Leonardo Colombati a colloquio con Bernardo Bertolucci

da | Mar 16, 2020 | Non Fiction

Vado a trovare Bernardo Bertolucci nella sua casa di Trastevere. Qualche tempo fa, sono andato a vedere la mostra di fotografie di Lorenzo Castore intitolata Ultimo domicilio e sono rimasto folgorato davanti ad alcune foto scattate a Casarola, il «paese favoloso» dei Bertolucci: Attilio e Ninetta, e i loro figli Bernardo e Giuseppe. Quando avevo detto all’unico italiano ad aver vinto un Oscar come miglior regista che avrei voluto fare una chiacchierata con lui su Casarola, sul suo rapporto col padre e sulle suggestioni che erano scaturite da certi brevi accenni a proposito di un suo breve – e perduto – film giovanile, La teleferica, che avevo trovato qua e là in certe sue interviste e dichiarazioni, la sua reazione mi era sembrata di gentile ma sfiduciata condiscendenza.

 

«Come ci regoliamo?» mi chiede, nell’accogliermi nel salotto.

Direi – gli rispondo – che potremmo parlare un po’ a ruota libera; poi ci penso io a riordinare il tutto e a renderlo sexy. Oddio! Ma l’ho detto davvero? Lui, comunque, ride.

«Sexy? Okay» dice. «Proviamo.»

Le foto di Casarola e la lettura delle poesie di tuo padre – quelle che parlano di te – mi hanno fatto immaginare una sezione di «Nuovi Argomenti» che potremmo intitolare Il paese favoloso. La storia di Attilio Bertolucci, tra l’altro, è intimamente legata alla storia della rivista, di cui è stato direttore per tanti anni.
«Anche per me, “Nuovi Argomenti” è legata a tanti ricordi.»

Del suo fondatore, Moravia, volevi girare un film, vero?
«Sì. Il romanzo era 1934

Ho saputo che avevi chiesto a Ian McEwan di scrivere la sceneggiatura.
«Abbiamo provato insieme. L’ho invitato, è venuto un mese con me in questa casa che avevo a Sabaudia, d’inverno; credo che fosse novembre o dicembre, perché pioveva quasi ogni giorno. Facevamo delle lunghe camminate sulla spiaggia come certi intellettuali dei film della Nouvelle Vague. Io volevo trasformare 1934 in una commedia, non chiedermi perché. Per fortuna, allo stesso tempo stavo leggendo l’autobiografia di Pu Yi, l’ultimo imperatore…»

È vero che è stata Elsa Morante a darti i primi testi di filosofia orientale?
«Lei parlava sempre di Milarepa – uno dei maestri del buddhismo tibetano – e me lo fece leggere. Io ne rimasi molto molto colpito. E poi c’era una storia che piaceva molto a Elsa e che proprio lei mi aveva raccontato sulla non esistenza del tempo. È una storia che faccio raccontare ad Adriana Asti in Prima della rivoluzione. Tanti anni dopo, intorno al 2000, feci un film di dieci minuti che si chiama Histoire d’Eaux, che sono dieci minuti di apologo in cui questo vecchio saggio cammina con un giovane discepolo. È molto caldo, lui si stanca e si siede all’ombra di un albero e dice: “Vammi a cercare un bicchiere d’acqua”. E il discepolo parte per la campagna, arriva a una fontana, e lì però c’è una ragazza con un grosso vaso che sta prendendo l’acqua. È molto bella, i due si guardano, si piacciono, lui le fa la corte, lei gli dice: “Accompagnami qui vicino, al villaggio”. Lui le porta l’acqua fino al villaggio e lì lei gli offre qualcosa da bere. Insomma, lui rimane affascinato e alla fine si sposa con la ragazza. Tutto va bene, ci sono tanti bambini, ma un giorno arriva un terribile uragano che si porta via tutto, travolge il villaggio, lui vede affogare tutti i suoi bambini e anche la moglie. Lui si salva, torna la quiete, il silenzio. Comincia a camminare disperato per la campagna, arriva a quell’albero e c’è il vecchio saggio seduto lì che gli dice: “Quanto tempo per portarmi un bicchiere d’acqua; è tutta la mattina che ti aspetto!”. Ecco, questa storia di Elsa veniva dalla lettura di uno di quei libri. Io ero ancora lontano da quello che poi mi avrebbe portato a fare Il Piccolo Buddha, però mi aveva affascinato, tanto che misi Adriana che la raccontava. Elsa era molto contenta, venne alla prima del film a Parma, mi ricordo, e lo presentò. Eravamo molto amici. Andavo spesso a cena al ristorante in quegli anni, inizialmente solo con Pier Paolo, poi sempre con Pier Paolo, Alberto ed Elsa, e poi Pier Paolo, Adriana, io, Alberto e Dacia, oppure Pier Paolo ed Elsa senza Alberto, perché già si erano separati. Quella gente… io li chiamavo la mia università (visto che poi, io, l’università non l’ho mai fatta…). Ho imparato tante cose da loro.»

