Una vocazione alla solitudine

da | Gen 12, 2016

Questo contributo su Alibi conclude il dossier dedicato ad Elsa Morante, dall’incontro del 18 dicembre scorso presso la Casa Museo Alberto Moravia.

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L’opera di Elsa Morante ha sempre stimolato degli importanti dibattiti, sia tra i lettori che tra i critici. Tutti però – anche in ambiti di diversa estrazione ideologica o metodologica[1] – condividono il giudizio di György Lukács che la considera «uno dei massimi talenti di scrittore»[2] all’interno del canone contemporaneo.

La sua esperienza letteraria non si esaurisce nella prosa dei romanzi e dei racconti. Morante, infatti, anche se solo sporadicamente, ha tradotto e si è interessata di critica letteraria e d’arte e, naturalmente, è necessario ricordare il suo impegno per la poesia. I libri pubblicati sono Alibi (1958) e dieci anni dopo Il mondo salvato dai ragazzini. Può apparire un numero esiguo, ma che in realtà conferma la parsimonia che l’autore mantenne anche per la prosa. L’attenzione rivolta alla lirica è tuttavia molto più ampia e concreta, giacché anche in alcuni lavori in prosa vengono innestati dei versi. Si tratta delle seguenti poesie: Dedica per Anna ovvero Alla favola, Ai personaggi e Canto per il gatto Alvaro, incluse in Menzogna e sortilegio (1948) e poi accolte in Alibi con titoli nuovi (Alla favola; Ai personaggi; Canto per il gatto Alvaro); Dedica in L’isola di Arturo (1957) e poi in Alibi come L’isola di Arturo; Dedica in Lo scialle andaluso (1963). Questa scelta, oltre a essere potentemente simbolica, può essere intesa anche come una esplicita dichiarazione di poetica che sottolinea l’importanza del genere ed evidenzia il legame intrinseco tra i due generi di scrittura.

Alibi raccoglie 16 testi scritti tra il 1941 e il 1957 e fu pubblicato insieme a Croce e delizia di Sandro Penna e L’usignolo della Chiesa Cattolica di Pier Paolo Pasolini in una nuova collana di poesia curata da Nico Naldini per l’editore Longanesi.

Quando uscì il volumetto fu praticamente ignorato dalle istituzioni letterarie, così come più in generale è stato trascurato il ruolo di Morante come poeta. Eccezione a questa negligenza è costituita dai commenti di scrittori (Pasolini, Caproni, Pecora, Ginzburg, Bellezza[3]) e da quello di Giorgio Agamben – filosofo che predilige le tematiche estetiche ed è conoscitore dell’opera di Simone Weil (autore particolarmente caro anche a Morante) – che considera Alibi «uno dei grandi libri sulla [sic] poesia italiana del dopoguerra»[4]. Un’importante riscoperta in sede critica è stata avviata da Cesare Garboli, che individua questo libro come un importante spartiacque «nel percorso, o, meglio nella metamorfosi per cui si passa dalla prima Morante – quella di Menzogna e sortilegio e dell’Isola di Arturo – al narratore così inaspettato e così discusso della Storia e di Aracoeli»[5].

Il libro nel panorama contemporaneo rappresenta un esempio importante di quella produzione che con rigore si è distanziata sia dalla tradizione più recente della parola pura, preferendo alla poetica del ‘negativo’ di matrice montaliana una pratica ‘propositiva’, così come pure fecero Palazzeschi, Saba, Penna, Bertolucci e Caproni; creando quella comunità letteraria definita come «antinovecentesca»[6]. Anche se si tratta di autori amici, non si può parlare di una scuola, ma piuttosto di voci che con dimaniche e intenti differenti, pur non essendo programmaticamente ostile al main stream ermetico, ad esso, nel loro insieme, possono considerarsi speculare. Al contempo Alibi pare escludersi anche alla partecipazione delle officine neoavanguardistiche attive in quegli anni. In questa scelta personalissima Morante conferma una coerente vocazione alla solitudine, riscontrabile del resto anche nei romanzi.

