Una madre non angelicata. Su Elio Pecora

da | Mag 31, 2013

Tempo fa ho avuto tra le mani le carte manoscritte di questo libro, e ricordo che già allora dovetti pensare alla Palinodia al marchese Gino Capponi. Lì Leopardi scrive: «Il proprio petto | Esplorar che ti val? Materia al canto | Non cercar dentro te». Sappiamo bene che il consiglio non fu mai preso veramente in considerazione, tant’è che Leopardi non superò mai la siepe e ai viaggi stellari preferì sempre quelli dentro il petto. È il Pastore errante a darcene conferma. A me pare che nella poesia di Pecora, in generale ma anche per questo nuovo libro, si possa individuare una condivisione di approccio all’atto lirico: sia come strategia (la poesia come riflessione) che come escatologia della prassi lirica (il ragionamento sul significato dell’esistenza).

Per Pecora s’è parlato spesso di alcune derivazioni letterarie – e qui non serve rammentarle – che io non sempre ho condiviso. Propongo invece che Leopardi, e non solo quello degli Idilli ma anche quello più riflessivo dei Pensieri, sia da considerare come un punto di riferimento di cui sempre ha tenuto conto e, conseguentemente, di cui noi dobbiamo tenere conto, almeno se vogliamo interpretare questi versi in modo utile. Può suscitare qualche dubbio questa connessione alla prosa, considerando che qui si vuole parlare di poesia, ma la proposta non è così peregrina quando si considera che il mio giudizio si basa soprattutto su alcune similitudini di tono, di musica o, usando una terminologia più tecnica, di scelte stilistiche: «Che n’è di quella di un tempo? | Dov’è mai stata? ma quando? | A sera chiamava la luna | chiara, assorta sugli orti» (p. 17). Così inizia il libro di Pecora, e da questo incipit non solo l’immagine, resa invero con una certa aristocratica grazia, ci fa pensare a Leopardi, ma, cosa ben più importante, ci fa intuire da subito il ritmo e la prosodia: sia per l’intonazione che per la durata del verso, di tutto il poemetto. L’apparato metrico, difatti, per quanto sia libero, predilige versi più brevi dell’endecasillabo e in particolare tendono a imitare il settenario. Questo metro breve è quello che più si adatta al ritmo della canzonetta, composizione che esprime la gioia di poter vivere, per quanto espressa in un modus meridionalmente malinconico, se non «torvo» (p. 21). Questa considerazione acclara perché il canto della madre, e quello dello stesso poeta, non vadano considerati come una metafora (!), ma piuttosto come l’allegoria del divenire, del fieri che noi chiamiamo esistenza. Vediamo come.

La riflessione sulla morte si risolve evidentemente entro i limiti propri dell’epicedio, ma i frammenti che il poeta ci propone non costituiscono una forma di consólo, non hanno la pesantezza del lamento. A me pare piuttosto che gli eventi siano narrati in modo cortese: come in una chansons de geste quotidiani, ma non per questo meno degni di nota. E allora, proprio come la madre mai ha dimenticato di accompagnare i gesti/gesta con la sua voce, ora è lei a essere cantata. Il soggetto diviene oggetto. Tuttavia, affinché la metamorfosi sia definitiva è necessario capacitarsi che i ruoli si sono invertiti. Il figlio acconsente «di essere il padre, il compagno, | la guida sicura» (p. 39), mentre la madre è quasi una «figlia del figlio», sottolineando, però, che il riferimento a Dante (Par., XXXIII, 1) è fatto con assoluta riverenza. In questo nuovo status da adulto, Elio-figlio intende come tutto si risolva nella contemplazione dei rumori della vita, mentre a Pecora-poeta spetta il compito di annotarla, l’esistenza. Ma quali sono le dinamiche di una tale presa di coscienza, di quella che Contini definisce la gnosi? Pecora apprende molto dalla madre, la donna che, invece, pare conoscere la propria condizione e il proprio posto nel mondo in modo naturale. Apprendere, difatti, è un’azione che implica una scelta razionale, mentre per lei s’era trattato di una intuizione (come per Pascale). Quello che sa è che la Storia si manifesta meglio nel ritornello di una canzonetta.