La prima volta che t’incontriamo nei versi di tuo padre hai nove anni e stai lanciando degli aeroplanini di carta.
«La storia di quegli aeroplanini è vera. Casarola è nel seno di una valle che naturalmente ha un’altra valle di fianco, ma per arrivarci bisogna salire su una cresta. È da lì che lanciavo gli aeroplanini; io avrei voluto che volassero per sempre, ma spesso venivano presi come da delle piccole turbolenze e portati chissà dove, e si perdevano. Finché un giorno mio padre, tornando da un viaggio a Milano, portò invece un aeroplanino comprato in un rinomato negozio di giocattoli che si chiamava Noè: era di un legno leggerissimo e aveva la forma di quello che a noi bambini sembrava un vero caccia da guerra. Lo inseguivamo correndo per i prati perché ce n’era uno solo e allora bisognava ritrovarlo.»

«Le estati allora erano infinite» hai scritto prefando un curioso libro di Paolo Lagazzi sulla vostra casa di Casarola.
«Il primo verso che ho mai scritto era “Casarola, il paese che tutti credon fola”. Arrivarci era per noi, da bambini, un’impresa che sapeva di leggendario. Non c’era la strada, innanzitutto. C’erano solo le mulattiere. Si arrivava in un paese non lontano, che era sempre nella stessa valle ma dalla parte completamente opposta, che si chiamava Grammatica; arrivavamo lì con una macchina presa a nolo a Parma con bauli e portapacchi pieni perché ci stavamo tre mesi, un tempo lunghissimo. Ricordo che s’incontravano continuamente delle macchine ferme perché qualcuno stava vomitando: tutti vomitavano in automobile. Alla fine, venivano a prenderci con quelle che chiamavano le benne o i viò: erano delle ceste di vimini grandi tre metri di lunghezza e due di larghezza, in cui mettevano il fieno, tirati in genere da due mucche; le riempivano delle nostre valigie e dei bauli, e si attraversavano dei boschi di castagni bellissimi…»

Ho letto da qualche parte che era chiamato «la bora del bosco»…
«Sì, è vero. Si scendeva tra i boschi verso il torrente Bratica e si risaliva dall’altra parte verso Casarola. Questo già rendeva il luogo molto speciale, tanto che io potevo dire ai miei compagni di scuola: “Vado in vacanza in un luogo che è prima dell’invenzione della ruota”. Perché non c’erano le ruote: c’erano queste benne portate su da degli sci che andavano per le mulattiere. E la ruota ancora non c’era, perché non c’erano le strade. Sono arrivate nel 1952 o giù di lì.»

Tuo padre, che era un grande camminatore, nel bosco ci andava spesso… Usciva tutte le mattine alle nove, con un quaderno, e rientrava a mezzogiorno.
«Passava sempre davanti al cimitero, che era uno dei più bei cimiteri – o perlomeno ci sembrava uno dei più bei cimiteri – che esistessero al mondo. E tutti noi dicevamo sempre: “Ah, io voglio essere sepolto qui”, e invece non c’è nessuno di noi in quel cimitero. Era interessante vedere (e lì mio padre si sentiva forse un po’ antropologo) che le tombe dei casarolesi avevano delle date incredibili: c’erano moltissimi ultracentenari. La longevità dei casarolesi era molto incoraggiante e contribuiva a donare un alone mitico a quel luogo. Sembrava proprio un altro mondo. E in effetti, per tre mesi eravamo in pratica isolati da questo mondo, e in qualche modo ne provava- mo anche nostalgia. Per fortuna, durante la settimana, una giovane postina arrivava da Monchio con un cavallo con la posta per Casarola e Riana, e anche con “La Gazzetta di Parma” per mio padre.»

