La bruja / Parte seconda

da | Ott 3, 2013 | Senza categoria

Con le sue casupole bianche, le palazzine in disfacimento, i lunghi muretti sbrecciati, il lungomare di Ostia gli ricorda certe cittadine del nord Africa viste nei documentari in tv. La sensazione che non ci sia niente da scoprire e niente che consoli, qui è sempre presente. Perciò Davide ci torna spesso. Neanche il mare, giallastro, dà un po’ di sollievo. La bellezza di Roma invece, ai suoi occhi, gli scorci che tolgono il respiro, i monumenti e le piazze, i sampietrini luccicanti dopo la pioggia, le statue imponenti e meravigliose lo costringono ad aguzzare la vista, lo fanno sentire fuori posto, insignificante, lo stordiscono. A Ostia si muove come un randagio, lo sguardo basso, tra reticoli di strade dritte che non portano da nessuna parte. Se ci pensasse con più attenzione, scoprirebbe che le ragioni per cui viene fin qui non sono tanto diverse da quelle che lo tengono in letargo a Due Ponti.
Seduto a gambe incrociate sulla sabbia, il sole in picchiata che allunga le ombre, sta lottando con una cartina che non ne vuole sapere di incollarsi. Ha rimediato del fumo nei paraggi, al solito, e sa già che fra poco inalerà una buona dose di lucido da scarpe bruciato. Nessuna illusione sulla qualità di quello che può ottenere con gli spiccioli che ha in tasca. Anche in queste faccende, in teoria di routine, riesce a farsi fregare. Non è soltanto pigrizia la sua, piuttosto assuefazione al fallimento. Solo scopare lo rimette al mondo. Solo così si sente vivo. È una dote innata, si ripete. L’ha capito a dodici anni, davanti allo sguardo piacevolmente strabiliato della donna delle pulizie polacca, quando casualmente una mattina l’ha visto senza mutande. Quell’affare smisurato che gli penzolava tra le cosce già allora lasciava di stucco. Così come nelle docce dopo le partitelle di calcio i compagni di squadra lo chiamavano invidiosi il negro. Per il resto i suoi ventitré anni li valuta severamente come una sequela di tentativi abortiti, grigi insuccessi, o al massimo traguardi insignificanti. Ciò che davvero lo riporta indietro negli anni ricongiungendolo alla sua adolescenza a Monte Sacro, il quartiere in cui ha vissuto, senza dargli dolorose strette al cuore, si trova adesso nell’acqua, a un metro dal bagnasciuga, di fronte a lui. Seni rotondi e pesanti, il culo largo e stuzzicante, bikini violetto. Labbra carnose, naso leggermente schiacciato, grandi occhi nocciola. Davide non smetterebbe mai di guardarla, Valeria lo eccita da sempre. Ma anche ora che gli si avvicina gocciolante e gli sorride teneramente, lui non sente nient’altro che un groppo alla gola e una voglia bestiale di saltarle subito addosso. Nessun tipo d’amore, scavando in profondità soltanto magari un affetto opaco, impalpabile.

È sera, la spiaggia è quasi deserta, Valeria afferra l’asciugamano e ci si avvolge lanciando i capelli all’indietro. Ha la pelle d’oca. Davide osserva i suoi polpacci, forse troppo muscolosi, e le unghie dei piedi smaltate di bianco. Una bellezza ingombrante, prosperosa, tutt’altra cosa dalle dive sui cartelloni.
-hai freddo?-
-un po’. Fammi fare un tiro-
Siedono fianco a fianco, Valeria poggia il mento sulle ginocchia piegate, l’acqua salata le ha irritato gli occhi e tolto quel po’ di trucco che aveva.
-e insomma stasera sei scappato…-
-che?-
-la colombiana ti tiene in libertà vigilata, eh?-
Davide volta la faccia dall’altra parte, sputa un grumo di saliva sulla sabbia.
-è inutile che fai tanto il coatto, quella ti comanda a bacchetta-
-e te che ne sai?-
Valeria si strofina i capelli con l’asciugamano, -si vede- dice e non aggiunge altro.
