Juan Carlos Reche – Come è letta la poesia italiana all’estero /2

da | Mar 14, 2014

Lingue apparentemente vicine e strettamente imparentate come l’italiano e lo spagnolo (di Spagna) hanno dato origine a tradizioni culturali e letterarie spesso lontane tra loro, mancanti di ogni riconoscimento reciproco. In ambito poetico, ad esempio, all’imposizione transnazionale e plurisecolare del petrarchismo hanno fatto seguito pochi altri esempi altrettanto significativi e dichiarati di influenze e contaminazioni letterarie. Anche in questa transazione letteraria e culturale, dunque, ha un peso determinante il ruolo di traduttore, come spiega molto bene Juan Carlos Reche Cala (Córdoba, 1976), prolifico traduttore di poesia italiana in spagnolo (tra cui ricordiamo soprattutto le versioni di Giorgio Caproni, Poesía Escogida, e di Giovanni Raboni, Gesta romanorum) e a sua volta poeta. L’intervista è il secondo appuntamento del nuovo spazio di “Officina poesia” che illustra la ricezione della poesia italiana all’estero attraverso una serie di conversazioni con alcuni traduttori di diversi paesi. Nella prima uscita Evgenij Solonovich sulla traduzione di poesia italiana in lingua russa.

Mentre prendevamo accordi per questa intervista, ti è stato conferito il Premio Nazionale per la Traduzione 2013 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano. Che significato ha avuto per te questo premio?

È stata una grande gioia, a ragione, precisamente, di quello che questo premio rappresenta: il riconoscimento del lavoro di un traduttore di poesia che è poeta in prima persona, e non un traduttore professionista. E poi perchè il premio conferma il fatto che le scelte che ho preso all’interno della mia poetica della traduzione non sono sbagliate.

A questo proposito, cosa implica, per il traduttore, costruirsi una propria poetica della traduzione?

È un discorso lunghissimo da affrontare, ma cercherò comunque di dare qualche elemento. Un punto fondamentale, per me, è il ruolo del traduttore fuori dal testo. Tutto quello che fa prima di mettersi a tradurre e quello che fa dopo aver tradotto: selezionare l’autore o il libro, decidere come presentarlo, per quale tipo di lettore tradurre, per quale casa editrice, con quale tiratura, chiedersi perchè questo autore e non altri, eccetera… Tutto questo lo faccio, quando capita, parlandone con l’editore. Credo che sia il regalo più importante che il traduttore possa fare ai suoi lettori. Mi sembra un fatto molto importante perchè credo che abbia un’influenza anche sul canone letterario della lingua di partenza, non soltanto per l’importanza che un autore, venendo tradotto, si può guadagnare all’estero (e, di rimbalzo, anche nella propria tradizione letteraria), ma anche per il lavoro critico che implica una pubblicazione, attraverso l’apparato paratestuale.

In secondo luogo, credo che ci siano alcuni aspetti generali che sono quasi sacri, come ad esempio, il fatto di chiedere aiuto ad altri traduttori, lettori e amici quando il risultato non sia all’altezza, oppure non consegnare mai una traduzione che si ritenga ancora migliorabile, in breve tempo, dare la possibilità alla traduzione di poter ‘vivere’ per anni prima di arrivare alla pubblicazione, per vedere come cambia il mondo, nel frattempo, come cambia il linguaggio, eccetera…

Quali sono le prospettive della traduzione di poesia, oggi? C’è qualcosa che ti preoccupa?

C’è una frase trita e ritrita, che i poeti, i traduttori e i lettori ripetono, secondo la quale ciò che davvero importa, rispetto a una traduzione di poesia, è il fatto di poter leggere nella propria lingua una poesia vera, un testo compiuto, costruito con versi plausibili, che sembri scritto direttamente nella lingua d’arrivo.

Secondo me questo è il minimo che si possa chiedere. Bisogna anche chiedersi: dove va a finire lo stile? Se uno si accontenta che il testo vada bene o comunque che sia una buona poesia, come si distingue un poeta da un altro? E questo è il dramma di molte antologie: i poeti si assomigliano moltissimo tra loro. Sembra che il traduttore (quasi sempre un poeta a sua volta, in questi casi) sia il vero autore di tutte le poesie. Sembra di aver di fronte dei Pessoa falliti.