De «La Gazzetta di Parma» tu padre era il critico cinematografico, giusto?
«Lo è stato fino ai primi anni Cinquanta, fino a quando non ci siamo trasferiti a Roma.»

I primi film li andavi a vedere a Parma con lui.
«Sì.»

Anche se mi sembra di aver letto che il primo film di cui ti ricordi è Biancaneve e i sette nani visto in un cinema all’aperto di Forte Marmi.
«Sai una cosa? Mi sono accorto – e la cosa mi ha molto inquietato, non so perché – che mio fratello Giuseppe in un’intervista racconta che il suo primo film è Biancaneve e i sette nani a Forte dei Marmi.»

Quindi eravate lì insieme e ve lo siete ricordato separatamente.
«Ma è impossibile, perché io avevo sette-otto anni e lui appena uno o due. Credo che lo dessero ciclicamente ogni estate, quel film (il cinemino all’aperto era sempre pienissimo).»

Così, la cosa si spiega.
«Mio fratello ricorda che nei momenti in cui il film faceva un po’ paura mio padre gli metteva davanti il suo panama; e per Giuseppe l’odore di quel cappello gli dava il senso del cinema.»

La storia del tuo primo film – perduto – mi ha molto suggestiona- to. A quindici anni hai realizzato i tuoi due primi film in 16 millimetri: La morte del maiale e La teleferica. Entrambi girati a Casarola, vero?
«Esatto.»

Quello che mi ha più colpito è La teleferica – un racconto stupendo.
«La teleferica mi disse che io avrei voluto fare il cinema. Quel film durava, montato – in quello che era una specie di montaggio molto primitivo – non più di 10-12 minuti. Ricordo che a Roma avevo conosciuto Cesare Zavattini, che veniva ogni tan- to a cena a casa nostra, e un giorno che lui era lì mio padre mi disse: “Ma, Bernardo, perché non porti Cesare a vedere La teleferica?”. Glielo feci vedere una domenica pomeriggio, e Zavattini guardava e diceva: “Evviva!”. Alla fine, riaccesi la luce, e c’era un giovane biondo che disse: “Mah, ci sono troppe inquadrature dal basso”. E io mi sentii punzecchiato ingiustamente. Rincontrai questo ragazzo – di cui non avevo capito il nome – qualche tempo dopo alla Mostra di Venezia, la prima Mostra di Venezia della mia vita; me lo ritrovavo sempre alle proiezioni della retrospettiva su von Stroheim, al che ci siamo detti: “Ma tu non eri da…” e insomma… Ed era Adriano Aprà, che poi diventò un critico bravissimo. E fin da allora si era visto che lui era un critico e io un regista.»

I tre bambini protagonisti di La teleferica erano tuo fratello Giuseppe e due tue cugine… Andavano in giro per un bosco di castagni in cerca di una teleferica, che uno di loro ricordava di avere visto quando era più piccolo. Però non riescono a trovarla, anche se in realtà ci stanno camminando sopra, perché i cavi della teleferica sono caduti a terra e le fo- glie dei castagni li hanno ricoperti…
«Quel film è stato a lungo nel baule della mia automobile. Fino a che un giorno (io avevo già fatto due o tre film), presi questa pizza che cominciava ad arrugginirsi e la buttai proprio via.»

Davvero?
«Sì. Spesso sono stato per la distruzione e non per la conservazione di cose mie.»

E non hai alcun pentimento? Non ti piacerebbe rivederlo?
«Pentimento è una parola troppo forte…»

Credo che ne La teleferica ci siano in luce molti elementi del tuo cinema. Trovo felicissima l’idea che un ragazzino di undici anni possa già avere nostalgia di qualcosa che è passato. L’idea di un paradiso perduto, il doversi confrontare con ciò che non c’è più… mi sembra un tema che ritorna spesso nei tuoi film.
«A quali film ti riferisci in particolare?»

Be’, molti. A partire sicuramente da Novecento, sin dalla prima scena, con l’uomo che corre attraverso i campi gridando: «È morto Verdi!». Un po’ come a dire: è finito l’Ottocento.
«Sì, lì è il secolo che si rinnova e che ricomincia… C’è una verità in quello che dici.»

