Amore, mondo in pericolo – Il corpo, favoloso

da | Giu 9, 2015

La relazione amorosa con l’ispanista americana Katherine Reding fu alla base delle tre principali raccolte di poesie d’amore di Pedro Salinas: La voce a te dovuta (1933), Ragioni d’amore (1936) e Lungo lamento. Dopo Amore, mondo in pericolo, con Il corpo, favoloso pubblichiamo la seconda e ultima parte di questa grande raccolta che doveva costituire il terzo anello della trilogia amorosa, ma che venne pubblicata integralmente soltanto dopo la morte dell’autore. Se da un lato è sempre difficile sapere con certezza quale fosse la reale intenzione del poeta rispetto all’insieme di questi testi, dall’altro è ben evidente che appartengono tutti ad una stessa atmosfera poetica e hanno una medesima scaturigine affettiva, tanto da far ipotizzare che l’interruzione di questo suo progetto, che la sorte renderà poi definitiva, possa essere ricollegata al declino ormai irrimediabile di quel suo grande sogno d’amore.

Scriveva Salinas a Katherine già nel novembre del 1935: “Non mi serve a nulla un modo speciale di sentire il mio amore per te se tu non lo senti con me”; fu forse proprio la mancanza di quella condivisione a far sì che il libro perdesse, per il suo autore, il senso di essere concluso e infine pubblicato. Ma forse è anche  per questo motivo che oggi possiamo leggere un’opera di grande poesia densissima e sfumata allo stesso tempo, come di un amore che non vuole morire.

A cura di Valerio Nardoni

(Poesie 1 e 14 tratte da:  Pedro Salinas, Amore, mondo in pericolo – Lungo lamento, a cura di Valerio Nardoni, Firenze, Passigli Editori, 2014 –  Poesie 19 e 22 tratte da: Pedro Salinas, Il corpo, favoloso – Lungo lamento, a cura di Valerio Nardoni, Firenze, Passigli Editori, 2015.)

***

1

AMORE, MONDO IN PERICOLO

C’è da far attenzione
molta attenzione: il mondo
è molto debole, oggi,
e della vita è questo
punto il giorno più fragile.
Non mi azzardo neppure
a pronunciare il nome,
spezzassi con la voce
quell’intarsio sottile
plasmato da alternanze
di sole e luna, raggi,
che è il petto dell’aria.
C’è da sognar pian piano,
perché i sogni decidono
come fossero passi;
e si lasciano dietro
impronte così nette
che l’anima trasale
nel vedere la terra
riempita di intenzioni
che sono forse tombe
del nostro grande intento.
Sognare quasi in punta
di piedi perché l’eco
d’un sogno, o un piede duro
su un suolo così tenero
potrebbe far crollare
le favolose torri
di qualche Babilonia.
C’è da affinar le dita:
oggi tutto è di vetro
appena lo prendiamo.
Nella nostra altra mano
forse diventa polvere
prima del necessario
se la si stringe più
di un ricordo di carne.

C’è da fermar le gocce
della pioggia: cadendo
sulla terra aprirebbero
fosse come sepolcri;
il suolo è così blando
che è tutto sepoltura.
Frenare, ancor di più,
quando fossimo al bordo
di un lago d’argento
quella voglia di piangere
che la gran somiglianza
con un lago d’argento
smuove dentro di noi.
Sì, fermare le lacrime.
Se oggi cade una lacrima
con il suo peso immenso
dentro un lago o degli occhi
che ci amavano può
giungere così a fondo
da abbattere gli uccelli
del cielo più bramato,
e, nel far piover piume,
riempia tutta la terra
di sconfitte di ali.
C’è da tener lo sguardo
sui giunchi di mercurio
che misura il calore.
Se l’ardore si alza
nei petti o nei termometri,
può rovinare il tenero
raccolto che promettono
quei semi di parole
delle lettere urgenti.