C’è un’altra cosa che mi preoccupa. Mi sembra stupendo che nessuno imponga cosa si possa pubblicare e cosa no, che non ci sia alcun tipo di censura, nè statale nè accademica. Però mi sembra paradossale e mi affligge il fatto che alcuni autori vantino vari libri tradotti in spagnolo e altri, che sono considerati già dei maestri, non solo non abbiano mai avuto una traduzione, neanche di una singola poesia, ma siano anche dei perfetti sconosciuti. Ricreare quello che è il paesaggio di una tradizione in un’altra lingua è difficile, perchè non c’è arbitro che tenga (è la cosa più simile che ci sia a ‘scoprire’ un nuovo continente, e sappiamo già com’è finita quella storia), però un certo buon senso non farebbe male. Mi sembra magnifico che Antonella Anedda o Valerio Magrelli abbiano 3 o 4 libri tradotti in spagnolo, ma mi addolora profondamente il fatto che quasi nessuno, in Spagna, abbia mai sentito parlare, fra i tanti esempi possibili, di Vittorio Sereni o di Amelia Rosselli. Fare luce su queste situazioni e prendere delle decisioni è, secondo me, parte integrante del lavoro del traduttore.

Passiamo ora alle tue pubblicazioni. Nel 2012 la casa editrice Pre-Textos, di Valencia, ha pubblicato “Poesía escogida” (“Poesia scelta”) di Giorgio Caproni. Ti sei occupato sia dell’edizione del testo che della traduzione, in collaborazione con Juan Antonio Bernier. Com’è stata l’esperienza di traduzione collaborativa? Avete incontrato qualche difficoltà nella selezione e nella traduzione delle poesie di Caproni?

Iniziai a tradurre Caproni quando vivevo a Roma, nei primi anni del Duemila. Mi resi rapidamente conto che all’epoca non avevo le capacità metriche e fonetiche per fare una buona traduzione. Non avevo un grande orecchio, all’epoca, perciò decisi di contattare un altro poeta che avesse queste competenze. Scelsi Juan Antonio Bernier perchè aveva già dimostrato una padronanza completa di questi aspetti nella sua poesia. La sua esperienza fu di fondamentale importanza con le rime, le assonanze, la sinalefe, eccetera…

Il lavoro iniziò in un momento in cui nessuno dei due aveva accesso a Internet, perciò dovevamo sfruttare i viaggi e le vacanze per lavorare insieme. Più tardi, grazie allo sviluppo delle tecnologie, abbiamo potuto lavorare in tandem in modo più fluido, anche se devo dire che Internet è sempre stato poco utile per quello che riguarda il lavoro filologico e di traduzioni: ricerca delle fonti o delle soluzioni ai problemi di traduzione, traduzioni contrastive, eccetera… É servito, più che altro, a ri-sparmiare sulla bolletta del telefono.

Un aspetto di Caproni che ci ha interessato molto è il fatto che Caproni è stato un poeta che è progredito da se stesso verso l’esterno, passando sempre e comunque attraverso di sé. Si dice che ci sono poeti che scrivono soltanto un libro in tutta la loro vita e che poi ne pubblicano varie versioni. Secondo noi, Caproni iniziò proprio in questo modo, ma poi seppe trovare una via d’uscita da questo orizzonte, evitando di cadere nella monotonia e diventando uno dei maestri del secondo Novecento, una delle voci fondamentali di tutto il secolo.

Perchè, nel 2012, avete scelto di tradurre Caproni? Cosa significa una traduzione di Caproni in Spagna e, in generale, nel panorama culturale di lingua spagnola? Caproni può vantare qualche influenza, letteraria o culturale, sulla tradizione poetica, anche recente, in lingua spagnola?

Dobbiamo dire che la nostra non è stata la prima traduzione di Caproni. Di fatto, è stata la seconda, in Spagna. Credo che in America Latina ce ne siano state anche di più, ma sempre a partire da un periodo specifico della sua produzione poetica. Mi sembrano ottime traduzioni, ma non corrispondono in tutto e per tutto all’ampiezza della figura e dell’opera dell’autore.

Al momento, la ricezione critica e del pubblico è stata molto positiva (qui se ne possono leggere alcuni esempi), ma non so se ha avuto un qualche impatto sui poeti spagnoli. Forse sì, ma in alcune questioni della minima importanza, sullo stile, sui punti di vista. Credo anche che Caproni sia uno di quei poeti che sono difficilissimi da emulare, perchè ‘puzza’ subito di Caproni. Lo stesso succede con Saba. Diamo a Virgilio Giotti quello che è di Giotti, perchè è stato Giotti (tradotto benissimo in spagnolo da Ricardo H. Herrera) e non un semplice clone di Saba!

