I 99 anni di Manlio Cancogni

da | Lug 6, 2015 | Senza categoria

Lo scrittore e giornalista toscano, nato il 6 luglio 1916 e autore di alcuni dei più importanti romanzi del secondo Novecento (tra gli altri, ricordiamo Parlami, dimmi qualcosa, La carriera di Pimlico, Allegri, gioventù e Il Mister), è uno dei maggiori “irregolari” della letteratura italiana contemporanea.

Con Carlo Cassola negli anni Trenta immaginò la poetica del “sublimine”, poetica che informa il suo primo racconto lungo, Azorin e Mirò, apparso dapprima sulla rivista “Botteghe Oscure” nel 1948 e successivamente in volume, e quindi si dedicò all’attività giornalistica firmando storiche inchieste come quella sulla prima Tangentopoli italiana, “Capitale corrotta Nazione infetta”, pubblicata dall'”Espresso” nel 1956.

I suoi racconti sono raccolti ne La sorpresa (Elliot, 2009), da cui è tratta una parte della conversazione con Simone Caltabellota qui riprodotta.

A quando risalgono i tuoi primi racconti?

Il primo racconto  in assoluto che scrissi era intitolato “Il calamaio” ed era la storia del mio innamoramento per una mia compagna di classe, Irene,  innamoramento che risaliva a quando avevo tredici anni. Lo scrissi nel 1936, a venti anni, quando Carlo Cassola mi disse che dovevo smetterla di scrivere poesie , diceva che non usava più, che bisognava dedicarsi alla prosa. In realtà io fino ad allora pensavo di essere una specie di Rimbaud.

All’epoca leggevo soprattutto i francesi, Rimbaud appunto, e poi Baudelaire e Verlaine, poesia quindi, ma non i poeti  italiani , dei contemporanei anzi non conoscevo forse nemmeno i nomi, solo Palazzeschi.

Nell’autunno del ’36, tornato dall’ospedale dove ero finito durante il servizio militare, ritrovai Cassola con cui nel frattempo avevamo rotto i rapporti di amicizia – per la precisione Carlo mi aveva “diffidato” dal frequentare la compagnia  di Via Adige a Roma, tra cui c’era anche Gassman, di cui lui, che abitava a Via Clitunno, era un po’ il leader: mi aveva diffidato perché improvvisamente iniziò a dire che ero un individuo “nocivo”, ma così, senza nessun reale motivo – insomma, dopo che ci ritrovammo con Carlo, lui mi incitò a scrivere racconti. Fu da questa cosa che iniziò il nostro sodalizio letterario e che nacque poi l’epoca del “sublimine”. Paradossalmente, proprio il nostro riavvicinamento  lo portò subito dopo ad allontanarsi da quegli stessi amici che mi aveva diffidato dal vedere.  Certo è che questi rimasero quanto meno stupefatti dal nostro comune abbandono della compagnia!

L’amicizia con Cassola ha segnato  per entrambi un periodo importante per la scoperta della letteratura e dell’essere “scrittori”.

 Sì, con Cassola poco prima, nella primavera del 1936, avevamo fatto anche una rivistina, “Il Pellicano”. La facevamo a mano ed era di quattro pagine, su due colonne, con la testata che riproduceva questo pellicano trovato da Carlo chissà dove.

La battevo a macchina io e ne facevo, mi pare, cinque o sei copie. Si fecero, credo, tre numeri. Vi scrivevamo di tutto, per esempio Carlo vi “pubblicò” una sorta di breve storia della letteratura italiana cominciando da Dante naturalmente e poi – il tutto chiaramente in pochissime righe – dicendo ogni male possibile di Petrarca, e poi Boccaccio, Ariosto, Tasso, per arrivare a Leopardi e quindi  infine a Pascoli, che amava perché in lui aveva trovato uno speciale senso dell’infinito, in particolar modo nei “Poemi Conviviali” (cosa curiosa a ripensarci, perché certo non sono brutti ma in ogni caso restano un “falso”). Fatto sta comunque che Carlo, specialmente nel poema “L’ultimo viaggio” che racconta di Ulisse – non l’Ulisse dantesco del XXVII canto dell’Inferno, ma un Ulisse che va alla ricerca di chi sia lui, di cosa stia a fare al mondo – vi ritrovava il senso del mistero dell’essere nel mondo, che per noi doveva essere il fondamento della nuova letteratura.

