Un letto di sassi

da | Lug 8, 2014

di Franca Mancinelli

Ora stai stringendo una maniglia. Le dita le ho già perse e quello che abbracciavi ora è una porta. Ferma un passo davanti a te. Devi aprirla e andare. Non capisci. Non vedi che non vivono animali in questa casa? Il mio cane rubava dai vicini. Cibo, come un randagio; non sarebbe morto di fame, certo, ma l’ho lasciato a degli amici tempo fa. E tu che quasi mi hai mangiato dalle mani come un cucciolo non ancora svezzato. Ti ha spogliato troppo presto la mia voce, ho dovuto vestirti d’acqua e cingerti al collo, o defluivi in un gorgo di capelli nella vasca. Ti ha portato la paura fino a me. Non potevo saperlo dall’inizio. Leggevo solo il passo silenzioso che ti aveva consegnata, con il tuo caldo carico di peso. Lo sapevi dove stavamo andando. Per questo appena mi allontanava un respiro, ti nascondevi. Sperando in una mimesi. Di uscire dalle tracce. Di rimanere confusa nella sedia. Ma non eri il bersaglio. Tu, così approssimata, così lontana da te stessa da non ricordare una donna; forse una forma umana sull’asfalto, in gesso bianco. Scampata alla morte, la contiene nella piega di un braccio, nella tensione spezzata di una gamba. Così ti ho vista nella luce della prima mattina, dormire. La persiana rotta non l’aggiusto, mi piace immaginare questo sud che si capovolge in un lontanissimo nord d’Europa. Ma è una luce più tiepida; ora è un laccio leggero alle caviglie. Le ore sono ancora poche, soltanto sei: è appena cresciuto il giorno, non c’è da temere; ma presto ruggirà come una belva. Finché non torniamo in piedi siamo salvi. Poi dovrò caricarti sulle spalle, e ripartire alla volta del lavandino, del corridoio, secondo la strada che ci aspetta.

Non eri il bersaglio… Le cose accadono semplicemente. Altri pesci si aggiravano lenti, sfiorandosi, nella piccola vasca del ristorante. Chi ha puntato il dito nel vetro ci ha stretti nello sguardo finché non siamo stati estratti. Ora sta a noi giocare la parte, una parte diversa e fraterna. Perché sono io che devo portarti, in cammino dal letto, per questi tre giorni, con la pressione del tuo peso che trema ad ogni mia scossa, sulle mie spalle. Lo capisco il silenzio, a cos’altro potevi affidarti? Ma ogni tanto parlavi nelle soste del viaggio: mi arrivava il suono lontano di uno scorrere d’acqua, che non traduceva interamente i riflessi di gioia e le ombre. Chiudevo le orecchie nel sonno e ti accarezzavo di nuovo un piede, una mano che lasciavi dondolare nel vuoto. Se avessi parlato di più non avrei potuto ascoltarti. Dovevo ricordare la strada, tracciare di nuovo nella mente il cammino o ti avrei lasciato cadere ad un tratto su una roccia, prima del tempo. Non devi rimproverarti il silenzio. Ti contenevi come un fascio di legna, io con le mani ti aiutavo a non perderti, a non abbandonare la stretta prima di arrivare nel luogo deciso. Un ago della mia voce l’aveva segnato appena ti ho visto: fra tre giorni, arriveremo fra tre giorni. Ma non eri il bersaglio, tu… Se eri già ferita, la colpa è del tuo affidarti. In pochi passi di sonnambula hai spezzato la distanza. Io desideravo la tua sagoma, la tua fragilità. Sai quanta inconsapevolezza è necessaria perché una volontà si compia esattamente. Mi ero concentrato in questa leggerezza di piombo, calibravo e dondolavo internamente. Ma tu ad un tratto hai oltrepassato la linea, come per ribadire che esistevi, che c’eri, tremante fuori della sagoma, in una forma diversa. O forse non ti eri affidata nel profondo, sussultavi nella tua fede bambina, per diventare altro. Ma non c’è tempo per crescere in questi giorni. E tu non puoi crescere oltre. Sono il padre che ti porta e la strada si fa sempre più in salita. È buio, il tuo peso inizia a curvarmi la schiena, a piegarmi le ginocchia. Non agitarti, non parlare, continua a sentire la mia stretta, le mie mani che ci sono.
Siamo arrivati. Non piangere, non sporgerti dalla rupe. Aspetta qui, seduta nell’erba umida.
Una volta un ragazzo è stato salvato, ma i miracoli non avvengono sempre. Io poi non ci credo.
Non guardarmi così. Ti abbraccio ora un’ultima volta.
Non eri tu il bersaglio. Ci hanno scelti. Hanno deciso così.