Prima del volume di Caproni, hai tradotto “Gesta Romanorum” di Giovanni Raboni (“Vaso roto”, 2011). Perchè hai scelto proprio questo testo di Raboni e quale significato ha avuto la sua traduzione?

Credo che il libro di Raboni sia il mio contributo più importante alla tradizione poetica italiana. Ricostruire Gesta Romanorum, vincendo le reticenze di Patrizia Valduga, è stato una vera e propria conquista. E senza Luca Daino il libro sarebbe risultato molto simile, ma non avrebbe avuto il peso specifico che ha. Daino, che ha collaborato con me all’edizione critica del testo e che ha firmato una illuminante postfazione, intitolata “Un libro che non è mai stato un libro”, è andato al Centro Studi Betocchi ad analizzare contrastivamente i testi che eravamo in procinto di pubblicare, nonchè la corrispondenza, a tutt’oggi inedita, tra Betocchi e Raboni, trovandoci alcune sorprese. Questo è, di nuovo, il lavoro del traduttore fuori dal testo, che per me è tanto importante quanto tradurre bene.

Abbiamo poi inviato all’incirca 30 copie del libro in Italia, alle case editrici e alla stampa. E, credimi, resta un mistero il motivo del fatto che questo testo non esista ancora in Italia. Ma diamo tempo al tempo…

Lavorando a Gesta Romanorum ho scoperto che tradurre non è semplicemente starsene a casa aspettando che ti chiamino da questa o quella casa editrice e vedere cosa ti offrono. È un’impresa filologica e critica, è il contributo che il traduttore può dare al canone della lingua di partenza.

Nel 2013, infine, è uscita “La corsa del frutto”, la tua prima raccolta in italiano, tradotta da Valerio Nardoni e pubblicata da Lietocolle. Il tuo lavoro di traduttore, portandoti a conoscere in modo approfondito alcuni autori che non appartengono, in prima battuta, alla tradizione poetica in lingua spagnola, ha avuto una qualche influenza sulla tua scrittura?

Quello che ti posso dire è che il concetto di tradizione, in Spagna, è diverso da quello che possono avere gli scrittori italiani. Da un lato, la mia generazione è stata quella che ha rotto i legami con un’idea di tradizione letteraria come corpus prevalentemente o esclusivamente formato dagli autori che hanno scritto nella tua stessa lingua e che hanno vissuto tuo stesso Paese. Quando chiedi ai poeti che hanno meno di quarant’anni in quale tradizione si riconoscono, ti fanno un elenco in cui il gruppo che risulta meno rappresentato è proprio quello degli autori spagnoli. In questo modo, abbiamo rotto anche con la vecchia storia delle dicotomie e dei gruppi letterari. In secondo luogo, possiamo contare sul fatto che ci sono poeti in lingua spagnola che provengono da molti Paesi diversi del mondo e, quindi, da tradizioni letterarie e culturali diverse. L’avvicinamento alla letteratura ispanoamericana che si è registrato negli ultimi venti anni è stato di fondamentale importanza per le nostre poetiche. La tua domanda, dunque, è molto interessante e veritiera, ma io non mi sono avvicinato a queste culture letterarie nella veste di traduttore, bensì come lettore e poeta.

Com’è stata l’esperienza di essere tradotti a propria volta?

Ho chiesto disponibilità a Valerio Nardoni perchè è uno dei traduttori che si occupano di più e meglio della traduzione della poesia spagnola in Italia. È incredibile come in così pochi anni abbia fatto un lavoro così importante. Il premio Gerald Parks per la traduzione che gli è stato recentemente conferito è il minimo che l’Italia potesse fare per lui, per riconoscere il suo curriculum.

Abbiamo stabilito fin da subito uno schema di lavoro che si basava su un processo di traduzione, correzione, suggerimento di una possibile traduzione, nuova traduzione, e così via. Valerio traduceva, mi mandava le versioni, io ci riflettevo e prendevamo le decisioni insieme. Quando giungevamo a due possibilità egualmente buone, lasciavo sempre a lui l’ultima parola.

Sono fondamentali la fiducia e il rispetto dell’altro, così come il fatto di saper prendere le decisioni definitive tenendo conto del tutto, cioè del libro nel suo complesso. Questa esperienza mi ha portato quasi a scrivere in italiano, riscrivendo in italiano alcuni versi e alcune strofe…

Traduci verso lo spagnolo, una lingua parlata in più di venti Paesi come madrelingua e diffusa in diversi continenti. Come ti confronti con questo dato, nel tuo lavoro?

