L’evidenza della cosa terribile (seconda di molte parti)

da | Ago 2, 2013 | Senza categoria

La “Recherche” è la prima opera d’arte darwinista, sia linguisticamente, nel proliferare delle analogie e delle germinazioni semantiche che mutano e si contaminano l’una con l’altra, sia nel profondo della sua consapevolezza scientifica. L’individuo stesso si modifica, si autodivora, che lo voglia o no, e non si accorge delle innumerevoli morti che vive in vita. Nessuno può essere davvero se stesso, neppure una volta sola. Non solo non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, ma neppure una, perché la prima volta sarà solo il suo riaffiorare nel tempo, il riaffiorare del già stato, la vera prima volta sarà il ricordarla quando l’avremo perduta, dove colui che la ricorderà per ricordare se stesso sarà una mutazione del primo, sarà un altro.

L’essere umano, prima di animalizzarsi e vegetalizzarsi in una miriade di metafore (uomo/pesce, uomo/fiore, uomo/insetto) è nella sua essenza qualcosa di terrificante, uno gnommero gaddiano, un coacervo indistricabile e caotico di organi e identità cannibaliche che richiama, oggi, il tragico adattamento dei fenotipi imposto dalla selezione naturale, la lotta per la sopravvivenza degli organismi multicellulari e, al massimo, nell’essere umano dotato della giusta sensibilità, la «pietà per il dolore». Ogni essere è «un polipaio il cui occhio, organismo indipendente sebbene associato, se avverte della polvere sbatte senza bisogno del comando dell’intelligenza, e il cui intestino, parassita nascosto, addirittura si infetta senza che l’intelligenza lo venga a sapere, e parallelamente per l’anima, ma anche nella durata della vita, come un succedersi di io, giustapposti ma distinti, destinati a morire uno dopo l’altro o magari a alternarsi tra loro, come quelli che a Combray si sostituivano per me uno dopo l’altro quando veniva la sera». Nel raccontare di Morel, che prima di innamorarsi di una donna si prostituiva per cinquanta franchi, mentre in seguito, quasi per istinto di sopravvivenza e adattamento, diventa indifferente al denaro, e nel mettere in campo una delle tante analogie uomo/fiore, con relativo ragionamento di innesto psicologico e biologico, Proust cita a chiare lettere il nome di Darwin: «Così il gioco delle diverse leggi psicologiche si ingegna a compensare, nella fioritura della specie umana, tutto ciò che in un senso o nell’altro provocherebbe, con la pletora o con la rarefazione, il suo annientamento. Lo stesso avviene nei fiori, dove una stessa saggezza, messa in evidenza da Darwin, regola i modi di fecondazione opponendoli via via gli uni agli altri».

Nessuno scrittore è riuscito prima di Proust e come Proust a costruire un’opera d’arte imponente sul mondo al solo scopo di svelarcene la brutalità sottostante, l’evidenza della cosa terribile, nascosta dietro le pagine e dietro la nostra stessa pelle di lettori. Contro il mondo, contro la vita, e perfino contro l’opera d’arte. Per farlo doveva aver amato la vita come nessun altro, certo, ma doveva essere disposto, per essere il più grande scrittore assoluto, a farlo senza filtri, senza parocchi, capace di scendere fino in fondo se stesso come cavia dell’intera umanità, e essere disposto a guardare il baratro senza distogliere lo sguardo, e raccontarcelo, dandogli una forma unica. Per farlo, si sa, si rinchiuse nella sua stanza per oltre dieci anni, rivestendola di sughero per poter dormire di giorno e scrivere di notte, rinunciando alla vita e sfidando la morte per scrivere il più grande romanzo di tutti i tempi. Doveva creare un’opera d’arte come nessun altro, dentro la quale rinchiudere la vita per svelarla una volta per tutte, attaccarla alla radice della sua illusione. Gli occorreva tuttavia una magnifica finzione scenica, una spettacolare macchina linguistica, per dire il nulla delle cose, e questa macchina si chiamava opera d’arte, o meglio ancora l’opera d’arte per eccellenza: il romanzo. Un romanzo che non sarebbe stato un romanzo qualsiasi ma una sentenza senza appello sulla vita e sul suo significato, una condanna d’amore e d’odio e infine rassegnazione per la sua assenza di significato.