***

Spazzare mi piace. Puoi lasciarti cadere nei gesti e dimenticare tutto. Anche lavare i piatti mi piace. Avere le mani bagnate. Tu ora mi aiuti un po’, così facciamo prima. Hai capito che presto devi andare. Hai capito come? Guarda la polvere che si era accumulata, guarda queste macchie come spariscono.

Poi mi fai un massaggio sul collo. Qui, dove i piccoli gatti vengono sollevati dalle madri. Hai visto come piegano la schiena e si consegnano con le zampe al vuoto. Un ponte che non poggia su niente, un arco trasportato. Il peso concentrato negli occhi, consapevoli, mentre tutto il corpo è leggero. È questo che devi imparare. Guardami bene. Qualcosa mi sta portando da un luogo a un altro. E tu non puoi esserci.

***

È inutile che ti nascondi negli angoli della casa. Anche così sottile, attaccata alla parete o mimetizzata al pavimento, ti stanerei.
Vedi che ti ho trovata. Ecco dove sei. In un tremore appena percettibile, da minuscole antenne sembri avvertire quello che sta per accadere. Non posso schiacciarti. Non temere, non ne sono capace. Ti avvicino le mani perché, disorientata, nei tuoi movimenti minimi, tu possa lentamente salire su un mio dito ed essere trasportata fuori.
Non c’è più posto qui. Ti ho detto quale legge governa la mia vita: fuggire la pressione. I miei progetti, gli altri, tutto questo mondo che mi lega al collo e mi trascina come un cane zoppo. E io che voglio soltanto restare in casa, nel silenzio. Liberare le immagini intrappolate negli occhi, unire finalmente le sillabe come vorrei. Te l’ho detto piangendo e poi addormentandomi sul morbido che portano le tue ginocchia. Ma forse ti eri protetta le orecchie restando a lungo sottacqua ieri, vicino agli scogli. Non avevi ancora capito che la legge comprende anche te: non ci sono eccezioni o attenuanti. È la purezza del vuoto che cerco. La pressione esercitata da un corpo, anche dal tuo, mi toglie il respiro.

***

Dice la vasca, andiamo nella vasca. È così che si uccidono i bambini. Le madri non se ne accorgono nemmeno. L’acqua uscita da loro in uno strappo, è arrivata a riempire un bacile, un lavandino, un lago. Superfici quiete che non contengono niente, aspettano qualcosa. Te lo chiedono allungandoti il viso in un riflesso mostruoso. Tagliandoti le braccia nella brezza.
Piangevano i bambini, strideva senza fine qualcosa che stava per avvenire, che era avvenuto. Così si inquietano gli animali, strappano la catena, battono le sbarre, prima che si scateni un terremoto. Poi, ad un tratto, il pianto si ferma: fluttuanti nel silenzio, gli occhi a catturare il movimento continuo di luce. Basta una mano a tenerli, una mano che leggermente prema sul petto, per non farli risorgere, per non farli rinascere più.
Una svolta, ed eravamo nel cuore della foresta. Più neri del buio i rami si contorcevano tra le foglie, salivano coprendo il cielo. «Hai un accendino?». E sei scomparso. Sei tornato e mi hai guidato fra i tronchi, fino a un luogo dove si apriva una piccola vasca. Era vuota. Hai acceso tre candele e non hai detto più niente.
Per questo fuori dal bosco mi avevi accarezzato la testa. Più a lungo, come dovessi dimenticare qualcosa. Un brodo caldo ti scendeva nel corpo, si mescolava a pezzetti di me. Avrei dovuto rimanere lì, a un lato della strada, accucciata dietro alla ciotola con un pezzo di cartone. Eppure avevo camminato. Sui miei piedi ti seguivo, ti avevo seguito fino alla soglia. La vasca si riempiva di serpi, di vermi e di tutte le zampe che brulicavano dal tuo petto peloso.
Andiamo a letto, ho detto appena ho potuto parlare di nuovo.

I capelli no, non voglio lavarli. Fuori dalla vasca, in piedi, nell’accappatoio, mi versi acqua sulla schiena. Inarcata sulle ginocchia piegate, le braccia tese, dondolando appena, in un precario equilibrio. Una tua mano ha il sapone che cancella gli odori e le tracce. L’altra regge l’acqua che torna a riavvolgermi. Tiepida, dentro le fasce che stringevano le madri. Trattenendo il tremore dei gesti, liberando soltanto i movimenti del collo. La testa che può voltarsi da un lato e dall’altro. Gli occhi che si possono aprire e richiudere. La bocca che ti può chiamare, che può gridare, piangere, e tornare a dormire.

