Un pugno che si fa resistenza

da | Nov 20, 2018

Poesie di Iossif Ventura, nelle traduzioni di di Helene Paraskeva e Mia Lecomte.

La grande parata

Ci incontriamo domenica hai detto
Alla grande parata

Meno dieci di temperatura
Per Manhattan un’ora di strada
Il Guggenheim era chiuso
Un dipinto di Leger
Nella sala vuota

Ci incontriamo domenica ha detto lei
(mi sembrava parlasse)

Silenzio nel cimitero.

Lo sentiva:
Lei si stava avvicinando avvolta nel mantello bianco

Lui avrebbe tolto la maschera.

Il fantasma

I

a Sergio Badilla Castillo

Sono nato lo stesso giorno
di Galileo disse
Ho carisma
Sono al centro dell’universo
E tu
Come ti alzasti fra le nuvole
ombra dell’albero che sei
un fantasma dai mille volti
amore a pioggia nelle strade
e poi nel deserto di Atacama
minerale e sale.

Ah Sergio
il sogno scivola sul ghiaccio
si perde nelle Ande
e la tua testa
sospesa appena a un filo
pende pesante
sulle case di Santiago

S’inclina l’albero cade
resta lembo stracciato.

Di Carmen Maria Teresa

II

Mi osservavi ritto come un menhir
flusso d’accecanti giochi del Bengala
poi ti spegnevi nel fuoco.
Con quale passione allora
il lupo ti strappava il cuore
quali spasmi
fulminavano il tuo corpo
Chimera di Echidna e di Tifone
Le Arpie ti hanno accerchiato preda d’amore
nella città di Santiago
per cercare piacere
Non conosco ciò che mi intrappola
e il paradiso
che favola

Per qualche briciola mi vendo
Si flette il tempo
quando si incontrano coloro che furono
e gli altri che non
Si flette ciò che abbiamo disegnato
Seppelliamo le immagini nelle stanze buie
Sigilliamo gli occhi
Si spengono le torce
diventa cacciatore l’uomo cacciatore
finché non attraversa le porte cornee del terrore
e raggiunge l’Essenza
Solo sono……… poeta

Nessuno è morto per me

III

Note
Questa poesia è stata scritta quando grida feline rabbuiarono il cielo e iniziò a piovere.

I versi in corsivo sono tratti dal libro di Herman Broch Morte di Virgilio (vv.146,299), tradotto da Giorgio Chendrotìs.

Non è che Sergio lo chiamammo solo cargo di abbracci, incrocio di viali, supermercato di sentimenti e molto altro ancora. Era stato narrazione, la sua rotondità rafforzava le oscillazioni, il bisogno di carezze, della ninna nanna uterina.

Ciò che il poeta ha insinuato sulla morte è falso.

Quando scriveva questi versi una giostra girava sul suo asse e infiammava i corpi delle ragazze.

Si potrebbe dire che il panama è quel cappello che si porta con l’orgoglio latino dell’amante incamminato verso la morte.

Pulsar

Ipotizziamo un lago
in un universo luminoso
Ipotizziamo
un foro nella galassia
Lui
tenderebbe le braccia
mentre rema
disegnerebbe stelle
mentre ride
Lei
misto coacervo di passione
turbamento e timore
come un dipinto
con la luce accesa
fluttuante
nel sogno di un astronauta

Immaginiamo
un’esplosione
l’inesistenza
un pulsar nel cielo
criniera di un galoppante cavallo

Nel paesaggio lontano
non è la barca che
sembra pronta
Dietro al sogno
un altro sogno si nasconde
brillante segno della galassia
si dilata e dilata

Non era lui a guardare
non è lei che ha amato
non è quello che fu proiettato
su uno schermo celeste là
allo sfiorare del segno
tutto si perde
anche l’essenza va spegnendosi
quark sparsi
neutroni e leptoni
ruotano
Sono narrazione e numeri
narrazione perfino
di ciò che non è

Narrazione e assenza

Il Postino

a Ortensia

Bussano alla sua porta
il colpo risuona come un do basso.
È il postino, ha gridato
con voce impercettibile.
D’un lato simile a Mercurio
dall’altro lo si direbbe un angelo,
Sarà Michele, sarà Thot.
Tiene in mano dei fiori
d’Ortensia,
il suo nome.

