L’evidenza della cosa terribile (prima di molte parti)

da | Lug 27, 2013 | Senza categoria

È nell’ultimo incontro con Gilberte, alla festa dei Guermantes, che il Narratore avverte su se stesso l’azione del tempo, dell’invecchiamento, della distruzione e della perdita irrimediabile. I suoi baffi sono neri, i suoi capelli ancora non bianchi, ma non è più un bambino. Anzi, si definisce a Gilberte «un anziano signore», ma solo per schermirsi, poiché qualcuno aveva riso quando Marcel aveva precisato con ironia, invitando a pranzo l’amica:«se non vi sembra compromettente pranzare da sola conun giovanotto». Da cosa scaturiva quel riso? «Avrei voluto poterglielo chiedere, da cosa emergeva l’evidenza della cosa terribile». La cosa terribile è la vecchiaia, la prossimità alla fine, la perdita del passato e dell’io, l’essere trascorsi, il non poter essere più ciò che si era, il disincanto, la perdita della forma e della sostanza di ogni cosa. L’evidenza della cosa terribile è il cuore antimetafisico, antiplatonico, profondamente tragico di tutta la “Recherche”, un’opera che mai si smetterà di infiocchettare o addomesticare. Proust non è né il cantore dell’amore, né dell’aristocrazia, né tantomeno dell’arte redentrice, se non presi come illusioni in sensoleopardiano, dove tutto è nulla e dunque «non vi è altro direale né altro di sostanza al mondo che le illusioni». Proust certifica che la sostanza è fatta di illusioni, finzioni, pellicole protettive tra sé e la realtà. La terra, l’infanzia, l’amore, e così ogni idea di felicità, sono consumate nella brutalità selvaggia, chimica e materiale delle cose, e la “Recherche”, all’interno del suo movimento narrativo, testimonia la violenza di questo buco nero terribile dove finiscono le cose e gli esseri umani. La mente e il corpo sono una cosa sola, sono la chimica di un’evoluzione descritta darwinianamente, nella sua cieca biologia, dove l’imperfezione è proprio il pensiero umano, reso labile, precario e equivoco dal corpo da cui dipende, «e avere un corpo è la peggiore minaccia per la mente», quantomeno per gli esseri umani, o forse è più giusto affermare il contrario, è la mente la peggiore minaccia per il corpo. «La vita umana e pensante» scrive infatti Proust, «di cui bisogna dire non tanto che è un miracoloso perfezionamento della vita animale e fisica, quanto che è un’imperfezione – non meno rudimentale, ancora, dell’esistenza comune dei protozoi in polipai, del corpo della balena ecc – nell’organizzazione della vita spirituale. Il corpo tiene chiuso lo spirito in una fortezza; presto la fortezza è assediata da ogni parte, e alla finebisogna che lo spirito si arrenda». Non si applichi a Proust alcun platonismo alto/basso, prigione/libertà, anima/corpo, non gli si appiccichi alcunaretorica dello spirito, poiché lo spirito è inteso come la“mente” (così come il “cuore” non è altro che il sentimento di un’illusione mentale), la quale, sotto l’assedio del corpo, biologicamente viene di giorno in giorno devastata e alla fine si arrende. La mente è il corpo e viceversa, e «il pericolo interno, per esempio un’emorragia cerebrale, è anche esterno, essendo del corpo». È difficile immaginare come possa uno scrittore circoscrivere al contempo l’illusione di un mondo e la finedi ogni mondo, il decadimento di cose futili come la “nobiltà” e il decadimento di ogni cosa, l’illusione e la fine di ogni illusione, l’ammirazione della bellezza a fronte di un’altra consapevolezza più profonda che annienta ogni bellezza. Dietro il viso di donna affascinante, tra le note di una sonata che evoca sentimenti d’amore, si apre una visione più cosmica, un dramma più universale, fatto di cellule e di replicazione cieca degli esseri, che dura da miliardi di anni e rende la storia umana qualcosa di piccolo, tragico e risibile. Proust lo ha fatto, realizzando non soltanto il più grande romanzo di tutti i tempi, ma una perfetta macchina narrativa, distruttiva, filosofica e scientifica sulla condanna dell’essere umano. Non solo nella “Recherche” non vi è alcuna volta stellata da contemplare, nessuna idea di felicità possibile, ma sotto la “Recherche” non sono installate reti di protezione consolatorie, neppure dove a molti odierni neoplatonici a oltranza è sembrato di vederle, riflettendosi, senza riflettere, in ogni specchietto per le allodole disposto da Proust all’interno della sua opera. Perché il congegno proustiano è implacabile nel fare splodere la tragedia umana nella sua finitezza animale, in una progressiva e feroce presa di coscienza, e ogn isvolazzo edificante lascia il tempo che trova, non certo quello perduto di Proust, che è un tempo estremo, definitivo, terminale. L’ultima festa dei Guermantes, dove l’evidenza della cosa terribile rimbalza di volto in volto fino a specchiarsi nello stesso Narratore, è il più devastante svelamento del nulla mai concepito, e fa della “Recherche” uno dei libri più violenti e realistici mai