Diversi anni più tardi, tuo padre ha scritto una poesia, La teleferica, dove rievoca la tua immagine di adolescente con la cinepresa in mano, mentre dirigi quel tuo primo piccolo film, e quella di «Giuseppe Marta / Galeazzina “fuggiti di casa” / quando tutti dormono a Casarola». È una poesia molto tenera, e c’è questo ritratto tuo, con «le gambe lunghe / dei quattordici anni, la smania dello storyteller».
«Non è vero, perché in realtà ne avevo sedici. È una bugia che però mi fa ripensare a Rimbaud che scrive: “On n’est pas sérieux quand on a dix-sept ans”. Mio padre mi disse che era falso: “Ne aveva sedici, ma non funziona, ‘On n’est pas sérieux quand on a seize ans’, manca una sillaba”. Una bugia per ragioni metriche. Quindi anche lui ha capito che con “le gambe lunghe dei sedici anni” sarebbe mancato qualcosa. È l’esempio di come la realtà viene piegata ai bisogni di un verso, di una metrica.»

Nella poesia di Attilio viene evocato il «dolore» che il cuore sente nel rendersi conto che quel piccolo paradiso – la teleferica nel bosco – è andato perduto. Torna anche nei suoi versi il tuo tema. In Prima della rivoluzione, il tuo secondo film, che è ambientato a Parma, i personaggi hanno i nomi dei personaggi del capolavoro di Stendhal: Fabrizio, Gina e Clelia. Eppure il film sembra più una moderna Educazione sentimentale. In epigrafe hai voluto evocare la nostalgia di un’Age d’Or mettendo una frase di Talleyrand: «Chi non ha conosciuto la vita prima della rivoluzione, non sa cosa sia la dolcezza di vivere». L’hai citata a orecchio; infatti ho letto in qualche intervista che poi non sei più riuscito a ritrovarla.
«Ecco, sì. L’avevo sentita ma non l’ho mai più ritrovata.»

Perché è: «Chi non ha vissuto prima della rivoluzione, non sa cosa sia la dolcezza di vivere». Però «chi non ha conosciuto la vita» è forse più efficace, perché conoscere la vita e vivere son due cose diverse, no?
«Sì, ma bisogna ricordare che ho iniziato a pensare a Prima della rivoluzione quando avevo diciannove anni, in modo ancora confuso. Poi lavorai con Pier Paolo Pasolini: feci l’aiuto regista in Accattone. Da lì venne l’occasione di fare un film su quello stesso genere, La commare secca, proprio perché Accattone era stato un grande successo e allora si pensava di mettere La commare secca sulla scia di Accattone. E quindi mi dissi: “Farò diventare mia una cosa che in partenza non è mia, che è di Pier Paolo”. Devo dire che in quel periodo di frequentazione professionale con lui avevo imparato a conoscere un po’ i suoi amici, il suo ambiente, quindi sono riuscito a portare alla fine quel film, che però non era, come accade con i primi film, autobiografico, ovviamente. Poi, però, è arrivato Prima della rivoluzione. Che anno è?»

Il 1964.
«Evidentemente mio padre aveva distillato in me certi sentimenti, che poi io ho ritrovato anche in Giuseppe. Per esempio, proprio quello della fantasia della fine di qualcosa… perché immaginare la fine di qualcosa – ti dici – ti permetterà di soffrire di meno, in qualche modo è una mossa un pochino scaramantica. E credo che sia un sentimento che poi viaggia con delle emozioni che possono diventare forti.»

Mi sembra di cogliere, confrontando la tua opera con quella di tuo padre, una curiosa antinomia. Da una parte c’è la poesia di tuo padre, che sembra voler esorcizzare il tempo, scioglierne l’assedio con una magia che lo cristallizzi. Dall’altra ci sono i tuoi film, con questo senso di dolore per il tempo perduto… Nel mezzo sta Casarola, la casa delle vacanze, il luogo delle estati senza fine, il posto dove il tempo, se proprio non si ferma, ha il potere di rallentare… Nella poesia di Attilio, così ricca di toni biografici, il paesaggio si carica spesso del peso della memoria; c’è come un senso di gelosa protezione nei confronti dei propri ricordi, come se avesse il terrore di perderli. E in questo senso Casarola è un vero e proprio cuore irradiatore di nostalgie.
«Nella poesia di mio padre, Casarola è stata veramente molto presente. Vi eravamo sfollati nel ’44, quando io avevo tre anni. Mio padre aveva disertato e mio nonno, allora, lo fece partire con mia madre e me per Casarola. Quello fu per i miei genitori l’anno più bello della loro vita – e lo dicevano quasi timidamente. Anche perché quando ti salvi dalla guerra e pensi di essere al sicuro, e poi invece la guerra ti raggiunge e cominci a vedere delle colonne di fumo dai paesi vicini… Comunque, a un certo punto, tutto il paese – tranne vecchi e bambini – si spostò sui monti più alti, dove non c’erano più paesi e noi sapevamo che i tedeschi non andavano lì perché avevano paura che ci fossero i partigiani. E anche lì c’era quel viaggio un po’ epico di tutto il paese verso i monti più alti, e di quello mio padre parla ne La camera da letto.»

