica ad esempio è quasi una forma tabù per l’industria editoriale e della comunicazione. Anche nei ristretti spazi che le sono concessi sembra ammessa a patto di rispondere a velleitarie esigenze di mercato che, mascherate da poetiche, si infiltrano in questa piccola regione che poteva sembrare libera (di una libertà pagata a prezzo della marginalità). Sembra che anche la poesia debba cedere al bisogno d’immediatezza di un linguaggio formulato tra uomini che hanno poco tempo per conoscere e per pensare, e un grande bisogno di rassicurarsi e di comprendere. Ma prima che un’esperienza di comprensione del mondo, la poesia è il sentimento della precarietà e incompletezza di ogni comprensione. Altrimenti non si formerebbe per espansione e sottrazione di silenzio, scandendosi nel bianco della pagina. Ogni baratro oggi è percorso da grandi ponti autostradali. Puoi colmare la distanza da una sponda all’altra senza avvertire il vuoto. La lingua tende a portarci in questi viaggi privi di imprevisti e inconvenienti. Pochi continuano a camminare, a sporgersi dalle balaustre. Pochissimi tentano ancora i ponti di corda, sfidando la paura e la vertigine, l’incertezza e il dubbio di ogni passo.
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1) La libertà d’espressione dovrebbe versarsi in una ‘forma’ definita da quell’insieme di valori che ritengo riassumibili nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. I valori espressi in quel documento, imprescindibile – a scanso di ogni relativismo culturale – non solo per l’Occidente ma per l’intera società umana, dovrebbero essere la ‘salsa’ che intride la vita politica degli europei. Posso comprendere il ricorrere alla censura nel momento in cui movimenti sciovinisti e fondamentalisti sollevano dei dubbi sulla validità di tali principi. Reputo che lo scopo di uno stato sia fare fronte alle ‘ingiustizie di natura’: nessuno è responsabile del luogo, del momento storico, della famiglia, delle condizioni economiche, del sesso, dei tratti fisionomici che lo contraddistinguono nel momento in cui nasce. Per questi motivi ogni persona merita una società accogliente e solidale; se questo semplice pensiero venisse insegnato nelle scuole molte cose migliorerebbero.
2) Sì, ma non dovrebbero essere veicolate nello stesso modo, giacché vita pubblica e privata non coincidono, anche nei social network; anzi, proprio con internet è diventato più semplice dare una rappresentazione di noi stessi, decidere come mostrarci al mondo. C’è anche un altro problema, ed è l’autorevolezza – non mi interessa conoscere l’opinione di uno stilista a riguardo dei diritti LGBT, non reputo che abbia le competenze necessarie per portare un contributo significativo al discorso pubblico. Il rumore ci circonda e ci soffoca, il tempo che abbiamo a disposizione è troppo poco per poterlo dedicare a contenuti di scarsa qualità, a provocazioni il cui unico fine è incrementare le vendite di un periodico; è questa la ‘censura’ della quale parlavo: i giornali dovrebbero dare spazio a chi ha dedicato la vita a certe tematiche. L’informazione non è un prodotto come tutti gli altri, come una confezione di sciampo, di carta igienica o un barattolo di yogurt.
3) Tutto ciò dipende dal ruolo pubblico che una persona ricopre; le istituzioni e il mondo della cultura, dovrebbero essere esempio di virtù. Le persone di potere, che si stia parlando di potere economico, mediatico, culturale, politico o religioso, dovrebbero porre particolare attenzione al modo in cui si esprimono; il loro linguaggio è capace di influenzare quello dei giornalisti e quello dei cittadini; essendo le opinioni espresse in modo verbale è importante identificare chi riscriva, corrompa, degeneri, rigeneri il lessico che contraddistingue la nostra quotidianità e che dunque compone le nostre urgenze; è una questione di semantiche.