Personalmente non pensavo che dovesse essere tanto ”oggetto” di letteratura, quanto che questo stupore della realtà fosse esso stesso letteratura, che questo sentimento costituisse anzi la cosa più importante della vita.

Quali sono stati i tuoi inizi “ufficiali” come scrittore?

Fino al ’38-’39 non pensavo assolutamente a pubblicare. Anche Cassola era della stessa idea: soltanto in seguito poi, dicevamo, avremmo pubblicato una plaquette – avevamo letto questa parola in una nota su James Joyce, a proposito di una plaquette  di poesie da lui pubblicata,: da qui l’idea di pubblicare una plaquette in due con i nostri racconti, un volumetto di poche pagine.

Poi nel ’39 andammo insieme a Firenze: allora Firenze era una città importante per la letteratura. La gente che contava stava lì: Montale, Gadda, Luzi, Gatto, Pratolini, Bilenchi, tutta l’aristocrazia della letteratura nuova. A Roma noi due non avevamo contatti  se non Venturoli e, per la politica, Alicata, Trombadori e Ingrao.

A Firenze abitava un cugino di Carlo, Piero Santi, che all’epoca esercitava una grande autorità e lì aveva costituito attorno a sé un gruppetto di letterati; credo che tra questi vi fosse lo stesso Fortini (che allora si chiamava ancora Lattes), e poi Leonetto Leoni, Bilenchi, Cavallina, Lauricella, Calamandrei…In opposizione ai frequentatori delle Giubbe Rosse – che era il ritrovo degli ermetici – si vedevano al Caffè La Vigna Nuova.

Ricordo che io e Carlo ci presentammo indossando entrambi un cappello nero che avevamo comprato insieme e anche una sciarpa nera di seta: lo stile fiorentino invece era quello di un’assoluta anonimità, noi a contrasto avevamo un atteggiamento “maudit”.

Una volta arrivati, io lessi, senza nessun successo, uno scritto intitolato “L’anno”, nelle mie intenzioni la storia subliminale di un anno, che poi successivamente mandai a Sceiwiller che me lo rispedì indietro senza una sola parola di commento.

Comunque eravamo andati a Firenze perché avevamo deciso infine di iniziare a pubblicare. E infatti nell’ottobre del ’39, io uscii per primo, su “Frontespizio”, con un racconto intitolato “Pomeriggio d’autunno” mi pare, e Carlo pochi mesi dopo pubblicò su “Letteratura” e fu quindi recensito da Ferrata, cosa al tempo inusuale per un racconto e assolutamente prestigiosa.

La cosa curiosa è che il mio primo racconto per un errore di stampa fu pubblicato con il nome non di Cancogni ma di Concogni!

Quali erano i riferimenti per il racconto breve quando hai iniziato a scrivere?

I miei modelli erano i racconti  di Gente di Dublino di Joyce, e poi scoprii Solitudine , che era il titolo tradotto in italiano di Vinesburg, Ohio di Sherwood Anderson, che mi fece un’impressione molto forte. Il modello era però sicuramente il Joyce dei racconti.

Se dovessi indicare degli esempi di scrittori di racconti chi sceglieresti?