A lui viene in mente la festa della notte scorsa, quei due che si pestano, la bocca di Daisy, e la mela piena di stuzzicadenti nel congelatore. Sul bigliettino c’era scritto Andrea. Il ragazzo di Diana. Siomara, quella stronza, l’ha aiutata a fargli una macumba, pensa Davide. In modo che lui resti sempre appiccicato alla sua donna. Ecco che vuol dire quella mela bucherellata. E se avessero provato qualche specie di macumba anche su di me? Davide non ci crede. Siomara gli ha sempre assicurato che quella roba non deve essere fatta su chi si ama, perché porta male. No, non deve cominciare a riempirsi il cervello di queste stronzate. Altrimenti s’empàva, come dice lui storpiando lo spagnolo, si porta sfiga da solo.
-mi dici che ci trovi in lei? E soprattutto che ci trovi in quel posto, come si chiama, Due Torri?- Valeria è tornata all’attacco.
– mo’ vuoi farmi da psicologa? Comunque si chiama Due Ponti-
-dài, a me puoi dirlo, praticamente siamo cresciuti insieme –
-sì, solo che te stavi sempre con quelli più grandi, o te lo sei scordata? A me manco mi guardavi-
Valeria lo tira per un braccio, -non fare tanto la vittima, la tua parte l’hai avuta eccome, su!-
Davide non ha nessuna voglia di parlare di Siomara, né di come sia finito in quel posto. In fondo la risposta è semplice: come cliente. All’inizio è andata così. E poi…al resto non vuole pensare. Di colpo si ricorda che oggi aveva deciso di attaccare come autista. Vabbè domani, si dice. Tanto che differenza può fare?
Valeria incrocia le braccia, -resta coi tuoi segreti, oh, non voglio mica costringerti a parlare-
Lui si allunga a baciarle la spalla scoperta, il collo. Valeria si scosta, -e stai buono!-
Dietro di loro c’è un capanno pieno di tavole da surf. Davide ha già notato che la porta non ha lucchetto. In un lampo Valeria capisce le sue intenzioni, anche lei ne ha voglia e non perde tempo a farsi desiderare. Si alzano, raccolgono le loro cose, entrano nel capanno sghignazzando come ragazzini. Il posto odora di acqua stantia. Lei lascia cadere l’asciugamano, le mani di Davide si avventano sul suo corpo nudo, le lecca i capezzoli, affonda la lingua nella sua bocca. Valeria si distende, in un attimo il ragazzo le sta sopra, la schiaccia col suo peso, e quel contatto un po’ brutale le strappa un gemito. Allaccia le gambe sulla schiena di Davide, ansimando sempre più eccitata. Aspetta di sentirlo dentro di lei, mentre continua a baciarlo, a leccargli le labbra. Socchiude gli occhi, inarca la schiena. Trattiene il respiro.

L’istinto, o meglio la tentazione è quella di accelerare puntando dritto il primo platano che incontra, senza sollevare neanche per un attimo la suola dal pedale, schiantarsi in un’orgia di vetri, pezzi di lamiera, benzina che brucia, mentre viene catapultato fuori dal finestrino. Ma ora Davide sta drammatizzando. È vero però che la notte passata è rimasto con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto, sconvolto per la vergogna. E che anche adesso, mentre è al volante, non riesce a darsi una spiegazione per quello che gli è capitato. Diana, sul sedile posteriore, sembra non notare la sua agitazione. Solo Siomara, seduta accanto all’amica, lo sbircia di tanto in tanto nello specchietto con uno sguardo che pare soddisfatto e insinuante. Ma lui non ci fa caso, ha altri problemi per la testa al momento. Fortunatamente guidando tende a rilassarsi. E la notte, già lo sa, è lunghissima per un autista.
-guarda se c’è in giro la polizia- lo richiama all’ordine Siomara appena imboccano la Togliatti. Procedono lentamente; non avvistano volanti.
