Urbanités

da | Set 9, 2015

Con Urbanités – Paris, Le Lavoir St. Martin, 2015 – Jean-Charles Vegliante ci propone la sua settima raccolta di poesie: delle quali una, Nel Lutto della Luce, Einaudi 2004, antologica bilingue.

A partire dalla prima, Vers l’Amont Dante, L’Alphée 1986, che lo dichiara esplicitamente nel titolo, la poesia di Vegliante è, in qualche modo, posta sotto il segno dell’Alighieri, e la memoria di Dante percorre in effetti anche quest’ultimo volume. In esso si certifica inoltre come la sua poesia venga costituendosi sempre più come un universo organico, con la sua complessità, le sue leggi e i suoi cicli, un’opera tessuta su una trama lessicale coerente e insistita e che rivela i propri nodi in parole-tema ricorrenti di cui si dirà. Preme intanto rilevare come, invece, il tono abbia conosciuto nel tempo, ma non in maniera strettamente lineare, una progressiva evoluzione verso una più esplicita ricerca di interlocuzione con il lettore e di transitività del dettato, “Tendono alla chiarità le cose oscure”. Se in Rien Commun, per esempio, un’allocuzione diretta e trasparente come “À présent je te cherche lecteur”, risultava significativa ma ancora piuttosto inconsueta, in Urbanités e già a partire dalla poesia che introduce l’intera raccolta, si incontrano frequenti sollecitazioni, rivolte al lettore, che possono tradursi in formule dubitativo-interrogative e, più in generale, in un esplicito coinvolgimento dello stesso.

Oltre a quello costituito da un tono spesso colloquiale e discorsivo – non raramente già in incipit – l’elemento di novità che questa raccolta propone, lo troviamo annunciato nel titolo, Urbanités, che, accanto al significato di formule e pratiche di cortesia che dovrebbero regolare i rapporti di chi condivide uno spazio comune, rimanda più concretamente alle strade urbane, parigine che l’autore percorre abitualmente o nelle quali ha vissuto. A tal proposito è utile precisare che se il rapporto con il territorio rappresenta una novità per la particolare insistenza e per la trasparenza del riferimento –toponomastica ecc. – esso non costituisce un inedito dal momento che, per esempio, anche i Sonnets du Petit Pays entraîné vers le Nord avevano un concreto e preciso corrispettivo oggettivo.

Si è già detto di un reticolo di parole tema che costituiscono la trama di tanta produzione di Vegliante e che stabiliscono campi semantici ricorrenti più o meno contigui; uno di questi, che non si notava nelle raccolte precedenti e che si impone abbastanza chiaramente in un gruppo di poesie della sezione Urbanités, rimanda all’azione  del vedere, e si trova proposto già in uno dei titoli, Écoute-voir. Il motivo viene declinato in forme diversissime che possono interpellare il lettore “As-tu vu le ciel comment…?”, “tu vois bien”, assumere una valenza gnomica “Chacun peut voir, préfère ne pas voir” con un gioco di antitesi che ritroviamo lungo tutta la raccolta e già all’interno della stessa poesia “J’ai vu… je n’ai rien vu” o, in difformità con il tono dell’ultimo esempio, in Dispersion, diventare sorta di denuncia che può ricordare il “Io so…” pasoliniano: un “J’ai vu…” che apre quasi ognuno degli otto distici che compongono la poesia e che assume un tono di desolata constatazione nel cambio di tempo verbale dell’ultimo distico “Je vois mes voisins et moi mourir un peu / chaque instant…”.

La discorsività del tono di cui si è detto non esclude la ricchezza e raffinatezza di soluzioni stilistiche che ci si possono attendere da un esperto di poetiche e di versificazione, come Vegliante, che può dissertare per decine di pagine sull’influenza della poesia arabo-andalusa in quella di Quasimodo, attenendosi quasi esclusivamente alla distribuzione degli accenti. Troviamo insomma, nella poesia di Vegliante e particolarmente all’interno di questa raccolta, un trobar ric insolitamente transitivo che si pone in continuità con la lezione di uno dei suoi autori prediletti, quella del Pascoli di “Il Gelsomino Notturno”, per esempio, che nell’umile distico della chioccetta riesce a proporre una delle più alte concentrazioni di figure retoriche che la poesia italiana conosca; in questo senso, risulta particolarmente felice la naturalezza con la quale in Rue Pétrarque leggiamo di ‘triomphes’ e ‘lauriers’.