 Per il Novecento direi assolutamente Carver, poi Flannery O’ Connor, che secondo me è superiore più nei racconti che non nei testi più lunghi, e poi Cheever. Per gli italiani certamente Delfini, e in un certo senso anche Landolfi, anche se c’è qualcosa di troppo “lustro” nel suo stile, le cose sue diventano come traslucide.  Direi poi anche i racconti di Bassani, sebbene siano dei romanzi condensati: comunque  la “Notte d’inverno del ‘43’” rimane un capolavoro. Di Bilenchi sono belli i racconti lunghi come “La siccità”, “Il gelo”, “La miseria”, e poi Tobino, nel suo primo libro di racconti, La gelosia del marinaio,  che uscì da Tumminelli nel 1942: ce ne sono alcuni davvero belli.

Tra i tuoi primi racconti e quelli che hai scritto poi tra anni Ottanta e Novanta cosa vedi in comune, cosa li accomuna? C’è o meno una linea di continuità o rappresentanto due periodi del tutto distinti?

 No, rappresentano due periodi diversi. I primi racconti corrispondono a un’idea precisa di letteratura, mentre quelli più tardi sono assolutamente slegati da un’idea di “ricostituita poetica”. Nel frattempo, del resto, è cambiata la mia idea di letteratura, o forse ho avuto un’idea di letteratura negli anni Trenta, dopo invece non ho più avuto nessuna idea della letteratura, scrivevo quello che volevo scrivere, che mi nasceva dentro, ma non c’era più nessun progetto che rispondesse a una poetica ben precisa. Ma è stata una fortuna: che la letteratura debba essere rispondente a un’idea precisa mi sembra oggi una rovina: se i racconti di Gente di Dublino sono un’opera straordinaria, l’Ulisse invece è proprio un libraccio.

Quale può essere allora per te il giusto rapporto tra letteratura e vita?

L’idea di letteratura come vita ci ha ossessionato negli anni Trenta. Negli anni Trenta io accettavo la tesi di Carlo Bo che la letteratura dovesse essere un impegno totale, l’idea che si viva per scrivere, cioè una “religione” della letteratura. La letteratura, dunque, come sostituto della vita: io in quegli anni ero disposto a rinunciare alla vita per lo scrivere. Poi dopo mi sono reso conto dell’assurdità di una posizione del genere.

Oggi penso che non possa esistere un rapporto sano tra letteratura e vita: la letteratura di per sé è una malattia. Non riesco assolutamente a immaginare, adesso, in base a che e perché si debba scrivere, oggi.

I miei ultimi romanzi, di cui dicevamo prima, sono nati da un’ispirazione religiosa, altro oggi non riesco a vedere: non si può parlare più di una letteratura impegnata, engagè, alla Sartre, oggi, è inverosimile. Per quale religione laica ci si batterebbe? Cosa può ispirare ideologicamente uno scrittore oggi? Nulla, non c’è assolutamente niente. Lo stile di per sé non può essere sufficiente.

Com’è stato allora il tuo rapporto con la letteratura durante tutta la tua carriera?

E’ stato penoso. La gioia invece solo molto relativa.  I primi miei libri che mi hanno dato davvero soddisfazione sono stati Parlami, dimmi qualcosa e forse anche La linea del Tomori. Ciò che ho scritto davvero volentieri invece è stato Il ritorno, quello sì. Ma insomma c’era qualcosa che non è mai andato davvero nel mio rapporto con lo scrivere. Del resto la stessa cosa è avvenuta con la lettura: sono stato un cattivo lettore almeno fino a due anni fa, ho cominciato a leggere con piacere solo dopo i novanta anni…

Oggi potrei leggere certamente tutta la Recherche, non lo faccio per una superstizione. Però credo di detenere dei record, come l’aver letto l’Ulisse in una settimana a 92 anni! Si può mettere nel Guinness dei primati!

A rileggerli oggi ci sono degli scrittori che mi rendo conto che sono importanti anche se io non li amo: è il caso di Svevo, che avevo letto da giovane e sui cui ritornandoci in seguito notavo l’aspetto negativo, la lingua pessima, la sentenziosità da autore rompiballe. Però ora mi sono reso conto che è un autore importante, uno dei pochi scrittori italiani davvero “europei”. Io amo Pea e Tozzi, ma non sono degli scrittori che contano nel panorama europeo, non li puoi mettere accanto a Thomas Mann, Proust, Joyce e Kafka. Non so dire perché, ma è così.