Prima di diventare regista, da adolescente scrivevi poesie. Hai vinto il Premio Viareggio nel 1962 con la raccolta In cerca del mistero, proprio mentre a Venezia Pasolini presentava Accattone, di cui tu eri aiuto regista. Ti consideravi più un poeta che un autore di cinema?
«Per me non c’era alcuna differenza tra cinema e poesia.»

Chi erano i poeti a cui ti ispiravi?
«Emily Dickinson, la prima. Poi Dylan Thomas. Sempre cercando di dribblare mio padre perché era troppo facile appoggiarmi a lui. E infine Pier Paolo. Questi sono i tre grandi modelli per me. Poi mi sono bloccato. Anche quel premio mi sembrava così poco meritato… vabbè che era per l’opera prima. Avevo comunque deciso che quel capitolo era chiuso: mi sembrava che fosse possibile continuare a scrivere poesie senza scrivere poesie. E quindi facendo dei film.»

Quello è il momento in cui Pasolini teorizza il cinema di poesia…
«Hai letto quel saggio?»

Il “cinema di poesia”? Certo. Era il 1964 – proprio l’epoca di Prima della rivoluzione.
«Vero. Perché lui cita un film di Olmi, Il tempo si è fermato, come cinema di prosa, e Prima della rivoluzione come cinema di poesia.»

Pasolini in quegli anni cercava di individuare l’equivalente cinematografico del verso letterario, trovandolo in una figura stilistica che lui chiamava «soggettiva libera indiretta». In pratica, il regista raggiungerebbe lo stesso grado di apertura di senso e di lirismo del poeta ogni volta che – indipendentemente dalla poeticità intrinseca alle immagini che sceglie di riprodurre – adotta un tipo d’inquadratura che, mimetizzata come punto di vista del personaggio corrisponde in realtà alla sua personalissima maniera di percepire il mondo. Una specie di analogo flaubertiano: due voci – quella dell’autore e quella del personaggio – che confluiscono una nell’altra.
«Prima della rivoluzione era così. Adesso tutta la questione mi sembra un po’ ingenua, quasi che uno debba necessariamente passare attraverso un momento in cui si lascia andare all’autobiografico. La cosa finisce per perseguitarti in diversi modi, anche misteriosi. C’entra, credo, il fatto di avere iniziato con la poesia, perché la poesia è un continuo diario intimo, no?»

Questa attenzione alla forma da parte di Pasolini – e parlo anche del Pasolini direttore di «Nuovi Argomenti» – è stato un fatto importante, perché per la prima volta in Italia veniva contestualizzato lo Strutturalismo. Qui da noi eravamo ancora legati a una visione storicizzata della letteratura, e questa cosa ha influito tantissimo sulla letteratura di quegli anni, ma direi anche sul cinema – e in modo determinante. Voi siete stati la prima generazione ad avere veramente un’attenzione alla forma…
«Questo è vero.»

C’era anche, in quegli anni, la novità di un cinema che parlava anche di sé stesso (penso a 8 e ½). Oltre alla storia e ai personaggi, c’era anche questa domanda latente su che cosa è il cinema. Era una forma d’arte ancora giovane che si guardava allo specchio per capire cos’era.
«Questo veniva evidentemente dalla Nouvelle Vague, perché il cinema di tutta la Nouvelle Vague, ma soprattutto quello di Godard, cerca di rispondere a una domanda del loro maestro, André Bazin: “Qu’est-ce que c’est le cinema?”. Loro si interrogano e quello che più di tutti filma questa domanda – e la sua risposta – è Godard. E credo che questa… quasi esibizione del linguaggio che, se non è ben controllata, crea degli scompensi con la storia (ci sono dei film che sono semplicemente delle belle inquadrature e che non ricordiamo più perché non c’è più niente da ricordare) è una cosa che ho molto vissuto e mi fa piacere che me l’hai chiesta.»