-lasciaci vicino al bar- gli indica Diana, e lui esegue. Ferma la macchina guardandosi bene intorno. Fa cenno con la testa: possono scendere. Da Diana intasca i primi dieci euro della sua nuova carriera. Spiccioli, ma il profitto di questo lavoro si misura sulla quantità, sul numero delle corse. Siomara gli dà un bacio prima di tuffarsi a battere in strada, preme la sua bocca più del solito lasciandogli un’impronta di rossetto, poi si dilegua. Davide riparte. Ora che è solo può ragionare più facilmente. Con Valeria non c’era mai stato un solo intoppo prima di ieri sera. Incepparsi così lo riempie di rabbia, è un tarlo che logora. E se conta il mezzo passo falso con Daisy ecco che siamo già a due. L’idea gli mette i brividi. Non riesce a cancellare dalla mente l’espressione sbalordita di Valeria, proprio sul più bello. Da una frase contorta che lei ha farfugliato ancora nuda nel capanno, lui ha afferrato solo la parola impotente. Sentenza irrimediabile. Com’è possibile? Adesso, mentre con la sinistra stringe il volante fino a sbiancarsi le nocche, affonda l’altra mano nelle mutande, si tasta come un dottore, alla ricerca di chissà cosa. Deve essere un qualche tipo di disfunzione, si dice, ma subito ci ripensa. Tenta di rendere il respiro regolare, mentre dentro aumenta l’angoscia. Deve scordarsi questo incidente. Continuare a guidare. Far passare la notte.
Il cellulare sul cruscotto si mette a vibrare. Risponde. Due parole di conferma e riattacca. Candela lo aspetta sulla Cassia, deve sbrigarsi. L’appuntamento è tra dieci minuti. Le strade sono vuote – privilegio del martedì sera- e può accelerare. Arriva in ritardo di qualche minuto, ma non troppi perché lei decida di trovarsi un altro passaggio. Per essere un principiante se la sta cavando. La sua auto è invasa da un profumo pungente mentre Candela si sistema sul sedile del passeggero e dà un ultimo ritocco al trucco. È una trans molto femminile, anche lei colombiana, mulatta. Non ha voglia di fare conversazione, è tesa perché deve incontrare un cliente un po’ loco che non la convince. Ma il tizio paga bene, e questo è sufficiente. Davide sbircia le sue gambe lunghe e sottili, le scarpe col tacco alto e trasparente. Il vestito rosso luccicante di paillette, i bracciali colorati ai polsi. Con lo sguardo risale fino alla bocca spalmata di lucidalabbra, gli occhi deformati dal trucco eccessivo. È esile, un cerbiatto dal verso di baritono. La deposita davanti a un alberghetto vicino Termini. Lei gli chiede di aspettare finché non ha finito. Davide annuisce, sfila una sigaretta dal pacchetto, accende la radio sperando che non ci voglia molto. Se avesse un tassametro lo lascerebbe correre, ma in questo caso dovranno trattare. L’albergo è squallido, all’insegna manca una lettera, il portiere non si vede. Quindici, venti minuti e Candela è ancora lì dentro, nessun altro è entrato dopo di lei, il posto ha un’aria spettrale, inquietante. Di colpo al primo piano le scuri di una finestra si spalancano con un tonfo secco che riecheggia in strada. Davide si allunga a guardare, una gamba penzola cercando l’appoggio del cornicione, poi l’intero corpo di Candela sbuca dalla finestra, un tacco vola sull’asfalto, lei è aggrappata agli stipiti, fa resistenza a qualcuno che la tira dall’interno, l’intera scena è muta, forse Candela non ha nemmeno fiato per urlare, terrorizzata. Davide la vede torcersi in un movimento innaturale, cacciare un urlo, e poi precipitare, una strana traiettoria, la osserva schiantarsi su una serie di casse imballate. E’ finita nello spazio recintato dei lavori stradali, non si muove, dalla finestra si affaccia un uomo e si ritrae all’istante, Davide corre, si piega su di lei per tentare di rianimarla. Candela spalanca gli occhi, un po’ di sangue le cola da un orecchio. Muove spasmodicamente le braccia biascicando: -la borsetta, dov’è la borsetta? Trovala-, Davide la individua subito, è caduta qualche metro più in là sul marciapiede. La recupera mentre Candela si rimette in piedi e zoppicando si muove verso la macchina. Lui la sostiene, le apre la portiera, lei ha ancora gli occhi sbarrati, il sangue le cola lungo il collo, ha le gambe tutte sbucciate, il vestito strappato. Davide mette in moto, sta sudando, è fradicio di sudore, mentre Candela no, è gelida, un pezzo di ghiaccio. Percorrono le strade senza meta, senza parlare, lui ha quasi dimenticato come si guida, cambia le marce scordando di premere a fondo la frizione che stride, brucia i semafori, finché non riacquista un po’ di calma e getta un’occhiata a Candela, le chiede finalmente se ha bisogno dell’ospedale. Lei sbuffa, lentamente riprende un colorito accettabile, si accende perfino una sigaretta.