Naturalmente si tratta di una questione di grande responsabilità, ma la verità è che sono un po’ stanco delle osservazioni che solitamente si fanno su questo argomento, e anche del fatto che si tratti il lettore come se fosse un idiota. Ricordo che una volta, in un Paese latinoamericano, fui invitato a una tavola rotonda sulla traduzione alla quale partecipavano traduttori italiani, spagnoli e latinoamericani. Uno dopo l’altro, tutti i traduttori a lingua spagnola si concentrarono sulla difesa del castigliano usato nei loro Paesi, affermandone eguale dignità rispetto al castigliano che si usa in Spagna (come se non lo sapessimo!) e dissero tutti di essere molto infastiditi dal fatto che nelle traduzioni dei grandi gruppi editoriali, diffuse anche nei loro Paesi, fossero utilizzati termini più affini allo ‘spagnolo di Spagna’. Tutti questi traduttori e lettori erano profondamente irritati, per fare un esempio, dal fatto che traducendo una poesia di Montale si usasse la parola “autobús”, al posto di “guagua”, che si usa a Cuba, o di “ómnibus”, che si usa in Argentina, e così via. Finivano tutti per difendere l’utilità della traduzione, favorendo, cioè, la comunicazione e la normalizzazione del messaggio nei confronti di un tipo circoscritto di lettore.

Quando ho preso la parola, ho lanciato sul tavolo una boutade. Ho detto: “Allora è possibile tradurre il Don Chisciotte nello spagnolo di Cuba, no?” Certo che sì, hanno detto tutti. Ma riuscite a immaginarvi Don Chisciotte della Mancia che parla in cubano a Dulcinea del Toboso? Oppure Sancho Panza che prepara i frijoles [fagioli, nello spagnolo di Cuba, n.d.T.] a ritmo di guaguancò [ballo tradizionale cubano, n.d.T.]? Credo che questa idea sia vicina al considerare il lettore come se fosse nostro simile e non come una persona diversa, che merita rispetto in quanto tale.

Quando lessi Montale, molto tempo prima di conoscere a fondo la lingua italiana, lo lessi quasi sempre in edizioni latinoamericane, e le varianti lessicali non mi davano fastidio; al contrario, ottenevano di risvegliare il mio interesse di lettore. Ho letto Montale tradotto dall’argentino Horacio Armani e ancora oggi, quando ho bisogno di una sua traduzione, cito, per fare un esempio, le versioni del messicano Fabio Morábito.

Insomma, come avrai capito, i miei colleghi erano ossessionati dall’asse orizzontale della traduzione, l’asse spaziale. A me, invece, interessa l’asse verticale, l’asse temporale. Ovvero: cosa significa tradurre nel ventunesimo secolo? Come e quando tornare a tradurre quello che è già stato tradotto nel passato? Quali testi trasmettere ai miei contemporanei e, soprattutto, al lettore del futuro, al lettore che ancora non esiste? Il testo che sto traducendo continuerà a reggere quando mia figlia di quattro anni potrà leggerlo, o mi dira: “papà, ma quanto eri antiquato negli anni Dieci?”

Raccontaci dei tuoi nuovi progetti…

Isabella Leardini mi ha invitato a curare una rubrica per il sito di Parco Poesia, intitolata Il Belvedere, nel quale presento autori di lingua spagnola e portoghese e i loro traduttori italiani. Sono contento di aver ricevuto questa proposta, perchè mi piace questo tipo di lavoro, dove si dà eguale importanza sia all’autore che al traduttore, e i casi non sono molti.

Inoltre, quest’anno escono alcuni libri, un’antologia di Nuno Júdice, il grande poeta portoghese – tradotto occasionalmente in italiano da Giulia Lanciani – e, infine, dopo dieci anni, Il disperso di Maurizio Cucchi. L’attesa è stata così lunga perchè sentivo che le mie capacità non erano all’altezza di quel libro. Sarebbe stato troppo facile farne una traduzione diretta, ma come libro in lingua spagnola non avrebbe funzionato. Nel frattempo, continuo a lavorare sul secondo Novecento italiano.

Quali libri mancano, secondo te, in traduzione italiana?

Molti. In particolare, penso a una buona antologia della poesia spagnola, a partire dagli anni Cinquanta, e a un’altra di poesia latinoamericana. Qualcosa che continui i lavori di Oreste Macrì e Francesco Tentori, pubblicati da Guanda nel 1952 e nel 1957.

Immagine: Ritratto dell’autore di David Puig.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).