4) Questo dipende dalla società che desideriamo costruire: in linea di principio non dovrebbero esistere vincoli di alcun tipo, se non quelli che ho già espresso rispondendo alla prima domanda. Per risolvere questo problema, nella Cina della Grande Rivoluzione Culturale, o in altri paesi autoritari di ispirazione socialista, ci si vestiva (si era obbligati a farlo), all’incirca, tutti allo stesso modo, così facendo ciò che sarebbe emerso di una persona sarebbero state le sue doti interiori, le sue caratteristiche intellettuali, non l’appartenenza a una specifica classe sociale o, come alcuni direbbero oggi, strato della popolazione. Questa cosa, dal punto di vista della psicologia sociale, è sensata; è l’abito a fare il monaco e non viceversa, almeno nel momento in cui incontriamo per la prima volta una persona. Io però credo che una persona si possa vestire come desideri, farsi la cresta come un punk londinese degli anni ‘80 o agghindarsi come un derviscio, in ogni caso non dovrà essere discriminata, aggredita o emarginata, saranno le sue idee e i suoi atteggiamenti sociali quelli che dovremo tenere in considerazione. Questo avviene solo quando le persone si riconoscono nella democrazia, sono state educate alla fratellanza, si riconoscono nella laicità dello Stato. L’ambito non dovrebbe essere un segno distintivo il cui scopo sia quello di allontanare le altre persone o, come la divisa dei militari, dichiarare il proprio ruolo nella società, la propria adesione a uno stile di vita o di pensiero; ogni persona deve sapere che la democrazia è il coinvolgimento in un dialogo, ciò di cui abbiamo bisogno è uno sforzo dialettico. Nessuno può imporre ad altri il suo stile di vita, le sue credenze, i suoi costumi. Questo genere di battaglie, per lo spirito stesso del paese, si combattono a scuola. Una buona scuola educa buoni cittadini, cittadini tra loro solidali, non cittadini-ingranaggio che rispondano, in termini di competenze, alle necessità produttive di un’industria. Dobbiamo stare attenti al fatto che i genitori non abusino del “diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.
5) Dipende dal contesto, sempre riferendomi alla Dichiarazione universale dei diritti umani, nel suo preambolo sono messe nero su bianco le seguenti parole: “è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”, dunque io ritengo che l’eversione, il sabotaggio, la violenza, dovrebbero, in certe situazioni, essere pubblicamente appoggiate e promosse, anche quando ciò ci conduca a ricoprire una posizione di assoluta marginalità nell’agone politico. La domanda giusta da porsi sarebbe “viviamo in una società giusta?” e “le leggi che ci governano lo sono altrettanto?”. Il problema, semmai, è identificare quale siano le situazioni nelle quali ribellarsi. Se il paese nel quale viviamo arretra con lentezza, a piccoli balzi, come un gambero, ripercorrendo a ritroso la strada del progresso (e non dello sviluppo – sono due cose differenti e non vanno confuse) quando sarebbe giusto sollevarsi contro la tirannia? Che cosa intendiamo, quest’oggi, come tirannia? Non siamo forse soggiogati da una tirannia ‘morbida’?
6) La violenza, anche fisica, è un elemento ineludibile, se l’argomento del quale stiamo discutendo è la democrazia; la storia umana è segnata dall’opposizione tra strati sociali e tra idee, soprattutto la storia dell’Occidente. Piketty, con il suo Il capitale nel XXI Secolo dimostra che il capitalismo ha incrementato sempre più le disuguaglianze concentrando la ricchezza nelle mani di pochi soggetti. In un mondo dove regna una ragione deviata, dove la mobilità sociale non è che un remoto miraggio, dove i diritti umani sono, sempre più, messi in discussione, è inevitabile che, in un futuro la cui distanza non mi è dato conoscere, ampie fette della popolazione cercheranno di ribellarsi; gli strumenti di lotta che hanno caratterizzato il Novecento e l’Ottocento, nell’età della globalizzazione, non sono più sufficienti per contrastare certe concentrazioni di potere né per consentire la necessaria redistribuzione della ricchezza – a un potere globale serve opporsi globalmente; è possibile? Per ora credo di no.