–Señor de los milagros- mormora, -è un pazzo, un pazzo criminale-. Davide aspetta qualche secondo prima di chiederle –che ti ha fatto?-
-oh, mi vida, non te lo puoi immaginare. Ha chiuso la porta a chiave, all’inizio sembrava tutto normale, poi…- si interrompe all’improvviso, come avesse fatto cortocircuito.
-allora, che ti ha fatto?-
-aveva apparecchiato un tavolino, ma quello che c’era dentro i piatti, nei bicchieri…- si tappa il naso, storce la bocca, nauseata, -non ho sentito la puzza finché non ha tolto i coperchi. Peggio di una fogna. È stato così umiliante- Strizza gli occhi, -e poi non voleva lasciarmi andare, mi minacciava col coltello. È pazzo, pazzo, Dios mío. Ma fino a questo punto non era mai arrivato-
Davide rallenta, ormai ha ripreso il controllo. Non può evitare di guardare ancora Candela, la vede prendere dalla borsetta un mucchio di banconote verdi accartocciate e contarle. La sbircia metterne una da parte, vicino a lei sul sedile, riporre il resto nel portafogli, e poi allungargli quel croccante pezzo da cento. –sono ancora viva. To’, prendi. E adesso portami a bere qualcosa-

Ritrovo notturno per Candela e molte altre fra un cliente e l’altro è un bar sul Lungotevere davanti al Foro Italico. Davide ci è passato davanti spesso, senza mai fermarsi. Ora lo sguardo di due autisti che come lui attendono appoggiati al cofano delle loro auto lo mette in soggezione. Quegli energumeni lo squadrano chiedendosi chi sia, che intenzioni abbia, e soprattutto quanto denaro gli farà perdere la concorrenza di un giovane a caccia di soldi facili. Nel bar adesso è tutto un cicalare di maricas, di trans che tracannano vodka, rum, grappe, amari, raccontandosi le disavventure della nottata. Sono quasi le due. Davide osserva attraverso le vetrate quelle facce aggredite dalla luce cruda delle lampadine nel locale, è abbastanza scaltro ormai per scorgere su qualcuna segni di disfacimento camuffati a fatica: dentature cariate su cui a stento si apre un sorriso, macchie sulla pelle coperte dai cosmetici, membra avvizzite celate da vestiti ampi, calvizie repellenti sommerse dai riccioli di una parrucca. D’altronde le malattie non trapelano se non attraverso indizi nascosti, che solo chi ha familiarità con l’ambiente può smascherare.
Fissa Candela appoggiata al bancone, sembra non aver voglia di riprendere il lavoro, e si capisce. In più deve essere riuscita a farsi pagare in anticipo da quel pazzo. Ben fatto. Perciò Davide crede che per stanotte dovrà cercarsi qualcun’altra da scarrozzare. Controlla il telefono: due chiamate perse. Rifà il numero, e riconosce all’istante la voce di Daisy. È impegnata con un cliente, ma ha bisogno di un passaggio tra mezz’ora. C’è tempo per farsi una bevuta. Davide entra nel bar, alle prime sorsate l’alcol gli brucia lo stomaco, gli fa ruttare fuoco. Si fa spazio per avvicinarsi a Candela che ha uno sguardo opaco e lo saluta abbozzando un cenno con la mano, forse adesso, dopo qualche bicchiere, neanche lo riconosce.