Vegliare, soprattutto,
lei, la tremenda forza
e bellezza del mondo:
amore, amore, amore.
Lei che è grido e sussulto,
maestra negli eccessi,
di rapimenti esempio,
scatenata baccante
coi suoi capelli sciolti
per inquietare i venti,
quella
invidia dei torrenti,
esempio di uragani,
la figlia favorita
degli dèi estremi
– amore, amore, amore –
che col suo delirante
abbraccio fa scricchiare
dal retro della carne
che si lascia avvinghiare
quello che più resiste
dentro quel corpo umano,
con baci e tenerezza:
il destino finale
dell’uomo: il suo scheletro.
Amore, amore, amore.
Perché, chi ha mai saputo
se crea o se distrugge?
E se, quando ci avvampa,
ci eleva nelle fiamme
o se ci vuole in cenere?
Perciò, il mondo, oggi debole,
la teme più di ogni altro.
E bisogna allertare
tutti quanti gli amanti
che la vita è sul punto
di sbriciolarsi se
continuano a baciarsi
con i baci di prima.
Si spengano le luci,
si arrestino le labbra,
che le voci non dicano
mai più: “Ti amo”. Che
regni un grande silenzio,
una perfetta quiete,
e si scampi il disastro
di labbra che cercandosi
causerebbero a questa
terra, somma di successi!
Riesca appena lo sguardo
quanto di più innocente
c’è nel corpo dell’uomo,
a trattenere in serbo
un futuro all’amore,
in quella lieve stella
che abita negli occhi
e essendo così pura
non può rompere nulla.

Così debole è il mondo
– zendadi o cristalli –
che ci si deve muovere
come nelle illusioni,
dove un amore può
morire se fai chiasso.
Solo
una tremula attesa,
un respiro segreto
o fede senza indizi,
riusciranno a salvare
oggi,
la gran fragilità
di questo mondo.

E la nostra.

*

1

AMOR, MUNDO EN PELIGRO

Hay que tener cuidado,
mucho cuidado: el mundo
está muy débil, hoy,
y este día es el punto
más frágil de la vida.
Ni siquiera me atrevo
a pronunciar el nombre,
por si mi voz rompiera
ese encaje sutil
labrado por alternos
de sol y luna, rayos,
que es el pecho del aire.
Hay que soñar despacio:
nuestros sueños deciden
como si fueran pasos;
y detrás de ellos quedan
sus huellas, tan marcadas,
que el alma se estremece
al ver cómo ha llenado
la tierra de intenciones
que podrían ser tumbas
de nuestro gran intento.
Soñar casi en puntillas
porque la resonancia
de un sueño, o de un pie duro
en un suelo tan tierno
podría derribar
las fabulosas torres
de alguna Babilonia.

Hay que afinar los dedos:
hoy todo es de cristal
en cuanto lo cogemos.
Y una mano en la nuestra
quizá se vuelva polvo
antes de lo debido
si se la aprieta más
que a un recuerdo de carne.

Hay que parar las gotas
de la lluvia: al caer
en la tierra abrirían
hoyos como sepulcros;
porque el suelo es tan blando
que en él todo es entierro.

Parar, más todavía,
cuando estemos al borde
de algún lago de plata,
el afán de llorar
que su gran parecido
con un lago de plata
en nosotros provoca.
Sí, detener las lágrimas.
Si una lágrima cae
hoy con su peso inmenso
en un lago o en unos
ojos que nos querían
puede llegar tan hondo
que destruya los pájaros
del cielo más amado,
y, haciendo llover plumas,
llene toda la tierra
de fracasos de ala.

No hay que apartar la vista
de los juncos de azogue
donde el calor se mide.
Si el ardor sube mucho
en pechos o en termómetros,
puede arruinar la tierna
cosecha que prometen
tantas letras sembradas
en las cartas urgentes.

Vigilar, sobre todo,
a ella, a la aterradora
fuerza y beldad del mundo:
amor, amor, amor.
Esa que es grito y salto,
profesora de excesos,
modelo de arrebatos,
desatada bacante
que lleva el pelo suelto
para inquietar los aires,
esa
envidia de torrentes,
ejemplo de huracanes,
la favorita hija
de los dioses extremos
– amor, amor, amor –
que con su delirante
abrazo hace crujir
por detrás de la carne
que se deja estrechar
lo que más se resiste
en este cuerpo humano,
a ternura y a beso:
el destino final
del hombre: el esqueleto.
Amor, amor, amor.
¿Porque quién ha sabido
nunca, si hace o deshace?
¿Y si, cuando nos arde
es que nos alza a llama,
o nos quiere cenizas?
Por eso, el mundo, hoy débil,
le teme más que a nadie.
Y hay que dar el aviso
a todos los amantes
de que la vida está
al borde de romperse
si se siguen besando
como antes se besaban.
¡Que se apaguen las lumbres,
que se paren los labios,
que las voces no digan
ya más: “Te quiero”! ¡Que
un gran silencio reine,
una quietud redonda,
y se evite el desastre
que unos labios buscándose
traerían a esta suma
de aciertos que es la tierra!
Que apenas la mirada,
lo que hay más inocente
en el cuerpo del hombre,
se quede conservándole
al amor su futuro,
en esa leve estrella
que los ojos albergan
y que por ser tan pura
no puede romper nada.