scritti. Una gigantesca trappola per dire cosa è l’uomo, cosa è il pensiero, cosa è la morte. Un’opera spietata da non fraintendere, separando l’illusione dalla disillusione per continuare a illudersi, e da non fraintendere neppure esistenzialmente nel senso di visione esistenzialistica, ideologia dell’esistenza, ricamino filosofico sull’essere che alla fine lascia sempre qualche appiglio trascendente, qualche bugia di salvezza, qualche ciliegina con cui compensare la mancanza della torta metafisica. La verità di Proust non è e non può essere lontana dalla verità della scienza, della biologia molecolare, dall’acido desossiribonucleico, dalle cellule eucariotiche, dalla carne che palpita per un’emozione e poi marcisce, dalla materia terribile di cui siamo impastati. Nella “Recherche”, come nella vita, perdete ogni speranza voi che entrate e anche voi che uscite, voi che siete nati e voiche state per morire, niente e nessuno vi salverà. Non sose Proust, come Samuel Beckett, avesse letto Leopardi, le cui concomitanze filosofiche meriterebbero uno studio approfondito di letterature e pensieri comparati. Ma di certo nella “Recherche”, nella sua “evidenza della cosa terribile”, c’è l’ombra lunga di Charles Darwin che si propaga in ogni pagina, sotto ogni volto, dietro ogni pupilla. C’è lo schianto delle pietrificanti, dure leggi fisiche che intaccano gli organismi viventi, la pressione progressiva della forza di gravità, l’aggressione dell’inanimato da cui discendiamo su qualsiasi leggerezza, la trasformazione di ogni cosa nell’immagine penosa della sua corruzione, la lotta per la sopravvivenza, la morte di tutto ciò che nasce. L’Homo Sapiens, sotto la lente del Narratore, giunto al suo ultimo stadio di coscienza intellettuale, il massimo di fascinazione e il massimo di disillusione, è costretto a piegarsi sotto il peso delle terribili leggi della natura. L’uomo, non la sua versione edulcorata, recente, edificante e consolatoria, ridicolo nelle sue ostinate visioni salvifiche e cieco al cospetto dell’immane trappola molecolare dell’universo. L’uomo proustiano, piuttosto, è quello che ha per antenato un ominide di milioni di anni fa, a sua volta discendente da un procariote formatosi oltre tre miliardi e mezzo di anni fa, l’uomo proustiano ha ancora dentro di sé le infinite stratificazioni degli organismi che è stato, che ha inglobato, ai quali èsopravvissuto, dal batterio agli organismi multicellularifino ai Guermantes, ultima commedia umana, ultimafarsa, pseudoideale genealogico di perfezione, specchiettoper allodole di un’umanità troppo snob, in malafede o difede per rendersi conto del colpo mortale che sta per infliggergli Proust. Il cuore, con le sue “intermittenze”, torna, nel tempo ritrovato, nell’evidenza della cosa terribile, a battere i rintocchi funebri di un muscolo malato: una volta caduti iparamenti mondani, la seduzione del bel mondo, leillusioni della vita e dell’adolescenza, i capelli si fannosimili a parrucche di animali sociali troppo goffi e posticciper essere ancora meravigliosi, la vita sociale una mascherata raccapricciante, di scimmie nude, vestite a festa per una definitiva, macabra fiera delle vanità. Mentre le anime belle cadono nella trappola disposta da Proust nei discorsi di Madame Verdurin, o nella finta armonia della sonata di Vinteuil, Proust cita Charles Darwin più volte, implicitamente e esplicitamente, innestando il pensiero evoluzionista perfino nella germinazione sintattica dell’opera. Mentre ancora oggi, al principio del XXI secolo, si assiste alla farsa di una revanche religiosa di retroguardia, superstiziosa, restauratrice, antipositivista e antievoluzionistica, Proust affonda le sue radici esistenziali non solo, senza laminima esitazione, in Darwin, ma perfino anticipando leconferme che l’evoluzionismo ha trovato nella genetica e nella biologia molecolare. Come spesso accade alla letteratura quando è tale, che non va mai a carretta della scienza ma anzi la anticipa per intuizione e la precede nel fare i conti con l’intelligenza umana nella sua più estrema lucidità, senza elargire sconti di pena. Il “telescopio” di Proust, che spesso è un microscopio capace di mettere in relazione oggetti tra loro distanti, compara continuamente esseri e forme, sentimenti e comportamenti animali, dall’uomo si passa all’animale e al vegetale in una mutazione continua, come se lo scrittore penetrasse, attraverso l’osservazione degli individui, il drammatico incastro di miliardi di anni di evoluzione. Ben sapendo che «tutti gli organismi fecondi in natura si sviluppano secondo modalità egoistiche», affermazione che trova conferma anche nei recenti studi della genetica evolutiva e condividerebbe a pieno Richard Dawkins, e estesa da Proust anche all’uomo, siccome «l’organismo umano che non sia egoistico è sterile».

[continua…]

Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.

Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).