Risale in macchina diretto all’Eur. Non conosce bene la zona, ha difficoltà a rintracciare l’indirizzo che gli ha dato Daisy. Alla fine lo trova, lei sta uscendo dal portone di un palazzo elegante.
-meno male che sei arrivato, il mio autista ha il cellulare staccato- gli dice, abbassando il volume dello stereo. Dà qualche indicazione sul prossimo appuntamento, è una che non perde tempo.
-come va la prima notte di lavoro?- gli chiede, sorridendo maliziosa, puntandogli addosso i suoi occhi scuri.
-faticosa- si limita a dire Davide.
– allora, forse, posso farti rilassare un po’ io- e gli allunga una mano sulla patta.
Lui si irrigidisce. Avrebbe voglia di farsela anche così, in macchina, ma improvvisamente comincia a tremare. Le cosce si contraggono in una serie di crampi, sente il cuore che pulsa all’impazzata. Daisy abbassa il reggiseno, solleva la minigonna scansando le mutandine. Davide riprende a sudare, smania dalla voglia ma è come se il cazzo fosse anestetizzato. Lo assale un’ansia incontrollabile, esita, guarda la strada, poi Daisy, stordito, e quasi non si accorge del telefonino che squilla. È la sua salvezza, lei deve rispondere. Una trentina di secondi e riattacca, -andiamo- dice, ricomponendosi.
Lui guida come un folle, è sconvolto, prende le curve troppo larghe urtando i marciapiedi, dà gas senza cambiare le marce.
-stai tranquillo- tenta di rassicurarlo Daisy, che non capisce, – abbiamo tempo per divertirci-
È proprio questa la sua paura. Quasi non riesce a mettere a fuoco, non si accorge di un semaforo e per poco non si schianta contro una jeep che attraversa tranquillamente l’incrocio.
-ora però datti una calmata, eh!- lo rimprovera Daisy, che comincia a seccarsi.
Per miracolo arrivano illesi davanti a una villetta di Casal Palocco. Lei fa uno squillo col cellulare, le luci del cortile si spengono all’istante. Daisy passa sul sedile posteriore, tiene la portiera aperta, in attesa. Il cancelletto della villa si apre, una figura magra, barcollante nel buio sale rapidamente in macchina. Davide sbircia nel retrovisore: non può credere a quello che vede. È una donna, cazzo, non se lo sarebbe mai immaginato. Tenta di mostrarsi indifferente, mentre Daisy gli dice di andare. Eppure qualcosa non quadra. Nei pochi secondi in cui si permette di voltarsi all’indietro fingendo un torcicollo o per sgranchirsi la schiena registra particolari che compongono uno quadro difficile da decifrare: un grosso naso aquilino, sopracciglia troppo folte, capelli neri eccessivamente lucenti per essere naturali. E poi le mani: la persona che è appena salita a bordo ha delle mani grinzose, ricoperte di macchioline marroni, sembrano vecchie malgrado le unghie smaltate di viola. Anche i tacchi alti e le calze a rete stridono con quelle gambe ossute, scheletriche. La faccia però non riesce a vederla completamente per via delle lunghe ciocche corvine. Daisy, accorgendosi che lui li osserva, gli rifila un’occhiataccia e gli ordina di stare attento alla strada, gli chiede di svoltare a destra e proseguire dritto fino a un parcheggio che troveranno più avanti. Davide obbedisce anche se si è perso; sa di trovarsi di nuovo all’Eur, ma ora non riesce più a orientarsi. Trova il parcheggio, rallenta, lei si sporge dal finestrino: –Filippo ci sta aspettando, dobbiamo sbrigarci. Vai lì, veloce, all’entrata del parco-. Davide esegue. Quel parco non l’aveva neanche notato. Sembra piuttosto grande, punteggiato di rari lampioni, rischiarato dal bagliore lunare. Ferma la macchina, spegne il motore. Daisy gli allunga tre pezzi da cinquanta, -questi sono per Filippo. Lo trovi all’entrata. Datti una mossa- ha assunto un tono arrogante. Davide schizza fuori dall’auto. Ha visto Filippo solo un paio di volte, a Due Ponti, ma quella faccia da indio colombiano con piccoli occhi rossi infossati non può scordarla. E a giudicare dalle telefonate che ha ascoltato è lo spacciatore più esplicito e scoperto che abbia mai conosciuto. Strano che la polizia non lo abbia ancora beccato.