Allo stesso modo I Promessi Sposi non possono stare accanto al Don Chisciotte, anche se secondo me il libro del Manzoni è molto più bello di quello di Cervantes.

Calvino è uno scrittore europeo perché ha scelto una lingua europea, il francese settecentesco, e l’ha trasportata nell’italiano.

Del resto c’è poco da fare, l’Italia del Novecento il meglio  l’ha dato nella poesia: Betocchi, Caproni, Montale, Ungaretti, Saba, Luzi, lo stesso Penna.

E se esistesse un Paradiso degli scrittori secondo te chi chi starebbe, e chi vorresti incontrare tu?

 Beh, Dante non lo vorrei incontrare, c’è sicuramente ma non lo vorrei incontrare. Invece vedrei volentieri Omero, per l’Odissea, per parlare del mare. Da Dante sarei troppo intimidito. Petrarca direi che c’è d’obbligo, ma non lo vorrei vedere. Vuillon lo incontrerei volentieri e gli direi che ho declamato dappertutto le sue ballate. Mi racconterebbe chissà quali storie e quali balle! Sì, lo vedrei volentieri.

Con Cervantes sarei contento di parlare, Shakespeare invece per me è soltanto un nome, lo hanno imposto gli inglesi al mondo, da parte mia preferisco i drammaturghi spagnoli dello stesso tempo, come Calderon de la Barca.

Certo non vedrei volentieri Voltaire, che probabilmente non è nemmeno lì, e nemmeno Rousseau.

Manzoni ce lo metto, magari non ho tutta questa voglia di incontrarlo… tanto parlerebbe sempre lui, sì potrei ascoltarlo per qualche ora ma certamente sarebbe difficile conversarci. Vedrei con piacere Pushkin, e anche Stevenson, assolutamente: gli chiederei dove ha visto lui il mare, se non solo da riva. Il mare dell’Isola del tesoro, che non è sicuramente un mare nordico, è il più bel mare di tutta la letteratura mondiale. Come ne vede i colori  e ne racconta il suono, è strepitoso. E poi Stevenson doveva essere certamente uno simpatico. Poi parlerei volentieri con Twain e con Cechov, non vorrei invece avere rapporti con Tolstoi,  con Dostoiewsky sì, in nome della mia adolescenza.

Più vicino a questi tempi rivedrei con piacere Pea, gli renderei conto di quello che ho cercato di fare per lui in questi anni e gli ricorderei che quando gli dissi che stavo scrivendo, sarà stato il ’50, mi rispose: “Non ce la fai!”.

Ci sarebbe sicuramente Penna, e Montale, li incontrerei volentieri, sebbene a rileggerlo adesso Montale ci si sente anche  dell’impostore, però è vero sempre che ha una lingua forte, fortissima, sa creare una grande suggestione. Certo la definizione di Ungaretti sul suo “burchiellismo” non è campata in aria!

Ci metto poi Betocchi, ma non so se ci vorrei parlare. E Tozzi, e Cassola certamente, anche se sarebbe difficile rimettersi a parlare dopo la rottura che ci fu tra di noi: c’è stato un grande equivoco fra noi due, che ha reso questa rottura insanabile.

Rivedrei volentieri anche Fusco, e poi Bassani. Tra gli americani mi piacerebbe incontrare Anderson, e Fante. Thomas Mann vi va messo ma ne starei alla larga. Hamsun è imperdonabile per quello che ha fatto, ma è un grande scrittore.

Tra gli spagnoli ci sono sicuramente Perez de Ayala e Unamuno, e Azorìn chiaramente!

Joyce lo vedrei, e lo perdonerei infine per l’Ulisse

Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.