Tan débil está el mundo
– cendales o cristales –
que hay que moverse en él
como en las ilusiones,
donde un amor se puede
morir si hacemos ruido.
Sólo
una trémula espera,
un respirar secreto,
una fe sin señales,
van a poder salvar
hoy,
la gran fragilidad
de este mundo.

Y la nuestra.

***

14

LA MEMORIA NELLE MANI

Oggi le mani sono la memoria.
L’anima non ricorda, è addolorata
da tanto ricordare. Ma nelle mani resta
il ricordo di quello che hanno stretto.

Ricordo di una pietra
che era lì accanto ad un ruscello
e che distratti abbiamo preso
senza renderci conto della nostra fortuna.
Il suo aspro peso però
ci fa sentire che infine cogliemmo
il frutto più incantevole dei tempi.
Sa di tempo
il peso di una pietra tra le mani.
In una pietra c’è
la pazienza del mondo, maturata pian piano.
La somma incalcolabile
di giorni e notti, sole e acqua
che costò questa forma grezza e dura
che non sa accarezzare e che accompagna
soltanto col suo peso, oscuramente.
È sempre stata quieta,
senza cercare, chiusa
in una volontà densa e costante
di non volare come la farfalla,
di non essere bella, come il giglio,
preservando da invidie la purezza.
Quanti gigli slanciati, quante gracili
libellule son morte, lì, al suo fianco
in tante corse per la primavera!
Lei seppe invece attendere senza chiedere nulla
oltre all’eternità del suo essere puro.
Avendo rinunciato al petalo ed al volo
è viva e mi dimostra che un amore
deve starsene forse quieto, starsene quieto,
mollare le ali false della fretta
e così debellare la sua morte.

Ricordano anche, le mie mani,
la testa amata che hanno avuto tra le loro palme.
Nulla è più misterioso in questo mondo.
Le dita riconoscono i capelli
lentamente, uno a uno, come foglie
del calendario: son ricordi
di altrettanti, ugualmente innumerevoli
giorni felici, docili
all’amore che li rivive.
Ma palpando la forma inesorabile
che al di là della carne ci resiste
le palme restano del tutto cieche.
Non son carezze, no, ciò che ripetono
passando e ripassando sopra l’osso:
son domande senza fine, infinite
angoscie divenute un toccarsi focoso.
E non hanno risposta: un sospetto
che tutto si dilegui e che ci sfugga
quando noi lo stringiamo tra le mani
ci sale dal calor di quella fronte.
La testa ci si affida. È l’assoluto affidarsi?
Lo insinua il peso sulle nostre mani,
le dita questo credono,
e vogliono convincersi: palpano, palpano.
Però una voce oscura oltre la fronte
– la nostra o la sua fronte? –
ci dice che il mistero più lontano,
essendo lì vicino, non si tocca
con la carne mortale, con cui lì
cerchiamo, sulla punta delle dita,
la presenza visibile.
Tenendo una testa in quel modo
non si sa nulla, nulla, se non
che il futuro sta decidendo
o per la nostra vita o per la nostra morte,
dietro le povere mani ingannate
dalla bellezza di ciò che sorreggono.
Tra delle mani cieche
che non posson sapere. La cui unica fede
sta nell’essere buone, in far carezze
senza stancarsi e vedere se ottengono,
quando la testa amata torni a vivere
di nuovo sulle proprie spalle,
ed appaia che nulla gli resti tra le palme
la gloria di non essere mai vuote.

*

14

LA MEMORIA EN LOS MANOS

Hoy son las manos la memoria.
El alma no se acuerda, está dolida
de tanto recordar. Pero en las manos
queda el recuerdo de lo que han tenido.