All’ingresso del parco non si vede nessuno. Davide si guarda intorno, nota il profilo degli alti edifici che lo circondano, le strade vuote solcate ogni tanto da qualche auto lanciata a tutta velocità.
Ehi, si sente chiamare da un punto imprecisato nel parco. Nella semioscurità distingue Filippo a metà del vialetto di ghiaia che gli fa segno di avvicinarsi. Lo segue, gli consegna i soldi.
-devi aiutarmi- gli fa il colombiano, -vieni-.
Prendono a camminare sull’erba, a zigzagare fra gli alberi, fino a un mucchio di pietre. Filippo si inginocchia, sospira nervosamente, -deve essere qui-, dice e comincia a rovistare tra le pietre alzando una quantità intossicante di polvere. –la polizia dà fastidio stanotte-
Davide sogghigna; lo stronzo deve aver nascosto la cocaina da qualche parte, e adesso non riesce più a ricordare dove. Una mossa da vero professionista. A vederlo così sembra una talpa pronta a sparire nel sottosuolo.
-prova vicino a quella panchina. È incredibile, porca troia. Dài, forza, sbrigati cabron!-
Davide esegue, va verso la panchina, comincia a tastare la terra umidiccia, gli viene quasi da ridere.
Sente un fruscio dietro di sé, si volta di colpo. Dietro un tronco, tra le foglie, nota un grassone con berretto e occhiali scuri. Un poliziotto, pensa d’istinto, ma immediatamente cambia idea. Non può essere. Il grassone fa strane smorfie con la bocca, anche se si nasconde un po’ di luce giallognola proveniente dalla strada gli rimbalza sulla faccia molliccia e sudata. Davide resta immobile, non sa che fare. Gli arriva un rumore di passi dal vialetto, si gira e vede un altro uomo in giubbotto jeans che guarda nella sua direzione. Che cazzo succede? Non riesce più a individuare Filippo, e questi tizi che lo osservano gli danno la sensazione di essere accerchiato. Si rimette in piedi, si inoltra nel parco, comincia a sentirsi paranoico, anche se crede che non sia possibile immagina che la polizia si stia appostando all’entrata. Dietro un cespuglio, un ragazzo, sì, sembra decisamente un ragazzo, tiene il capo reclinato all’indietro. Può vederne solo la testa e il busto, il resto è celato dalle foglie. Si fa avanti, un uomo è inginocchiato davanti al giovane, la testa che fa avanti e indietro con un sibilo oleoso. Per poco Davide non scoppia a ridere: è un lunapark per froci, pensa sghignazzando.  Si accorge di altri uomini che vagano silenziosi, smaniando alla ricerca ossessiva di un pompino o qualcosa di meglio. E delle auto parcheggiate oltre la rete, che mandano a intermittenza lampi coi fari, come fossero messaggi cifrati. In fondo, dove il parco fa una curva e passa la strada, intravede una fila di sei ragazzi -che evidentemente hanno scelto quel punto perché illuminato dai lampioni- appoggiati contro un muretto, scarpe e tute da ginnastica, le mani in tasca, fumano tutti; si mettono in mostra, qualcuno ogni tanto li avvicina, contratta e si apparta col prescelto, altrimenti loro scuotono la testa, voltano le spalle tirando l’ennesima boccata. Davide torna sui suoi passi, Filippo lo individua, gli va incontro e gli passa tre bustine: -ti godi lo spettacolo, eh? Qui è sempre così, un vero carnaio- e si allontana con una risataccia. Davide lo segue fuori dal parco, poi va alla sua auto. In piedi accanto al cofano trova un ragazzino che avrà sì e no quattordici anni, il viso imberbe ma già