Le poesie di Alibi si contraddistinguono dalla produzione coeva per un particolarissimo e scintillante carattere stilistico. La lingua prescelta dall’autore è di stampo realista: non in senso programmatico e ideologico, come accade in quegli anni (sia nella letteratura sia nel cinema), ma piuttosto come la «rappresentazione del reale quotidiano e autobiografico»[7]. Perciò l’italiano utilizzato è fortemente connesso ad elementi concreti e sensibili (colori, materiali, stoffe) e induce Morante a utilizzare una gamma amplissima di registri linguistici in una strategia retorica della mescolanza (comico e tragico, aulico e popolare, alto e basso) e che procede per immagini contrastanti (il mendico e il borsaiolo, duchi e sovrani, animali e stelle). Morante presenta in forma di racconto una notevole varietà di tipologie umane, così come avviene di riscontrare nel mondo dove viviamo anche noi. Gli esempi più certi di una architettura del genere sono da ricercarsi nella Commedia dantesca, in san Francesco, nella tradizione evangelica e, per aggiungere un referente che va al di là della letteratura, direi Caravaggio e, per certi rimandi all’infanzia, anche gli scugnizzi di Murillo.

Questa strategia che unisce in un’unica opera gli elementi contrastanti dell’ombra e della grazia[8] applica la metodologia del chiaro-scuro, già sperimentata dalla pratica barocca. Così, ad aggettivi e sostantivi che si riferiscono alla luce (splendore, firmamento, arcobaleno, lucente, Oriente, sole, diamante, accese, aureovestita, mattino) fanno da controcanto le tante espressioni notturne (la sera, oscuro compagno, chiude gli occhi, nascosta, neri futili giorni, sabbia nera, rosa notturna, notte nera). Ma a posizionare queste poesie entro la categoria estetica del Barocco contribuiscono anche altri dati altrettanto importanti e pertinenti quali sono la predilezione per l’ipotassi, l’iperbato (che accentua una eco alla sintassi latina: «a difficili amori io nacqui») e l’esuberanza degli aggettivi, sia per quantità sia per inventiva («la tua bocca è troppo scontrosa», «La folla aureovestita»). Per mantenere una sicura armonia della forma, tanto lusso letterario viene allora mitigato dalla leggerezza compositiva. Il metro è vario e aperto, le rime sono sostituite da assonanze, rime interne e una musica dal ritmo allegro e a volte, anche qui con evidenti contrasti, quasi patetico. Per queste ragioni ritmiche io sarei portato ad assimilare questi versi sciolti alla struttura semi chiusa dell’elegia: sia per la lunghezza di alcuni testi, ma soprattutto perché il suono che ne scaturisce alla loro lettura è quello che tra i latini veniva creato dall’accompagnamento del flauto: brioso in apparenza, ma pure profondamente malinconico («il mistero doloroso e il mistero gaudioso»).

A una tale varietà linguistica si contrappone l’unicità della tematica amorosa. In Alibi, difatti, l’amore è descritto ed espresso nelle sue diverse condizioni (felicità e scoraggiamento) e nelle sue forme più appariscenti: da quello erotico a quello di una maternità invertita («Il tuo corpo materno è il mio riposo»). Una tale simmetria compositiva contribuisce a fortificare quel delicatissimo equilibrio stilistico cui accennavo già sopra.

La storie qui rivelate, per quanto veritiere, vengono oscurate da una serie di soggetti narrativi che, in tutta evidenza, rappresentano esclusivamente dei miti. Elsa Morante non dice in modo chiaro chi sia il ragazzo amato, sebbene ne magnifichi il tempo della conoscenza («Beato l’istante | che mi sono innamorata di te»). Ad esempio, la poesia che dà il titolo alla raccolta viene scritta nel 1955 e probabilmente è ispirata dall’amore per il regista Luchino Visconti[9]. Ciononostante la celebrazione dell’amato si esprime entro dei riferimenti puramente letterari («Giulietta? o sei Teodora? | ti chiami Artù? o Niso ti chiami?»). Questi personaggi, queste maschere costituiscono gli ‘alibi’ dell’autore. Il lemma, però, non va inteso nel suo uso corrente di sostantivo, ma nella sua etimologia avverbiale («in altro luogo»). Morante non presenta, dunque, una difesa o dei pretesti alla sua esperienza scandalosa (l’adulterio per sé e l’omosessualità per Visconti: «La tua grazia tramuta | in un vanto lo scandalo che ti cinge») ma sposta gli avvenimenti in un altrove dove i riferimenti temporali e di genere (maschile/femminile) possono essere invertiti. Perciò il modo più efficace per mantenere segreta l’identità dell’amato, pare essere quello di uno smarrimento caotico ma colto, in una illusione libresca delle cose e dei fatti biografici, tanto il nome «serve solo per giocare».