Recuerdo de una piedra
que hubo junto a un arroyo
y que cogimos distraídamente
sin darnos cuenta de nuestra ventura.
Pero su peso áspero,
sentir nos hace que por fin cogimos
el fruto más hermoso de los tiempos.
A tiempo sabe
el peso de una piedra entre las manos.
En una piedra está
la paciencia del mundo, madurada despacio.
Incalculable suma
de días y de noches, sol y agua
la que costó esta forma torpe y dura
que acariciar no sabe y acompaña
tan sólo con su peso, oscuramente.
Se estuvo siempre quieta,
sin buscar, encerrada,
en una voluntad densa y constante
de no volar como la mariposa,
de no ser bella, como el lirio,
para salvar de envidias su pureza.
¡Cuántos esbeltos lirios, cuántas gráciles
libélulas se han muerto, allí, a su lado
por correr tanto hacia la primavera!
Ella supo esperar sin pedir nada
más que la eternidad de su ser puro.
Por renunciar al pétalo, y al vuelo,
está viva y me enseña
que un amor debe estarse quizá quieto, muy quieto,
soltar las falsas alas de la prisa,
y derrotar así su propia muerte.

También recuerdan ellas, mis manos,
haber tenido una cabeza amada entre sus palmas.
Nada más misterioso en este mundo.
Los dedos reconocen los cabellos
lentamente, uno a uno, como hojas
de calendario: son recuerdos
de otros tantos, también innumerables
días felices,
dóciles al amor que los revive.
Pero al palpar la forma inexorable
que detrás de la carne nos resiste
las palmas ya se quedan ciegas.
No son caricias, no, lo que repiten
pasando y repasando sobre el hueso:
son preguntas sin fin, son infinitas
angustias hechas tactos ardorosos.
Y nada les contesta: una sospecha
de que todo se escapa y se nos huye
cuando entre nuestras manos lo oprimimos
nos sube del calor de aquella frente.
La cabeza se entrega. ¿Es la entrega absoluta?
El peso en nuestras manos lo insinúa,
los dedos se lo creen,
y quieren convencerse: palpan, palpan.
Pero una voz oscura tras la frente,
– ¿nuestra frente o la suya? –
nos dice que el misterio más lejano,
porque está allí tan cerca, no se toca
con la carne mortal con que buscamos
allí, en la punta de los dedos,
la presencia invisible.
Teniendo una cabeza así cogida
nada se sabe, nada,
sino que está el futuro decidiendo
o nuestra vida o nuestra muerte,
tras esas pobres manos engañadas
por la hermosura de lo que sostienen.
Entre unas manos ciegas
que no pueden saber. Cuya fe única
está en ser buenas, en hacer caricias
sin casarse, por ver si así se ganan
cuando ya la cabeza amada vuelva
a vivir otra vez sobre sus hombros,
y parezca que nada les queda entre las palmas,
el triunfo de no estar nunca vacías.

***

19

IL CORPO, FAVOLOSO

Che sarebbe di me se tu non fossi
invisibilità, tutta impossibile?

Guardo tranquillo tanti manichini
– mitologia in vetrina, ai cui piedi
le anime senza amante quando passano
pregano per un attimo,
mietendo i loro sogni nella notte –,
perché tu vai vestita
con gli zendadi del mai visto,
colore del ricordo che ti cerca.

Non mi inquieta la luna, tenue, nubile
quando inizia di nuovo il suo crescente
doppiamente affilato
di gioventù e biancore – così acuto
che taglierà la testa alle speranze
più pure delle neve,
confrontando il suo bianco al loro bianco –,
perché in te, tralucente
così invisibile, non c’è riflesso,
ma luce senza pari, che respinge
ogni confronto con quello che esiste.

Vedo tranquillamente come avanzano
in quei torbidi cieli del giornale
gli stormi quotidiani delle cifre,
le quotazioni della borsa, dee,
padrone dei destini, che determinano
che il prezzo della gioia
– che sta sempre nel prezzo del carbone,
del whisky, il canarino o le risate
di cui le case dei giovani han bisogno –
sia più accessibile che in altri anni,
o che certe pistole che alle sei
avevano cinque pallottole,
alle sei e un secondo ne abbian quattro,
in mano a un uomo, steso a terra.
Non ho bisogno d’oro, perché tu,
così invisibile, non puoi
esser comprata con altra moneta
se non i lenti e perfetti minuti
di lunghe notti senza mai dormire
perché pervasi da quella pena inutile
che sceso il sole si accendano tante
luci e colori, per il mondo
– premonitori di film e di balli,
fari dell’allegria –, tante tante,
non i tuoi occhi, qui davanti a me.

Sento chiamare dolci creature,
con quei nomi o ali su nell’aria:
Mirtila, Soledad, Amparo, Cándida
– che nulla hanno di loro e sono loro
perché riempiti goccia dopo goccia,
giorno per giorno con le loro vite,
chiari suoni a cuinoi avidamente
ci afferriamo per non confonderle
con la loro sorella, l’ ombra, o con il nulla –,
senza voltarmi mai, qualora fossi tu.