7) Ritengo che questo documento sia ancora attuale, anzi, assistiamo, con l’indebolimento del ruolo che gli stati hanno subito, in favore di soggetti economici sovranazionali, a un peggioramento, a una regressione, del grado di coscienza posseduto dalle persone a riguardo dei loro diritti. Dobbiamo adoperarci per diffondere la cultura dei diritti. L’efficientismo frutto della ‘vergogna prometeica’ è uno dei più gravi pericoli che ci troviamo ad affrontare; gli essere umani non rispondono alle caratteristiche nominali proprie dei prodotti del loro ingegno, prodotti che possono essere sostituiti una volta che si sono guastati. Non siamo nemmeno ingranaggi che, una volta logori, si buttino, si rimpiazzino – l’idea del lavoro che si è diffusa negli ultimi venti, trent’anni è proprio questa e il capitalismo nomade ne è la diretta conseguenza.
8) La tesi Huntigton, per certi versi illuminante, ha, ma lo dico con una limitata competenza in materia, alcuni limiti – io credo che ci sia una ‘kultur’, quella della globalizzazione, cosmopolita, efficentista etc. e delle civiltà. In queste civiltà la paura, il disagio sociale, la precarietà, sono foriere di quella sventura che risponde alla definizione di ‘ragione deviata’; l’istinto di autoconservarsi, proprio dell’uomo razionalizzatore, ci sta riconducendo alla barbarie e nel frattempo una nuova società sta sorgendo, una società impermeabile e dei pochi, una società la cui religione coincide con il capitalismo, ovvero, citando Benjamin, il denaro è l’oggetto di culto e il lavoro la liturgia. In pratica, dove non sono riusciti i gesuiti e il maoismo, intendo dire a contrastare il culto degli avi, il turbocapitalismo sta avendo successo.
9) Questa è una domanda molto insidiosa, non esiste un sistema di valori adamantino, se un sistema di valori si sclerotizza, se rinuncia al confronto con la diversità e l’alieno qualcosa non sta funzionando, le forze reazionarie in quel luogo stanno avendo il sopravvento. Vale lo stesso ragionamento che si fa con le lingue, le lingue si influenzano in modo vicendevole e ogni linguicidio è una lutto, un crimine. La globalizzazione turbocapitalista è un culturicidio, è un fenomeno di omologazione che sta resuscitando il più squallido sciovinismo europeo come il fondamentalismo islamico. Pensiamo a ciò che è stato fatto dall’industria culturale americana, per esempio, a come la sua diffusione sia stata capace di modificare i desideri di milioni di persone. Ciò detto quando parliamo di valori non dobbiamo dimenticarci che questi sono la ‘concezione del desiderabile’ ed esiste, essendo io un essere umano come tutti gli altri, un sistema di valori che ritengo migliore rispetto ad altri. Io credo che questo sia deducibile analizzando di ciò che ogni essere umano ha in comune con gli altri esseri umani. Deve avvenire, kantianamente, la libera circolazione delle idee. Non devono essere posti limiti alle espressioni individuali se non nel momento in cui il loro scopo è privare di questa stessa libertà gli altri individui o negare altri diritti universali; dunque, io penso che possano esistere atteggiamenti sociali, che chiamerò di alto livello, attraverso i quali si possano dedurre dei valori universali e credo che la Dichiarazione universale dei diritti umani lo testimoni. Nessuna civiltà ritiene che morte e sofferenza siano qualcosa di buono, né l’umiliazione, la segregazione, l’odio o il sopruso; la barbarie occorre quando questi tratti contraddistinguono un dove e un quando.
10) In Italia si può parlare di qualsiasi cosa, esprimersi non coincide con il persuadere né il discutere – ci hanno detto che la democrazia è un sistema armonioso dove si deve andare tutti d’accordo e dire qualsiasi sciocchezza ci passi per la testa pensando che l’opinione di ogni persona abbia lo stesso valore. Non è vero, la democrazia si fonda su un costante sforzo dialettico.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).