duro, occhi verdi, capelli biondo scuro rasati sui lati. Porta solo una canottiera e dei pantaloncini coi tasconi, e delle infradito con i colori del Brasile. Daisy si fa avanti, reclama la sua cocaina, passa una bustina al ragazzino che la fa sparire in tasca e guarda senza emozione la persona che si avvicina titubante alla sua destra: niente di più lontano da una donna, Davide non capisce come abbia fatto a cascarci anche solo per un momento. Coperta dalla parrucca nera, una faccia rugosa, ammuffita, le labbra ammaccate. Sotto la giacca ampia solo un corsetto rosso attorno alle ossa sporgenti, e un tanga lucido a strizzargli i testicoli. Le gambe, due stecchi bluastri ancorati a tacchi malandati da lap dance. Il travestito squadra smanioso il ragazzino dalla testa ai piedi, gli stampa una mano sulla faccia in una carezza viscida. L’altro non reagisce, distaccato: con la mente di sicuro è già altrove.
–allora, ti piace, che ne dici?- sussurra Daisy, soddisfatta, e il vecchio annuisce, impaziente.
-Davide, tu aspettaci in macchina- ordina la colombiana. Lui non afferra subito le sue parole, concentrato com’è su quella scena che gli contrae le viscere. –in macchina, hai capito?- Davide si riscuote, fa sì con la testa. Apre la portiera tenendo gli occhi fissi su quei tre che si allontanano inghiottiti dal buio. Daisy si volta a guardarlo un’ ultima volta, stizzita –aspettaci lì, non ti muovere-, con la bocca sfila una sigaretta dal pacchetto –posso fidarmi, vero?-

L’alba non è mai stata il suo momento preferito: i primi cinguettii, il chiarore del sole che filtra ostinato dai buchi delle persiane, la città che si rimette stancamente in moto, gli tolgono il sonno ancor prima di toccare il cuscino. Ma se vuole davvero continuare come autista, Davide deve farci il callo. E soprattutto deve imparare a spurgarsi la testa dalle follie della notte, liberarsene come se potesse semplicemente buttarle nello scarico. I numeri verdi sul cruscotto segnano le quattro e cinquanta. Dopo Daisy e quell’ultimo cliente, ha spento il cellulare, Siomara l’aveva avvertito di aver trovato un passaggio. Ora si stropiccia gli occhi, sbadiglia, è a pezzi. Scende dall’auto, si avvia alle scalette della palazzina. Apre la porta dell’appartamento e sente scorrere l’acqua della doccia. Si siede sul letto, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Siomara dal bagno ha sentito scattare la serratura. Si insapona, poi afferra una pentola vicino ai suoi piedi e la rovescia sui capelli e sul corpo per sciacquarsi: un miscuglio di miele, cannella, acqua e petali rossi, bollito sul fuoco qualche minuto prima, le scorre caldo sulla pelle. È una miscela purificatrice. Infila l’accappatoio e torna in camera da letto.
-papito, qué pasa?-, gli stampa un bacio sulla fronte, -te l’avevo detto che non era una passeggiata-
Accende il ventilatore sul comodino, beve a piccoli sorsi la tisana che aveva lasciato sulla mensola. Esita qualche secondo prima di chiedergli –è andato tutto bene?-  Davide la guarda battendo le palpebre. Svuota le tasche. È molto più di quanto si sarebbero immaginati. La colombiana sorride, -direi di sì-, e si libera dell’accappatoio. Poi però la sua voce si incrina, -che hai dovuto fare per tutti questi soldi? La puttana anche tu?- Sulla faccia di Davide prende forma un sorriso sghembo, -più o meno-, la provoca.