Così Pecora, ma a modo suo, in forme più sofisticate, ci spiega la sua idea privatissima dell’amore, che altro non è che la volontà di seguire il «motivetto» della sua vita: «Lei recitò dalle monache, | in canto, la Vecchia Zelinda […] Cantò sull’organo in chiesa | l’intera messa a Natale» (p. 25). In realtà questa Weltanschauung è condivisa da altri saggi del villaggio-mondo, e nel poemetto pare che cantino un po’ tutti: «Che giorno fu del Diciotto | che la maestra intonò la canzone del Piave?» (p. 23). Ecco di nuovo la vicinanza a Leopardi. Mi spiego. Se il tema della morte e della memoria vengono affrontati e risolti dai due poeti in modo diverso (Pecora è un poeta realista, ma non materialista), quello che coincide è ancora il tono della scrittura, la consapevolezza che il ragionamento sul tema vada svolto con serenità, e che vada espresso esclusivamente nei caratteri ‘classici’ di una scrittura il più possibile calibrata. Capire lo stile di questo testo di Pecora, significa dunque capirne anche le finalità, che risiedono nel tentativo di interpretare gli avvenimenti, sia che si tratti di quelli personali: «Nacque morta la figlia | gli occhi azzurri del padre» (p. 27), che di quelli condivisi con il resto dell’umanità: «in cucina. La radio | disse che Mussolini | non era più capo e padrone» (p. 30). Questa mescolanza, ma tutta incentrata intorno al tema della morte, ha come obiettivo, provo a proporre, quello di trasmettere al lettore la convinzione che la si possa comprendere (la morte) quando, in senso lirico, la si canta. La poesia, dunque, non è un momento di consolazione, che se così fosse, sarebbe un atto fastidiosissimamente autoreferenziale e davvero poco interessante per chiunque. La poesia è gnosi attraverso lo strumentario che le compete: la parola, la scelta aggettivale, la declinazione dei verbi. Capisco che il mio discorso può apparire radicale; ma credo sia necessario affrontarlo in questo modo perché l’idea di stile non è ancora stata compresa integralmente, ché tale parola evoca in molti l’idea di affari frivoli e magari unutili. Ci si è occupati ormai per troppo tempo dei contesti (quelli storici, politici, religiosi, e più recentemente quelli di razza, di genere…) per spiegare la letteratura. Ma perché non ricordarsi che Monet, ottantenne e durante la guerra, era interessato solamente a scoprire lo stile perfetto per dipingere le sue ninfee? Certo, sono consapevole che la stilistica non è una pratica critica che può applicarsi a tutti gli scritti, ma io sono fortemente convinto che il discorso sulla poesia dovrebbe soffermarsi – non dico in modo esclusivo ma certamente prioritario – sulla lingua di un poeta come lo strumento per comprendere il mondo. Lo stile dice Contini è «il modo che un autore ha di conosere le cose.» e, perciò, continua «Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica»[1]. L’autorevolezza di questa citazione mi serve a sostenere la tesi che con Nel tempo della madre, ma ripeto: questo vale anche per gli altri suoi libri, Pecora dimostri come i suoi «pensieri» sulla madre (tema tra l’altro già affrontato in Nove poesie per la madre) si chiariscano affrontandoli con una certa semplicità espositiva. La grammatica, sia per quanto riguarda il lessico che la sintassi, è difatti particolarmente sobria. Pecora preferisce un uso standard della lingua, accompagnata da un massiccio ricorso al passato remoto.

La morte è dunque espressa nella perfezione (qui nel significato etimologico di compiutezza) della scelta verbale, mentre il vocabolario quotidiano, basato in buona parte nell’enunciazione di oggetti, trasmette l’idea della solidità di quella vita e della sua manifestazione. Non a caso la radio è uno degli oggetti più importanti rappresentati, perché da quella scatola arrivano sia la musica che le notizie della quotidinità. Anche la storia universale, che è l’altro grande tema del libro, viene detta in modo lieve. Anche questo non vuol dire che chi scrive della guerra, degli abbandoni dell’emigrazione, della maternità ferita, consideri certi temi con leggerezza. È proprio il contario, e cioè che l’uso di un registro medio, oraziano, è la chiave di lettura per capire (ecco la gnosi di cui diceva Contini), quale sia il valore da dare agli avvenimenti, alle cose, alla memoria delle cose. Per rendere tutto ciò reale, sincero, Pecora usa volentieri il flash-back, un metodo narrativo che in prosa è stato messo in atto già da Svevo e Virgina Woolf. Anche questi sono due autori cui mi piace accostare Pecora più di altri. Durante la lettura del componimento vediamo come Pecora s’abbandoni a un flusso interiore per cui, sebbene il racconto sia srutturato in senso cronologico, gli consente spesso di fare dei passi indietro, a volte anche potenti, come quando si accenna a canzoni ormai passate di moda. Ecco quindi che lo scarto temporale si conforma all’attenta corrispondenza tra l’esigenza della diegesi narrativa, e l’abbandono alla lingua discorsiva, piana.

Concludo soffermandomi ancora su un punto. Mi riferisco all’impressione che ho avuto di una, amorevole, discordanza tra il titolo e i fatti realmente esposti. Se è vero che la madre sia il soggetto principale di questa commedia umana, altrettanto importanti sono gli ambienti, gli orti, i giardini, le camere, la casa che è «regno sicuro» (p. 22), le città, e gli altri personaggi. Tra questi risalta il padre, distante: «L’uomo dagli occhi azzurri | andava per mare, | ritornava distratto» (p. 29), ma sempre tenuto a mente grazie a «i piatti e le tazze dipinti | col Fusi Yama e le geishe» (p. 26). Il marito è anche padre, e Pecora ce ne dà un ritratto innamorato. Il libro è dunque complesso, forse anche impegnativo, ma mai, ripeto mai, appesantito da inutili tristezze di maniera. Notare l’allegria che invade chi si rende consapevole dell’utilità del canto, è piuttosto il miglior commento a questo libro: sia del suo autore che della figlia-sorella-moglie-madre-amica che a suo tempo, con amore, «Tramutava le fiabe» (p. 29). Lo faceva certo per il ragazzo, ma anche per se stessa. In realtà si preparava alla morte, e per farlo già allora «Andava per luoghi remoti, | inaccessibili, vuoti, | dietro il suo canto» (ibidem). Da quelle favole, da quelle bugie che sono state le sue canzonette, il figlio deve capire che la madre l’ha amato.


[1] G. Contini, Una lettura su Michelangelo (1937), ora in Esercizî di lettura, Torino, Einaudi, 1974, p. 243.

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).