***

Dormiamo nel sangue della partenza. Dormiamo a un giorno di addio. Ma di nuovo qualcosa mi sveglia per prima e ti ritrovo affondato in te stesso, in un pozzo che non mi contiene. Così tu cadi davvero nel sonno e continui a capofitto a precipitare, mentre io ci scivolo lentamente, dopo essermi aggrappata e a lungo assicurata alla tua banchina. Mi allontano per un breve tratto, senza perdere alle spalle l’arco disteso dell’orizzonte. Respira. Sono le onde del mare che entrano ed escono da casa tua. Gli ospiti dell’estate che accogli nella stanza accanto, nei letti che restano sempre, perché la casa è più grande di te, è una casa per una famiglia che si compone e scompone, tra richiami e gridi, voli e ritorni improvvisi. Nell’inverno e per lunghi momenti deserta, poi, nella corrente della sera, d’improvviso affollata da una colonia di gabbiani. L’uno accanto all’altro cerchiano un’isola, un luogo prescelto nella rovina per ragioni del tutto oscure.
Resto ad ascoltare il mare nel tuo respiro e aspetto che la corrente riaffiori. Tolgo spine dal corpo scrivendo ai bordi del letto, brevi frasi che bruciano subito. In viaggio ho visto campi di stoppie annerirsi a un margine di fuoco. Che le ceneri nutrano, dicono alcuni, altri che è male distruggere ogni cosa che vive. Se ti sveglia un sottile crepitare di fiamme sono io che lentamente avanzo. Brucio stecche appuntite, quello che resta di una mietitura. Ma tu non ascolti. Di questo nero che si avvicina senti forse soltanto un voltare di pagine. Il letto è pieno di sangue e tu dormi. Dormi nel sangue mio.

Tutto il giorno non parlo. Se parlo si deforma il viso. La bocca, una piega spaventosa. Cerco di camuffarla ma lo sento: ho già i tratti tumefatti. Tu nascondi nel tenero delle labbra, avvolgi di carezze. La partenza.
Devo guardare i tuoi occhi chiusi.
Si sta accorciando il respiro. Stai risalendo dal pozzo. Sei qui. Mi ritrovi voltata che segno la paura e le belve sulla parete della nostra caverna. E subito armato ti tendi per liberare il grido. Un grido che trapassa il soffitto, che fa crollare il cielo sulla terra. Ti attraversa una crepa. Un lampo. E piovono punte di freccia, grandi gocce di pioggia.

***

Cose che non puoi fare solo come questa: piegare le lenzuola. Consegna due angoli alle mie dita. E si tenderà nell’aria un cielo nostro, un sipario alzato e ridisceso sul viso. Ora bisogna flettere insieme, bruscamente, le braccia, in un’onda cancellare le pieghe. Più volte, lasciando che la nostra vela si gonfi e si svuoti nel vento. E navigare così, da questa lontananza che crea e muove ogni cosa.
E ancora prenderò un lato, mi allontanerò, e tornerò a renderlo. Finché tutto si chiude nella misura decisa, nella forma che vuole un cassetto.

***

Si è aperta una vena d’acqua nella fronte. Esce dagli occhi. Lentamente. Devo masticare in quest’ora. Nutrirmi contro me stessa. Contro la faglia. E questa corrente che preme e rovina. Cercava sbocco. Finalmente ha trovato.
Mangia questo cibo che dissolve in poltiglia. Porta ancora saliva. Versa lacrime e mangia. Spalanca la bocca: non ti contiene. Mostra l’impasto orribile che ci forma.

***

Non scrivo, non chiamo. Recupero forze. Ogni giorno. Viva, finalmente difesa. Le braccia a reggere questa barriera. Sei già stata travolta. È tardi. Ma il tempo continua. Si addensa altra aria al confine.

I tuoi occhi neri, oggi hanno il colore del mare. Ti ho tagliato i capelli e la barba. Non ti assomiglia più la foto all’entrata di casa. Sto lasciando scorrere la tua voce tra gli alberi.

La mattina siedo indolenzita alla finestra. La notte precipito in un torrente secco, in un letto di ciottoli e sassi. Chilometri senza una foce. Chilometri che spogliano di foglie e di rami, che scorticano. Fino alla chiara durezza che aspetti.

settembre 2012

 (Un’anticipazione di Un letto di sassi è apparsa, per frammenti, nella rivista «Argo», n. 18, H2O, 2013 e interamente in «Punto. Almanacco della poesia italiana», n. 3, 2013.)

Immagine: James Casebere, Yellow Hallway #2, 2001.