Non mancano, neppure in questa raccolta, soluzioni lessicali particolarmente riuscite come in Carré nu (nul) dove assistiamo al compiersi di un intero ciclo lunare: ‘lune’ v. 1, “lune mince” v. 8 “ex lune lacune” v. 11 e all’inizio di un ciclo nuovo, con un bel neologismo, probabile memoria di ‘animula’, incastonato in un distico che ci offre una soave adnominatio impreziosita da paronomasia “Mon petit, ma lunule, mon alibi / laisse aller à leur fin dans l’air fin les bulles”.  E tuttavia mi sembra di dover sottolineare come, tra gli stilemi più riusciti di questa nuova raccolta e che costituiscono probabilmente una novità rispetto alle precedenti, ce ne siano alcuni che non attengono esclusivamente all’elemento lessicale. Mi riferisco, per esempio, al ricorso ad una serialità che riguarda spesso il tipo di costruzione piuttosto che il rapporto fonico o semantico tra i termini – la dispositio invece dell’inventio, insomma – e che caratterizza più di una poesia come  Chaque fois l’aube con la sua insistita costruzione sintattica (articolo, sostantivo, verbo alla terza persona singolare del presente indicativo) nei primi sei versi e un’anafora sintattica ai vv. 10 e 11 “tu peux ranger…” / “Tu peux sortir..” o “La Commun’est pas morte” dove la serialità della costruzione è sottolineata dalla disposizione in anafora e dall’iterazione: “Toutes ces choses qui bougent…/ Tout le vent qui s’acharne…/ Toutes ces choses qu’on nous oblige…”; o, infine, Parents d’enfant enlevé, con la serie di sostantivi ad explicit della poesia.

Si è detto di una trama di parole tema che si può riconoscere in tutta la produzione poetica dell’autore di Urbanités. Al proposito, si possono ricordare quelle che si riferiscono al campo semantico del volo (air, aile, soleil anche in contatto antitetico con sol), il motivo del nord o, presente in questa raccolta ma che non ricordo altrove o, almeno, non con l’insistenza di oggi, quello del treno con il suo corollario uditivo e visivo che fa pensare piuttosto allo Sbarbaro di “Il rapido passò dentro un barbaglio / d’ottoni…” con il borgo che ricorda “le petit pays entrainé [en–train-é] vers le nord”, che non alla “fioca litania” del rapido di Montale. Di altri motivi si può dire ma, almeno a partire da Rien Commun (Belin 2000), quello che maggiormente si impone all’attenzione del lettore è costituito dal rapporto con la morte o, piuttosto, con i morti, da cui termini espliciti come ‘morts’ o evocativi e letterariamente connotati come ‘ombre’ – anche in italiano e in paronomasia “l’orma di un’ombra” – a  cui si affiancano quelli indicanti la sepoltura: ‘terre’, ‘sol’ o, ancora esplicitamente, ‘cimetière’. Si tratta di un motivo che presenta i modi e i toni di un’urgenza tutta personale ma che sicuramente deriva a Vegliante anche dalla profonda intimità con la Commedia di cui ha fornito la più bella traduzione in francese di sempre.

Troviamo in Dante come, mutatis mutandis, in Pascoli, la presenza di un dialogo con i morti caratterizzato dall’elemento di una reciprocità che non può ridursi a sola finzione o allegoria. Non si capisce nulla di Dante – e non soltanto del Dante della Commedia ma neppure di quello della Vita Nova – se, anche sulla scorta della lezione di un contemporaneo come Pascoli, non si leggono la sua permanenza dell’oltretomba e il suo incontro con i defunti, come esperienze di vita vissuta. Non si capisce nulla, dicevamo, dell’opera di Dante ma non abbastanza neppure della poesia di Vegliante se il contratto di lettura non prevede, oltre alla possibilità di interlocuzione del poeta con il lettore, anche di quella con le ombre. E, sia ben chiaro, non è tanto importante stabilire se Vegliante possa o meno inserirsi nella schiera degli autori che ha in Dante e Pascoli i più incantati esponenti, quanto capire come, anche a proposito della lettura di Urbanités, la “sospensione dell’incredulità”, costituisca uno strumento umanissimo di intelligenza del testo.