Così invisibile, solo ti nominano
le labbra della pioggia sulle orecchie
eternamente sorde dei laghi
i campi dove brucano gazzelle,
i tentativi dei violini
o qualche bocca sola che nel sogno
ricorda una parola, tra macerie
di una lingua franata con la Torre.

Senza il pur minimo dolore ormai
so quali fughe su per i camini,
mentre prendiamo il te o conversiamo
di arte nera, di Einstein o l’Ulisse,
fanno come scintille le promesse
– quelle, le più tenaci –
verso il loro mutare in puri astri,
dopo esser state un giorno insieme a noi,
dicendo: «Sempre, sempre».
E poi, dall’alto,
cinque o dieci anni dopo
essere giunte ci faranno i loro
segni di luce nella notte,
per farci credere
che lassù in cielo, sì, saranno nostre.
Tu, cioè, l’impossibile
non puoi fuggire,
perché sei fatta della stessa fuga.

E ti bacio, ti bacio,
paradisiaca,
ti scopro tutta lentamente
come scopriva il primo uomo un altro
Eden minore, un’altra ombra,
senza paura che tu muoia o esca
dall’eterno giardino e ti si veda,
in giro per le strade della terra,
nelle vesti di donna, al nostro fianco.
Perché il tuo corpo eccelso, teso e nudo,
mai ti farà visibile. Soltanto,
nelle notti innevate,
può nasconderti meglio e per un tempo
che a volte si confonde con la vita,
veloce come passa, farsi carne,
e inventare una favola:
che uno crede che esiste, che lo stringe,
che è capace d’amore. E che lo ama.

*

19

EL CUERPO, FABULOSO

¿Qué sería de mi si tú no fueses
invisibilidad, toda imposible?

Miro tranquilo a tantos maniquíes
– mitología en los escaparates
a cuyos pies las almas sin amante
rezan por un momento cuando pasan
y cosechan sus sueños de la noche –,
porque tú vas vestida
con los cendales de lo nunca visto,
del color del recuerdo que te busca.

No me inquieta la luna, núbil, tierna
cuando otra vez inicia su creciente
doblemente afilado
de juventud y blancura – tan agudo
que decapitará a las esperanzas
más puras de la nieve,
comparando su blanco con su blanco –,
porque en ti, traslumbrada,
como no se te ve, nunca hay reflejo,
sino la luz sin par, la que rechaza
toda comparación con lo que existe.

Veo tranquilamente cómo avanzan
por esos turbios cielos del periódico
las bandadas diarias de las cifras,
cotizaciones de la bolsa, diosas,
dueñas de los destinos, decidiendo
que el precio de la dicha
– que está siempre en el coste del carbón,
del whisky, del canario, o de las risas
que necesitan los hogares jóvenes –
sea más accesible que otros años,
o que algunas pistolas que tenían
a las seis, cinco balas,
a las seis y un segundo tengan cuatro,
en la mano de un hombre, por el suelo.
No necesito el oro, porque a ti,
como no se te ve, no se te puede
comprar con más moneda
que los minutos lentos y redondos
de largas noches en que no se duerme
porque nos invadió la pena inútil
de que al ponerse el sol se enciendan tantas
luces y sus colores, por el mundo
– agüeros de películas y bailes,
faros de la alegría –, tantas tantas,
menos tus ojos, frente a mí.

Oigo llamar a dulces criaturas,
con esos nombres o alas por el aire:
Mirtila, Soledad, Amparo, Cándida
– en los que nada hay de ellas y son ellas,
porque los llenan gota a gota, día
a día con sus vidas, claros sones
a los que ávidamente nos asimos
para no confundirlas
con su hermana, su sombra o con la nada –,
sin volverme jamás, por si eres tú.
Como no se te ve, sólo te nombran
los labios de la lluvia en los oídos
eternamente sordos de los lagos,
las ruedas de los trenes cuando cruzan
los campos donde pastan las gacelas,
las tentativas de los violines
o alguna boca sola que en el sueño
recuerda una palabra, entre las ruinas,
de algún idioma hundido con la Torre.
Sin el menor dolor sé ya las fugas
que por los tubos de las chimeneas
mientras se toma té y se habla
de arte negro, de Einstein o del Ulises,
emprenden como chispas las promesas
– aquellas, las más firmes –
hacia su conversión en puros astros,
después de estar un día con nosotros
diciendo: «Siempre, siempre».
Y luego, desde arriba,
a los cinco o diez años
de haber llegado nos harán sus señas
de luces por las noches,
para que nos creamos
que allí en el cielo sí pueden ser nuestras.
Tú, es decir, lo imposible,
no puedes escaparte,
porque estás hecha de la misma huida.

