Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato

da | Nov 21, 2013

L’ultimo libro di poesia di Andrea Inglese si intitola Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato. Di seguito un testo dalla raccolta e una recensione di Marco Corsi.

2.

Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,

io ci terrei che il lavoro
quando riuscissi a trovarlo
(entrando all’improvviso con il foglio
di giornale ripiegato
magicamente sotto il braccio
e le parole dell’annuncio
tutte evidenziate, azzurre)

io vorrei che il lavoro stesso
trovasse me
e nella più agile e audace delle posizioni
di una prontezza spontanea
completamente sincera

io ci terrei che il lavoro
una volta trovato
trovasse intorno a me
quanto non può mancare
intorno al lavoro: una donna
– ad esempio – piuttosto giovane
con la quale io potessi spingermi a parlare

se io fossi in grado
di trovare una donna per parlare
per spingermi fin dove le parole
possano confonderci – lei e me –
oltre a tutto il lavoro

in modo che il lavoro
sia dalle parole interrotto
lavorando fino a smettere per poter
soltanto parlare
ben oltre tutto il lavoro possibile
e oltre il sonno il cibo i soldi
fino alle parole che io sarò in grado di dire
a lei soltanto – alla donna piuttosto giovane –
in questa scoperta del linguaggio

dopo il lavoro ci sarà un linguaggio
attraverso cui il lavoro stesso
non sarà più riconoscibile
e noi non saremo distrutti ma più belli

più confusi l’uno nell’altra
come gli ultimi parlanti

***

Si può da subito avvertire con una certa sicurezza che questo libro e questa scrittura di Andrea Inglese propongono continuamente e in maniera fattiva i limiti e le costrizioni di un pensiero; perseguono la certezza in maniera assertiva, parlando e descrivendo, analizzando i fenomeni, ma con una razionalità e una emotività trattenute, sostanzialmente in bilico e bilanciate dall’uso della parola e dell’oggetto («Se sollevo un cucchiaio o un bicchiere / è per ricordarmi che esiste un equilibrio. / L’essere confusi, tramortiti, / non significa ignorare l’equilibrio», pag. 23); usano i processi narrativi e sperimentano i tropi della fiction («io che mi giro dentro la menzogna per attenuare / il disturbo la cosa normale che sembra necessaria / toglierle tutto i numeri le date i colori falsare», pag. 45); contemplano il procedimento dell’iterazione in senso oppositivo, dal momento che il discorso spesso non evolve, ma si espande longitudinalmente, seguendo traiettorie incurvate ma pur sempre asintotiche rispetto al cento della questione (e ad un certo momento, nella prosa che apre la seconda parte di queste Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato, in questa spirale cognitiva all’apparenza interminabile, si legge proprio: «Non sta succedendo più niente, non succede niente, non è mai successo niente»; una sostanza non diversa da quella che si trova nel Brodskij di Parte del discorso: «[…] non esiste la / vita, con ogni evidenza, in nessun luogo, e non puoi / fissar lo sguardo su nessuna stella»).

Ecco, possiamo ripartire allora da alcune considerazioni sul discorso, prendendo a prestito i motivi posti tra parentesi, nella speranza che l’accostamento a Brodskij, per quanto non del tutto illecito, appaia il meno possibile estemporaneo: anzitutto, ci muoviamo in uno spazio allocutivo e consentaneo (esplicitamente consentaneo) rispetto ad una disamina per la quale l’umano risulta non tanto una matrice, piuttosto un codice, un numero seriale, convinti che, come dice lo stesso Brodskij, «Di tutto l’uomo non resta che una parte / del discorso». Come scrive Inglese con un nesso giustamente legato per asindeto, ma unito dal tratto della ragione, «il problema – io» (p. 45) di doppia derivazione e implicazione, costituisce il centro nevralgico e assieme il punto di tangenza all’infinito di qualunque preterizione. Di fatto, quello che si cerca sembra piuttosto un’ombra al di sotto delle questioni, del loro essere domandate, o forse appena il segno della sua sparizione, della sparizione, appunto, di quell’ombra di soggetto: «sentire se mai ci fosse il finale / se qualcosa rimanesse come uno strato sottilissimo / da qualche preso anche per poco agganciato / come un’ombra di neve su di una superficie» (p. 30).