Per dire il nulla Proust doveva dire il tutto, farlo implodere nella sua stessa materia. Gli occorreva un ordine da cui partire per arrivare al caos, al tempo ritrovato e perso per sempre, alla perdita assoluta, alla ferita incurabile, irredimibile. È come se Michelangelo avesse concepito la Cappella Sistina facendocela crollare addosso mentre la stiamo contemplando, rivelandocene, di ora in ora, la finzione, le macchie d’umidità, le strutture di muratura, l’intelaiatura, la pesantezza insensata della struttura che sostiene il ridicolo dell’illusione, e mostrandoci le nostre stesse vertebre, il nostro stesso cranio reclinato e stolto nell’atto di contemplare il nulla. È per questo che spesso, rispetto al buco nero aperto da Proust dentro il magma raffinato del suo romanzo, della “Recherche” si cerca comunemente di ridurre il significato, di addolcirla, di rendere la madeleine un romantico souvenir di lettura, di disperderla in un giochino sdolcinato di profumi e melodie. La madeleine è una rivelazione feroce, inumana, insopportabile, inimmaginabile, sconvolgente, intollerabile. Vedere la madeleine come qualcosa di positivo e piacevole su cui ricamare una qualsiasi joie de vivre, è come rallegrarsi della signora Winnie di “Giorni Felici” di Samuel Beckett che ci racconta la sua giornata prendendo il tè, ascoltando solo le sue parole “felici” e senza accorgersi che la signora è interrata fino alla vita nel primo atto e fino al collo nel secondo.

Proust è lo scrittore il cui sguardo abbraccia la fine del mondo, non in senso apocalittico, che è ancora un senso banalmente religioso, ma nel significato più radicale della morte e dell’inganno del vivere. La società, con le sue gerarchie, appare come un bestiario postumo senza più alcuna funzione pittoresca, è un zoo antropologico su quanto resta da dire della pochezza umana e dell’esistenza nella sua totalità, una farsa che si misura in ere geologiche, non in migliaia di anni prima o dopo Cristo. Nemmeno l’amore, uno dei temi proustiani per eccellenza, uno dei più citati e dei più fraintesi, nemmeno l’amore esiste davvero, è un’altra illusione e si regge sulla menzogna, sull’ossessione del possesso, sull’idea dell’impossedibile. La gelosia, infatti, asse portante emotivo e sessuale dell’opera, incarna il sentimento dell’impossibile: si può desiderare solo ciò che non si possiede, e di conseguenza tutta la tensione erotica dell’amante esiste nell’ossessione psicotica del tradimento, la quale è essa stessa desiderio erotico e protezione dall’annichilimento dell’abitudine. Ne consegue sempre che si può amare solo nell’artificio, e solo ciò che ci viene privato. Perché la realtà delude sempre l’immaginazione e qualsiasi idea di bellezza, e questo a causa, come spesso in Proust, di una legge naturale, “inderogabile”. «La realtà mi aveva deluso perché nel momento in cui la percepivo la mia immaginazione, che era il solo organo di cui disponessi per godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa, in virtù della legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente». Il realismo di Proust va di pari passo con la sua scoperta di queste leggi inderogabili, la cui scrittura è una delle ragioni della “Recherche”. Lo precisa lui stesso, dall’interno della sua stessa opera, dove la parola “verità” riporta alla scoperta di “grandi leggi”, il telescopio serve a distanziare le cose per meglio coglierne l’essenza su scala microscopica e cosmica: «Anche chi fu favorevole alla mia percezione delle verità che intendevo poi incidere nel tempio si rallegrò che le avessi scoperte al “microscopio”, quando era invece di un telescopio che m’ero servito per scorgere cose piccolissime, è vero, ma per il fatto di essere situate a grande distanza, e ciascuna delle quali era un mondo. Mi si chiamava collezionista di particolari, mentre erano le grandi leggi che cercavo». L’intera concezione della “Recherche” si fonda su questa missione, che prende come bersaglio soprattutto l’uomo, ma solo per non risparmiarlo e riportarlo alla propria misera, infima verità di organismo vivente, e condannare con l’uomo, e con la sua umana necessità di costruire illusioni contronatura, tutta la natura. Pur nell’incombere della morte, che Proust già avvertiva sotto i suoi passi incerti come quelli di molti personaggi alla fine della “Recherche”, Proust non si tira indietro di fronte a questo immane compito. «Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo sufficiente a compiere la mia opera» scrive Proust non a caso proprio ne “Il Tempo ritrovato”, «non avrei dunque mancato di descrivervi anzitutto gli uomini, a costo di farli sembrare mostruosi».

La felicità esiste solo per preparare l’infelicità futura, il piacere provato è direttamente proporzionale al dolore che la sua perdita sarà in grado di restituire. La felicità consiste nell’essere postuma a se stessa, non c’è mentre la viviamo, sentendola incompleta, e non ci sarà dopo, credendo di averla già vissuta. Se l’avessimo saputo prima saremmo stati più felici, e nello stesso tempo se l’avessimo saputo prima non saremmo stati così felici, avremmo potuto solo accontentarci. È come l’infanzia, la si rimpiange dopo, quando è lontana, quando il tempo ha cancellato lo stato d’animo reale e inghiottito ogni io pregresso, mentre vivendola non ci rendiamo conto di ciò che perderemo, perché «la felicità ci arride quando ormai ci lascia indifferenti. Ma proprio questa indifferenza, rendendoci meno esigenti, ci consente di credere, retrospettivamente, che per quella felicità ci saremmo estasiati in un periodo in cui, forse, ne avremmo notato la grave incompletezza».

[continua…]

La prima parte è qui.

Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.

Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).