Y te beso, te beso,
a ti, paradisíaca,
descubriéndote toda lentamente
como el hombre primero descubría
otro menor Edén con otra sombra,
sin temor a que mueras, o a que salgas
del eterno jardín y se te vea,
andando por las calles de la tierra,
vestida de mujer a nuestro lado.
Porque tu cuerpo impar, tenso y desnudo,
nunca te hará visible. Sólo puede
en las noches nevadas
ocultarte mejor, y por un tiempo
que a veces se confunde con la vida,
por lo veloz que pasa, hacerse carne,
e inventar una fábula:
que alguien crea que existe, que le estrecha,
y que es capaz de amor. Y que le ama.

***

22

ETERNA PRESENZA

Non importa che non ti abbia,
non importa che non ti veda.
Prima ti abbracciavo,
prima ti guardavo,
ti cercavo tutta,
ti volevo intera.
Oggi più non chiedo
agli occhi e alle mani
le ultime prove.
Di stare al mio fianco
ti chiedevo prima;
sì, accanto a me, sì,
sì, però lì fuori.
A me già bastava
sentir le tue mani
darmi le tue mani,
sentire che ai miei occhi
tu davi presenza.
Ma adesso ti chiedo
di più, ben di più
di un bacio o uno sguardo:
di starmi più addosso
di me stesso, dentro.
Come il vento sta
donando, invisibile,
la vita alla vela.
Come sta la luce,
ferma, fissa, immobile,
facendo da centro
che non mai vacilla
al tremulo corpo
della fiamma inquieta.
Come sta la stella,
presente e sicura,
senza voce o tatto,
sul petto disteso,
sereno, del lago.
Quello che ti chiedo
è di essere l’anima
dell’anima mia,
sangue del mio sangue
dentro le mie vene.
È che tu stia dentro
di me come il cuore
mio, che io mai
vedrò, toccherò,
ma il cui palpitare
non sarà mai stanco
di darmi la vita
finché morirò.
E come lo scheletro,
segreto profondo
di me, che soltanto
mi vedrà la terra,
intanto però,
è lui che nel mondo
sostiene il mio peso
di carne e di sogno,
di gioia e di pena
misteriosamente
senza che degli occhi
lo vedano mai.
Quel che ti chiedo
è che la corporea
passeggera assenza
per noi non sia fuga,
mancanza, oblio:
ma che per me sia
possesso totale
dell’anima lontana
eterna presenza.

*

22

ETERNA PRESENCIA

No importa que no te tenga,
no importa que no te vea.
Antes te abrazaba,
antes te miraba,
te buscaba toda,
te quería entera.
Hoy ya no les pido,
ni a manos ni a ojos,
las últimas pruebas.
Estar a mi lado
te pedía antes;
sí, junto a mí, sí,
sí, pero allí fuera.
Y me contentaba
sentir que tus manos
me daban tus manos,
sentir que a mis ojos
les dabas presencia.
Lo que ahora te pido
es más, mucho más,
que beso o mirada:
es que estés más cerca
de mí mismo, dentro.
Como el viento está
invisible, dando
su vida a la vela.
Como está la luz
quieta, fija, inmóvil,
sirviendo de centro
que nunca vacila
al trémulo cuerpo
de llama que tiembla.
Como está la estrella,
presente y segura,
sin voz y sin tacto,
en el pecho abierto,
sereno, del lago.
Lo que yo te pido
es sólo que seas
alma de mi ánima,
sangre de mi sangre
dentro de las venas.
Es que estés en mí
como el corazón
mío que jamás
veré, tocaré,
y cuyos latidos
no se cansan nunca
de darme mi vida
hasta que me muera.
Como el esqueleto,
el secreto hondo
de mi ser, que sólo
me verá la tierra,
pero que en el mundo
es el que se encarga
de llevar mi peso
de carne y de sueño,
de gozo y de pena
misteriosamente
sin que haya unos ojos
que jamás le vean.
Lo que yo te pido
es que la corpórea
pasajera ausencia
no nos sea olvido,
ni fuga, ni falta:
sino que me sea
posesión total
del alma lejana,
eterna presencia.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).