Vogliamo subito aggiungere, però, anche per collocare lo spazio della poesia di Andrea Inglese, che alcuni testi poetici fra quelli qui trattati, erano comparsi nel 2009 sul n. 49 de «il Caffè illustrato», con un commento di Vincenzo Ostuni: al di là delle polarità implicite che i richiami fra nome e nome ormai stabiliscono, questa puntualizzazione serve ad arginare la deriva lirica che poteva sembrare occorrere con quanto sostenuto finora. Andrea Inglese, piuttosto, è in grado liricizzare i toni della realtà usando a freddo gli strumenti, sottraendo calore al tono e guardando allo stesso tempo cosa risulta della voce nell’entropia che alimenta l’ambiente circostante. E non è neppure di elementi circostanziali che si vuole dire: i versi di Inglese (i versi-versi e i versi-in-prosa) sembrano lavorare con la metodica dell’ossessione, senza timore di scadimento nella retorica facilmente travisabile del titolo.

Potremmo forse chiederci a cosa fa riferimento la «reinserzione culturale», a quale linea questo segmento di esistenza del «disoccupato» è stato tolto, ma è lo stesso soggetto a chiederci continuamente di resistere a questo sommovimento («non è possibile», ripete più volte), come se l’unica risultante fosse davvero una nevrosi e non piuttosto una più profonda e sintomatica riflessologia della nostra sempre più, sempre meno, avventizia umanità («io credo di poterle anno dopo anno migliorare / in un solo blocco le relazioni sociali / senza fenditure e crepe come dentro / una sagoma dalla superficie uniforme / e da cui io sono completamente tolto», pp., 41-42).

Vogliamo allora entrare dentro il luogo più compatto di queste Lettere, ovvero la seconda sezione intitolata Le circostanze della frase, a suo modo più rigorosa della prima e meno duttile, stando agli strumenti che la forgiano: prima fra tutti la capacità millimetrica di osservazione, non disgiunta da una forma della visione che ricorre al pensiero come macchina da presa. Tuttavia, la tensione del discorso non risulta infine meccanica, ma effusiva al punto da convivere in maniera con le ossessioni e con le forme di nevrosi cui si è appena accennato per una forma di pudore e di coscienza che è propria di queste parole. Se ad una prima lettura di queste Circostanze la memoria letteraria tornava al Raboni di Economia della paura, a certo Manganelli, a Parise, a Manganelli e, non ultimo, a Volponi e all’«Officina» cui aveva preso parte per un tratto, la sintassi di Inglese infine ci chiede una via di liberazione, e di conseguenza un luogo di approdo che partendo dalla tradizione sappia di questa fare un nuovo esercizio, più vicini in questo all’ideologia pasoliniana – pare lecito dirsi – che alla frattura sincopata dell’avanguardia o della sperimentazione oltranzista:

«Ora che di questa calma farò il mio spazio, di questa sovrastante calma, come nuvola che discende, ad ombrello, spaziando, e calmo, da seduto, farò di ogni assillo un luogo, di ogni ansia un varco, mutando luoghi e varchi nello spazio calmo, l’uno nell’altro in equilibrio, tenendo dentro tutto, le inquiete sagome animali, le superfici taglienti, le voci dalle radio morte, a calmarsi, tenendo ogni fiamma, crepitio, frantumarsi di vetri, avendo ancora spazio, fondi e strati, per addolcire il ritardo, e i crolli, e frenare, senza farsi opaca, o vellutata, la minaccia dei rumori secchi, delle porte socchiude, le troppe, le assillanti porte, e socchiuse, i soliti varchi, e i luoghi ciechi, per cui passa il gelo o si spande la crepa, mentre intorno, circondando chi siede, la calma lascia spazio, docile, ad ogni assillante intrusione». [Marco Corsi]

(Andrea Inglese, Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato, Ancona, Italic Pequod, 2013)

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).