Bacio assassino del buio
ali di colomba
respiro di pioggia
e silenzio.
Ecco qua
tutto ciò che le porta.
I figli morti
Mimis e Leòn
flusso di consonanti
di pianti e rantoli.
La madre era un fiore.
Nell’Ade nessuno lo ricorda.
Quale defunto le renderà omaggio?

Diverrà un segno nel cielo
insegna come luna.
Camminerà nella sua luce
e là, nel giardino
di un aldilà inaccessibile
sarà ornamento all’albero
più alto.

A volte, la primavera è come carta per sigarette dai colori del cielo. Il sole equilibrista, asciuga i marmi, impietrisce il terriccio. Tutti i cunicoli sotto terra svelano la polvere della galassia, lasciano udire il bisbiglio delle stelle. A volte, quando i temporali appesantiscono l’atmosfera, certi bagliori illuminano l’incrociarsi delle anime.

La Piazza

Chi sono costoro che avanzano a mezzogiorno?
Perché si sente il rullio dei tamburi?
Cosa fanno le colombe sulle insegne ondeggianti ?
Quali sono le parole sparse a tingere l’aria?
La piazza traspira umida
Volti si riflettono tra i fumi
e un bambino
un bambino che singhiozza
il cuore sanguinante
stringe l’avvenire in un pugno
che si fa resistenza

Il lastrico respira
su questa piazza
mille respiri
mille respiri rimangono lì
radicati
alzano un orizzonte di tempesta

È duro l’inverno quando
fischia il vento pianti e abbandono
Nelle fiamme si deprime la speranza
fioriscono graffiti sui muri
l’Angelo non ha portato il pane alla vedova
le gole sotterrano le speranze

Affondiamo nella palude senza salvatore
Arresa nostra madre ad una vita persa
cuore coccio di scarto

alla ricerca del codice avanziamo
Ci dicevano voi vincerete quando vi arrenderete
Ci siamo arresi e abbiamo trovato la cenere
Hanno teso trappole in uno scenario di prosperità
con arte ci hanno insegnato l’iniquità
Non siamo altro che un coccio di scarto
anime defunte dimenticate

Che non ne gioiscano i miei nemici
quelli che mi odiano senza motivo smettano di ammiccare!
Che smettano di parlare, di dire
Abbiamo visto ciò che avete fatto
Nulla mi generò
Torno al nulla
Sono un albero piantato
Accanto a una corrente d’acqua
Come paglia sono disperso
L’astuzia mi ha già scavato la tomba

Mendicante nel presente
Tendo la mano al nulla
Oltre la città seduta, solitaria,
Come una vedova
Ridotta in servitù

Ah città oscura
Che soffochi nel fumo
La bellezza, un narciso
Prostituta nei caffè
E la sua carne marcisce
Sotto tutto quel trucco

La piazza traspira umida
I volti come ombre,
Ne vediamo il pallido riflesso
Tornano e ritornano
Giorgio, Paolo, Stratis
Il terrore è lampo
Fulmine che tiranneggia

Tornano e ritornano
Ecco con pugni e calci!
Costas, Nicos, Lucàs
Le facce insanguinate!
È l’ottobre della semina
Tutto ciò che in versi fu scritto
Servirà come testimonianza, deposizione
Voce registrata o trascritta

Albeggia
Aspettiamo il mietitore.

Chi sono costoro che avanzano a mezzogiorno?
Perché si sente il rullio dei tamburi?

Immagine: Carmen Herrera, New York.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).