A questo proposito, tu ti sei sempre dichiarato un fan di Buster Keaton, e in special modo di quel suo film straordinario, Cameraman, che è già una riflessione del cinema sul cinema, col punto di vista che diventa il personaggio.
«Ricordo che vidi Cameraman a Parigi in un momento in cui, siccome Prima della rivoluzione qui non era piaciuto a nessuno, mi ero rifugiato a Parigi per un po’, perché lì invece lo avevano accolto favorevolmente. Era l’inverno tra il ’67 e il maggio del ’68. Lì frequentavo Godard e sua moglie Anne Wiazemsky, che poverina è morta da poco e che ha scritto due libri molto belli; uno si chiama Un an après, dove racconta proprio del ’68 vissuto vicino a Jean-Luc. È un libro che ti consiglio di leggere.»

E Buster Keaton l’hai conosciuto?
«No, l’ho visto solo sullo schermo.»

Era finito in Italia a fare film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia…
«Non solo: un mio grande amico, Gianni Amico, l’aveva visto esibirsi in un varietà a Genova nei primi anni Cinquanta.»

Incredibile.
«E triste.»

Di quei primi film che andavi a vedere a Parma partendo da Casarola che cosa ricordi? Mi sembra di aver letto che una grande influenza su di te l’ha avuta Renoir, ma non so se già andavi a vedere i suoi film.
«No, ancora no. Erano soprattutto film di guerra americani contro i giapponesi, tra cui alcuni capolavori. Me ne viene in mente uno che è un film di John Ford con John Wayne, che si chiama in originale They were expendable, in italiano si chiamava I sacrificati: un gruppo di Marines e aviatori in un’isola del Pacifico. Bellissimo, un capolavoro. E andavo a vedere i western. E poi ricordo alcune domeniche mattina che andavamo a Parma da Baccanelli o da Casarola perché c’era un cineclub che era stato creato da mio padre e da Pietro Bianchi. E lì ho visto i primi film russi, che sono stati importanti per me. Forse le troppe inquadrature dal basso di cui parlava Aprà, criticandomi, venivano proprio dai russi!»

Ogni volta che ti riferisci alle estati passate a Casarola, mi sembra di sentire quella storiella sul tempo che ti ha raccontato Elsa Morante. Anche tu, come tuo padre, provi a cancellare il tempo con degli esorcismi…
«Ripensando a questa cosa del mio tema, che tu hai ravvisato già a partire da La teleferica, devo confessarti che dopo molto tempo mi sono reso conto che il finale del film La strategia del ragno – con quei binari che una carrellata segue fino a che si comincia a vedere che l’erba cresce sempre di più, finché i binari spariscono –, ecco… quei binari sono come i cavi di La teleferica. Si vedevano i piedi dei bambini che camminavano sull’erba e non si accorgevano che sotto c’erano i cavi nascosti. È un’inquadratura quasi identica a quella che ho fatto vent’anni dopo ne La strategia del ragno. L’erba che cresce sui binari in Strategia vuol dire che sono molti anni che non passa un treno su quei binari, e l’erba cresciuta sui cavi della teleferica vuol dire che anche lì è passato molto tempo. Ripensando a quel film, hai ragione tu: è curioso che io parli di un bambino di dieci anni che rievoca una cosa nella sua memoria.»

La trovo un’idea di una felicità assoluta il fatto che anche da bambino puoi provare nostalgia per un momento perduto, per un’epoca d’oro. Ed è bellissimo che ne La teleferica il cinema si accorge che i bambini stanno camminando su questa cosa che loro non trovano, è quasi il ribaltamento della soggettiva: sei tu che ti proclami autore dall’alto e fai vedere al pubblico quello che loro non sanno, ma tu sì.
«E infatti mi ero arrampicato sul ramo di un castagno, e mio padre lo dice nella poesia che hai citato. Accidenti, come conosci bene tutto questo!»