A proposito del rapporto con i morti, presente in tutta la produzione di V. ma con particolare insistenza a partire da Rien Commun, troviamo, all’interno di Urbanités, un rimando, come per contrasto, a Pianto Antico del Carducci, alla terra ’fredda’ e ‘nera’ cui Vegliante contrappone una “terre tiède” o, arricchendo il discorso di sfumature ma circostanziandolo allo stesso tempo, i versi di  Morts de janvier, dove a intiepidire la terra è la cura amorevole delle ragazze. Se In Dante e Pascoli il dialogo con i morti diventa esperienza vissuta e nei versi di Carducci, così come in quelli del Foscolo, l’allocuzione ai morti rimane invece una mera necessità dei vivi che non ha nessuna fondatezza oggettiva di diventare dialogo, una terza posizione  può essere riconosciuta all’interno della poesia di Montale, in Xenia, per esempio, (il più bel canzoniere in morte dell’amata del XX secolo), nei versi di “Avevamo studiato…” o  in quelli che chiudono la poesia sul fratello della Mosca: “…ma è possibile, / lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi”. Ora, se per Dante l’interlocuzione con i defunti si svolge comunque all’interno di un’opposizione netta tra le condizioni dei dialoganti – e, di fatto, l’essere vivo e in carne ed ossa di Dante viene continuamente ribadito anche attraverso l’utilizzazione  del termine ‘ombra’ in senso stretto, ad indicare quella proiettata dal corpo solido di Dante che desta meraviglia nelle ombre (e quando le ombre non se ne accorgono ci pensa Virgilio a mettere le cose in chiaro) – Montale risolve la questione del rapporto con i morti, rovesciando i termini stabiliti da Dante e l’interlocuzione con la Mosca è resa possibile dalla condizione di fragilità e inconsistenza dei sopravvissuti, dalla comunanza dello statuto evanescente di ombre [nel Talmud si dice che le nostra esistenza è quella di un’ombra e non dell’ombra di un albero proiettata sul muro ma di quella di un passero che si posa sul ramo di quell’albero]. In questo senso il verso già ricordato di Vegliante “Je vois mes voisins…”, che peraltro può rimandare al famoso incipit sbarbariano: “Padre che muori tutti i giorni un poco”, sembra accomunare la sua posizione a quella di Montale.

Merita infine una qualche considerazione, un motivo riscontrabile più o meno chiaramente all’interno di tale produzione ma che assume un’urgenza particolarmente evidente nelle ultime pagine di Urbanités. Ci riferiamo al coinvolgimento dell’autore in vicende che sono chiaramente indicate anche nei titoli di alcune poesie che chiudono la raccolta. Se i poeti rifiutano in genere di riferirsi direttamente alla cronaca, alla quale rimandano, semmai, attraverso un discorso allusivo che si pretende universale in quanto non connotato temporalmente, Vegliante – in qualche modo sulla scorta di Pasolini, di Fortini o di Dante stesso –, non esita ad affrontare argomenti, qui font la une, come quello della difficile integrazione di comunità con retroterra culturali diversi o dei pretesi extracomunitari nati e cresciuti nelle nostre città ma che di esse rifiutano i valori fondativi, per partire in tangenze violente e demenziali. Vegliante non rifiuta di sporcarsi le mani con la politica e di farlo indicando il che cosa e il quando – come in Morts de janvier, per esempio, a cui aggiunge la data 16/01/2015 per dire della strage a Charlie Hebdo e al supermercato kosher, degli assassini, delle vittime e di chi resta. E necessariamente politico deve risultare, il contenuto di una raccolta che porta il titolo di Urbanités, se urbe non è altro che il corrispondente latino di polis e se politesse, oltre che sinonimo di urbanité, può rimandare per falsa, forse, ma suggestivamente pertinentissima etimologia, alla stessa polis. Con Urbanités, alle barbarie integraliste, l’autore sembra contrapporre, da una parte il ricorso all’urbanità dei comportamenti e dei modi che comprende anche le ricordate formule dubitativo-interrogative – caratteristica piuttosto della lingua inglese, dove seguono quasi in automatico l’esordio, che di quella francese –, dall’altra, una memoria arcaica che in Morts de janvier mette in relazione il Genesi “La voce del sangue di tuo fratello…” per negarne la meccanica e distorta interpretazione vendicativa dei fanatici di tutte le fedi, con l’accorata implorazione del laicissimo Villon. In fin dei conti, con Urbanités  Vegliante sembra fare appello ad una combinazione tutta pasoliniana di indignazione e di gentile, quasi materna, attenzione alle lucciole che, se risulta efficacissima nel denunciare il male, è anche capace di indicare al lettore una qualche via d’uscita, la possibilità di una convivenza se non amorevole, quanto meno civile.

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MORTI DI GENNAIO

Già dura la terra ai morti di gennaio
un poco intiepidisce fra le dita di giovani
giardiniere, d’angioli vegliardi che preparano
invisibile germogliare e loro tombe prudenti,
in dimora dell’appuntamento di ogni vivo.
Le madri si commuovono d’un segreto tacite.
Il sangue non grida sangue, oscena immagine
ai fratelli umani che dopo noi vivranno?

*

MORTS DE JANVIER

Déjà la terre dure aux morts de janvier
un peu tiédit sous les doigts de jeunes filles
jardineuses, d’anges vieillards préparant
la pousse invisible et leurs tombes prudentes,
en maison du rendez-vous de tout vivant.
Les mères s’émeuvent d’un secret tacites.
Le sang ne crie pas du sang, obscène image
aux frères humains qui après nous vivront.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).