Le unghie di Siomara ticchettano sulla tazza, -non mi meraviglia- Abbassa le persiane, il cielo sta schiarendo. Davide guarda di sfuggita il corpo della colombiana, poi si lascia andare sul letto. Si sfila le scarpe, i pantaloni, la maglietta. Gli bruciano gli occhi. Li chiude. –e tu invece, cos’hai conclu…- prima di riuscire a finire la frase, Siomara è salita su di lui, le gambe aperte, gli si è seduta sulla pancia, le mani premute sul suo petto. Davide sogghigna, -che c’è, vuoi scopare?- Siomara gli restituisce uno sguardo furente, -non prendermi per il culo, lo so benissimo con chi scopi. So tutto quello che fai, papito-
-ah sì? E cosa faccio?-
-sei uno schifoso, cochino, puerco, ma io non sto qui buona buona a farmi prendere per il culo, entiendes?-
Davide non si toglie quel ghigno dalla faccia. Socchiude gli occhi. Di colpo la colombiana gli afferra il cazzo, ci sputa sopra, si piega a leccarglielo. Davide resta inerte, poi con uno scatto le preme le mani sul culo, si scuote, affonda la faccia tra le sue tette con un grugnito sempre più forte. La colombiana ride, gli lecca il collo, lo bacia, allarga ancora le gambe, gli infila due dita in bocca, eccitata, cerca il suo cazzo. D’improvviso si immobilizza, smette di ridere. La faccia si contrae in una smorfia incredula.
-hai visto cosa mi hai fatto?- il tono tagliente di Davide la fa rabbrividire. Ha una voce rabbiosa, disperata. –hai visto, stronza puttana?- Lei si rovescia a succhiarlo, lo abbocca e lavora con le mascelle più che può. Un’espressione esterrefatta le deforma il viso.
–Hai visto, hai visto?- ripete il ragazzo. Lei continua a leccarlo, lo tocca dappertutto. Ma è accanirsi per niente.
–io…-prova a dire Siomara, -non è così che…-, Davide la blocca, ha le lacrime agli occhi, -che specie di macumba mi hai fatto, brutta strega puttana, eh? Che cosa mi hai fatto?-
-non era così che…- ripete lei balbettando, -doveva essere solo per me. Tu dovevi essere solo per me-. Davide fa schioccare la lingua –sembro un vecchio impotente- dice senza più energia, facendo rimbalzare la testa sul cuscino. Siomara si appiattisce al suo fianco, -ti toglierò questa cosa, papito, per favore, sant’oddio- ma lui non vuole più rispondere, la ignora adesso. Solo dopo qualche secondo sussurra: -tu non c’entri, vecchia stronza-. Il sole si sta già insinuando nella stanza con un chiarore dorato. Gli uccellini, puntuali, hanno iniziato il loro instancabile cinguettio. Siomara si allunga vicino al ragazzo che tiene gli occhi serrati, si sente come svuotata. Si passa le mani tra i capelli, d’improvviso ha freddo anche se sta sudando. Muove le labbra senza emettere alcun suono. Punta lo sguardo davanti a lei: sulla mensola il sigaro infilato nella bocca dell’ekeko sta bruciando. Ha sempre detto il contrario, ma in realtà è la prima volta che vede coi suoi occhi una cosa del genere. Vorrebbe svegliare Davide e mostrarglielo, ma lui, d’improvviso, pare essersi addormentato. Quel lungo sigaro nodoso e marrone sta bruciando sul serio, come se la bocca in cui è incastrato stesse aspirando davvero. Siomara si mette a sedere, raccoglie tutta la concentrazione di cui è capace. Fissa gli occhi dell’ekeko, due occhietti diabolici, e di nuovo il sigaro che si sta consumando. Ormai non ha più dubbi. Lo osserva bruciare rilasciando un denso profumo di tabacco, finché la brace si illumina con un ultimo sfrigolio, manda qualche minuscola scintilla. Il sigaro di colpo si spezza, una metà grigiastra precipita sulla mensola ai piedi della statuetta lasciando soltanto un mozzicone sbucciato, e si sgretola all’istante in un pallido mucchietto di cenere.

[fine]

La prima parte è qui.

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).