Mi ha colpito molto.
Lo sai? Ero così… come dire… disperatamente sicuro che avrei fatto un film lì a Casarola che avevo scoperto che c’era un carrello nella sede di una vecchia casa di produzione di Parma che si chiamava Cittadella Film e che aveva fatto certi documentari di Antonio Marchi, un regista di Parma che era venuto a vivere a Roma molto amico di Attilio, e che aveva diretto tre o quattro documentari di cui Attilio aveva scritto il testo, il parlato. E ne avevano fatto uno sulle canzoni tra le due guerre. Poi dopo Antonio Marchi farà un film insieme a Luigi Malerba chiamato Donne e soldati, girato in un meraviglioso castello di Parma che si chiama Torrechiara, rimasto intatto. E fu l’ultima sua esperienza, questa a Parma, poi cominciò a fare i gelati. Era bravo, erano bei documentari. E insomma, la Cittadella Film, avevo capito che lì avevano un carrello. Era un carrello coi binari di legno. Non ho mai più visto una cosa del genere a Roma. Lo feci portare a Casarola. Era pesantissimo, sia i binari che la piastra sopra con le ruote. Non lo usai mai, ma rimase per decenni e mia madre mi supplicava: “Fa’ qualcosa, porta via quell’affare”. E per me era un po’ come La teleferica: avrei voluto nasconderlo. Be’, con La teleferica era facile buttare via una pizza, ma quell’affare era troppo ingombrante!»

Ho capito quindi da dove inizia il famoso carrello di Bernardo Bertolucci. Che è poi una cifra di tutta la tua regia.
«Sì, è un movimento; è quello che poi dopo in analisi ho cercato di indagare, di capire meglio: l’avvicinamento all’oggetto d’amore e l’allontanamento. La separazione e la vicinanza.»

A proposito di analisi, questo voler diventare poeta, questo desiderio di seguire le orme paterne e poi a un certo punto voler cambiare mezzo di espressione, nonché il ritorno della figura del padre come un altro tema dominante del tuo cinema, cioè il fare i conti con il proprio padre… ha pesato questa cosa? Insomma, ti ha condizionato?
«Io vorrei risponderti con una frase che mi ha detto mio padre un po’ di anni prima di andarsene: “Tu mi hai ucciso un sacco di volte, ma sei sempre riuscito a non andare in galera”. Gli è venuta proprio così, era così felice di averlo detto, dopo; aveva capito di aver detto qualcosa di estremamente buffo ma al contempo di estremamente vero.»

È uno dei motivi per cui scriviamo libri o facciamo film: la possibilità di poter uccidere impunemente, no?
«Sì, se fossi stato consapevole di quello che stavo facendo… In qualche modo, sei consapevole e non lo sei, per fortuna. Le recensioni più belle dei miei film, per esempio, penso siano quelle che mi dicono cose a cui non avevo pensato e che nel momento in cui le leggo mi sembrano così chiare, evidenti.»

Io vorrei mettere anche una tua poesia in questa piccola storia che vogliamo raccontare. Ce n’è una che s’intitola A mio padre. Te la ricordi?
«No. Leggimela un po’.» Gliela leggo.
«Chi ha scritto questa cosa?» mi fa, ridendo. «Vabbè, mettiamola giusto per completare il quadro.»

Ci sarà, ovviamente, anche la poesia di Attilio, La teleferica.
«Lo sai? Ecco forse perché ho buttato via il film. Perché sapevo che la poesia era più bella e che sarebbe stato più bello ricordare il film attraverso la poesia. Questo lo dirò a Lucilla, che mi ha insultato perché avevo distrutto La teleferica. Anche perché c’era Giuseppe attore protagonista.»

Da tuo fedele spettatore, all’inizio quando ho letto questa storia del tuo film perduto mi sono arrabbiato. Poi, però, andando dentro questa storia, che evidentemente risuona in me in qualche modo, sono contento che questo film non ci sia perché è diventato ormai qualcosa che io posso colorare con la mia immaginazione, con le mie aspettative, con le parole di tuo padre. È diventato qualcosa di più. Mi sembra che lì dentro ci sia qualcosa di profondo, perché da lì sono esplose tante cose e sono rimasti pezzi della teleferica in tutto quello che hai fatto.
«Sì, è vero. Dovresti leggere un piccolo saggio su La teleferica di qualcuno che naturalmente non ha mai visto il film… Non so se conosci Michele Guerra, un professore di Storia del cinema a Parma. Uno molto bravo. Comunque, c’è un’altra poesia di Attilio che dovresti guardare: si chiama I pescatori. E poi, mi raccomando… butta via tutto quello che non è sexy.»

 

(Questa conversazione è apparsa sul numero di maggio 2019 di «Nuovi Argomenti». Si tratta dell’ultima intervista che Bernardo Bertolucci ha rilasciato prima di morire.)

Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.