Il gioco, tuttavia, si fa estremamente serio e complesso quando si analizza il primo verso della poesia: «Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!». La sentenza di tipo sapienziale si introduce da una parte nell’ambito del Neoplatonismo, dove l’esperienza amorosa è utile all’apprendimento del Buono e del Bello, ma dall’altra si aggrega alla mistica secentesca (Spinoza[10]) e quella contemporanea di Rebora, che si esprime essenzialmente negli stessi termini[11].

Chi non ama, dunque, pare essere destinato (condannato?) a una miseria intellettuale che lo costringe all’esclusione civile e porta il poeta alla sua commiserazione.

I greci conoscono tre parole per indicare l’amore. Esse sono: «eros» (l’amor profano), «philia» (amore di amicizia) e «agape» (l’amor sacro). Morante nel suo libro riesce a scrivere di ogni forma amorosa, ogni sua manifestazione ogni suo oggetto. L’eros più sofferto e materiale, quello per la bellezza della natura, per il fanciullo (amante e amato), per la poesia e i poeti. Ma se ognuno di questi seduttori è anonimo e celato da nomi fantastici e acronimi (l’ultima poesia è dedicata a Sandro Penna) c’è un solo amore che supera tutti, ed è quello infallibile e duraturo per i bellissimi gatti. Sono loro a meritarsi una biografia accurata e documentata, dalle origini alle discendenze. Ma anche qui c’è l’inganno della letteratura. E così appare evidente che i ritratti in realtà altro non sono che delle autobiografie: «E t’ero uguale! | Uguale! Ricordi, tu, | arrogante mestizia?» (Canto per il gatto Alvaro); e oltre «io misero cacciatore di terrestri unghie armato!» (Il gatto all’uccellino).

Testamenti che confessano, oltre a quello che abbiamo già detto, una suprema e dignitosa solitudine.

(Questo testo è la versione in italiano della postfazione inclusa nell’edizione olandese di Alibi, a cura di G. Cascio, trad. di J. van der Haar, Amsterdam, Serena Libri, 2012, pp. 73-81. Poi in Giuliana Zagra (a cura di), Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante, Roma, Edizioni Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 2012, pp. 119-122.)

 


[1] Cfr. Fortuna critica, in E. Morante, Opere, 2 voll., a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Milano, Mondadori, 1988-1990, II, pp. 1651-1681.

[2] G. Lukács a J. Gawronski, in «Giorno», 27 agosto 1961.

[3] Per un regesto degli studi su Alibi rimando all’apparato in E. Morante, Alibi, Amsterdam, Serena Libri, 2012, pp. 91-94.

[4] G. Agamben, Il congedo della tragedia, in «Reporter», 7-8 dicembre 1985, p. 22; ora in in AA.VV, Festa per Elsa, a cura di G. Fofi e A. Sofri, Palermo, Sellerio, 2011, p. 57.

[5] C. Garboli, Corpo e finzione. Le poesie di Alibi, in AA.VV., Per Elsa Morante, Milano, Linea d’ombra, 1993, pp. 89-90.

[6] Riprendo il concetto di «Antinovecento» da L. Baldacci che lo suggerisce già in Debenedetti e la critica ʽosmoticaʼ, in «L’Approdo letterario», XIII, 39, n.s., luglio-settembre 1967, pp. 19-22; Pasolini ne parlava pure in rapporto alla prosa; cfr. P.P. Pasolini, La confusione degli stili (1957), in Id., Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 2009, p. 366.

[7] A. Moravia, in A. Moravia-A. Elkann, Vita di Moravia (1990), Milano, Bompiani, 2007, p. 159.

[8] I termini sono gli stessi che nei prossimi anni coincideranno con la semantica acquisita attraverso Simone Weil di «pesanteur» e la «grâce»; cfr. S. Weil, La Pesanteur et la Grâce (1940-1942), Paris, Plon, 1947. La traduzione del testo in italiano è del ’51, dunque negli anni in cui Alibi è in piena maturazione ed è compiuta da Franco Fortini, il poeta-traduttore, familiare al circolo Einaudi (l’editore di Morante) e all’amico comune Pasolini: S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Edizioni di Comunità, 1951.

[9] Pubblicata in anteprima in «Tempo presente», III, 1, 1958, pp. 40-42.

[10] Si ricordi che ne La canzone degli F. P. e degli I. M. (1967), ora in Il mondo salvato dai ragazzini, Spinoza è in cima alla Croce dei «Felici Pochi».

[11] «E per l’amante cuor nulla è mistero»: C. Rèbora, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1999, p. 57, v. 24.


Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).