Maree Basse – Poeti francesi contemporanei /3

da | Lug 11, 2014

BASSA MAREA

La porta era aperta, scardinata
e sei entrata.
Non un grido ti era giunto dal giardino brullo, non un [fruscio
ma il tremolio dissolto di una pozza in secca; la sua [impronta a mosaico saliva nell’aria
vibrare di una lingua dolce e bianca dall’accento a scatti [delle mosche.
Sei entrata non si sa da dove,
deserta come quel cespuglio che voleva trattenerti per il [vestito e gli hai lasciato fra le spine un lembo
di testo a sbiadire al sole, nel tacito profumo dei cardi.
Attrezzi arrugginiti a terra.
Porta aperta, scardinata.
Più in là, verso il borgo, non abbaiava un cane allora sei [entrata.

Hai visto l’ombra della tua mano su un raggio di polvere,
il focolare spento di grigio e nero,
senza soffietto né tizzone.
Nient’altro che un giaciglio sfondato, senza più doghe
e il pavimento scheggiato su legni intravisti.
Precipitazione vegetale di voci innalzate nella polvere.
Nel solco del materasso, per motivi arabeschi su un fondo [slavato, consunto d’aloni,
l’odore secco caduto dal giorno attraverso le smorfie [dell’intrico di travi e il lavoro accanito delle bestie
invisibili.

Groviglio nel mezzo del sonno,
intrecci di fili in un candore larvale e la materia che riconosci dai palpiti scorsi delle
grandi acque.

*

PAROLA DEL MATO

Come è vasto il deserto
sotto il sole che non si fissa,
posso andare, parlare,
senza voltarmi indietro, a piacere,
poiché il deserto è vasto
e quanto è bello rivolgersi a tutti questi granelli,
ora colti, ora con me,
nel vento.
Un presente.
Posso rispondere ad ogni miraggio
e camminare a stento,
senza mai trovarne sotto il sole la minima traccia.
Poiché nessuno il deserto
fissa per sempre.
Poiché il vento porta terra e luce, in un solo
soffio,
come se tu dormissi.
In pieno giorno come in piena notte
cammini ancora nell’inerzia.
Cala la notte.
Ti fermi.
Dormi.
E porti ancora il tuo fardello
nel sonno,
il sogno giunge con l’oblio.
In cielo le stelle non sono più quel che si credeva,
né la sua notte, né questa vita.
Ciò slega lingue lontane,
innumerevoli alambicchi, alfabeti
quando posso leggere quanto un asino.
Comunque sento la forza di certe immagini,
così, senza alcuna lanterna,
sull’esatto orizzonte del cielo.
La voce della luna, ad esempio.
Amo la voce della luna.
Non cerco terra
e non voglio miele
ma la voce della luna è dolce
ed è lei che amo.
La notte, nella sua luce,
non vedo nessun palazzo,
né alcuna città.
Gli ultimi greggi,
gli ultimi recinti
sono ben lontani, stanotte
e domani
e finora sulla sabbia,
nella voce di colei che amo,
questa melodia che si sente
senza posa per il mondo
più giusta, se non esatta,
di qualsiasi storia che possa scorrere
in questo deserto infinito.
Grave e dolce musica in corde straniere,
di un legno che non esiste in superficie.
È il volto della luna.
Poi mi addormento davvero.
E mi dimentico, al mattino,
che devo abbassare gli occhi.
Ed è così che, di giorno in giorno,
la mia vista cala.

Conosco il mondo.
Ne parlo
nel corso del cammino.
Sale dal suolo,
traccia nell’aria calda
curve irreali,
sagome spettrali
e lampi di genio.
Il mondo scorre fra le visioni.
Bianche carovane si fanno
e si disfano o si intrecciano nelle acque.
Nel vento, ancora,
che trasporta e trascina
lo sbattere delle tende e il vociare delle bestie.
Troppo rumore.
Meglio tacere,
toccare con la punta della lingua
la magra saggezza della vacca malata,
distesa sul fianco
e che ha dimenticato tutto del muggito.
Spesso è meglio tacere e sorridere
giallo come una rappresentazione di sole
o l’occhio di un ubriaco
poiché è inevitabile condividere il tè, la sete
e l’istante delle vie immaginarie.
Per colpa di questa terra, di questo sole
e dell’orizzonte,
ho molto camminato,
ho molto visto
e sono entrato nelle città.
Vivo per strada,
al mercato,
in chiesa,
a palazzo,
mendicando per conto della corte dei miracoli.
In tempi di vacche magre
semino il riso senza sapere perché,
per mangiare, per ridere,
per non sapere perché.
Sono ebbro di rumore e vino
e sangue che batte alle tempie.
Niente pane oggi.
Poiché sento un deserto oltre il silenzio,
ascolto tendendo l’orecchio sull’asfalto
e dormendo parlo al mio fardello.
Dico le brume
che escono dalle case
e dal cranio degli uomini
e delle stagioni.
Mi alzo.
Fumo sotto i diluvi,
i colpi della sorte.
Mi pestano a sangue una sera
su una banchina,
davanti a una bettola.
Cado, svenuto,
come quell’ultima stella
che ho dovuto vedere in sogno.

E dato che non è una stagione
che resista al vento,
non so trattenermi
e mentre mi assopisco sul pavé,
ai piedi delle fontane o al fruscio
circolare di un volatile,
qui, bevuta tutta la vergogna,
fra i cani e i cocci rotti
e le onde erose dal calore
rimbalzate dai muri fuggiti,
mi alzo e vado verso il deserto,
di nuovo,
di ritorno,
come un’onda,
come se solo tu potessi vederla
e arrenderti
e questo è quanto.

*

ARCIPELAGO

Lasciando un vecchio porto insulare
come si lascia una strega
che pure vi ha amato.

La costa di notte.
In voi s’illumina un sogno di lei,
lei, vaghi modi di andare incontro.

Ansa o lei stessa, lei è
anguilla di segno.

Sui resti, sulla fame
che queste spiagge barbare vi lasciano,
soltanto. Una fenice si assopiva
sotto la diserzione dei villaggi
fino alle spiagge argentee.

Essere così come si è,
di nuovo ebbro,
in pieno sole e lontano dal fragore.
Parlarvi con l’accento delle mosche antiche.

Dal cielo al di là delle luci.
Il greto ne è un sogno senza limite,
senza doverci pensare.

Poi tornerà
inaridito, alla ricerca
di una fonte qualsiasi, vostro sogno.

Non tessere che un sogno di serpente,
geometrie, in basso, nell’incavo delle pietre.

Un focolare vuoto che attendeva.
Siringhe sparse
in un silenzio marmoreo.
Gli addii non finiscono
verso Tiro, a una svolta che sfondò
il Settentrione.

Il focolare che vi è reso,
tutto eroso.
Riconoscere occhi grinzosi, volti e lingue oscure.

L’amicizia su torri assenti,
da qualche parte dove la luna può tuffarsi.

Alla grazia ermetica delle pietre
o al metallo vivo dei secoli, degli ulivi, di fronte,
qui dove fonde la luce.

Yves Bonnefoy, L’ora presente (Poeti francesi contemporanei /1)
Guy Goffette, Elogio per una cucina di provincia – Poeti francesi contemporanei /2

Immagine: Meris Angioletti, GOLDEN, BROWN AND BLUE (2013), six slide projections, coloured gels and text, variable dimensions.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).