Tutte le poesie di Milo De Angelis

da | Giu 13, 2017

In occasione dell’uscita del volume che raccoglie tutte le poesie di Milo De Angelis dal 1969 al 2015, con un saggio di Stefano Verdino (Mondadori, 2017), pubblichiamo alcuni inediti. Precede le poesie una nota di presentazione d’autore.

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Giovedì 10 novembre 2016 abbiamo festeggiato alla Casa della Poesia di Milano il quarantesimo compleanno di Somiglianze e l’amico Angelo Lumelli ha voluto farmi un dono, un grande dono. Mi ha consegnato in pubblico una cartella di fogli ingialliti dal tempo: erano le poesie giovanili che credevo smarrite e che per anni avevo inutilmente cercato! Alcune sono precedenti a Somiglianze, altre sono state escluse per intero e altre ancora sono versioni provvisorie di testi che troveranno nel libro la loro forma compiuta. In tutto sono più o meno cento pagine, che un appassionato di varianti potrà un giorno studiare e rendere pubbliche. Qui mi limito a proporre un gruppo di poesie che alla fine del 1975, consegnando a Giovanni Raboni il dattiloscritto, avevo deciso di non pubblicare, in alcuni casi a malincuore. Le pubblico ora, in ordine più o meno cronologico, anche se la ricostruzione esatta delle date è difficile, dopo decenni. Ma ricordo bene che nell’ottobre del 1970, appena conobbi Angelo Lumelli, sentii che di lui mi potevo fidare interamente e che da lui avrei imparato cose importanti, come in effetti è avvenuto, perché Angelo fu davvero un maestro, capace di ampie visioni filosofiche ma anche di letture millimetriche del singolo verso. Così gli diedi quello che avevo scritto negli anni precedenti (fine 1968, 1969 e 1970) e continuai ad affidargli i lavori in corso, discutendo con lui ogni dettaglio e ricevendo consigli preziosi. Angelo ha avuto la pazienza di leggere tutto e la saggezza di conservarlo, mentre io disperdevo i miei versi nei traslochi e nelle furie di cancellazione. Così il 10 novembre del 2016 mi sono trovato tra le mani una grande busta chiusa da uno spago e tutti i fogli che avevo disseminato nel vento delle stagioni ritornarono a esistere. Ho cercato di rintracciare un possibile ordine temporale, basandomi sulla memoria ma anche su elementi esteriori, come l’uso della carta carbone (sostituita dalle fotocopie dopo il 1970) e della macchina da scrivere manuale, la classica Olivetti lettera 32, che ha poi lasciato il posto alla macchina elettrica. Ho rispettato per filo e per segno il testo originale senza cambiare una virgola –  in certi casi con qualche sforzo – ed ecco qui il risultato del mio lavoro, ossia alcune poesie indubbiamente acerbe ma forse utili per comprendere meglio la mia scrittura, poesie che fanno parte del volume Tutte le poesie di Milo De Angelis, in uscita da Mondadori nel giugno 2017 e che affido volentieri a Maria Borio. (MDA)

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In questa calma di piena luce
che si allarga
così compatta che cederle quietamente
è forse necessario,
come indugiare senza significato
a fissare il catrame bollente
o intontirsi di giallo
con l’occhio immobile al sole sulle rotaie.
E’ ancora possibile
smorzarsi senza strappi
fino al margine della coscienza.
Legare il cervello alle vene nei polsi
e sfaldare il pensiero:
sfaldarlo prima del pomeriggio
ma con la pazienza orizzontale
delle strade sdraiate senza respiro
nella piana di sole
che scende su questa curva di piazza
e investe i tetti delle macchine
trovare il secondo.

*

E’ anche tra le cabine vecchie
la paura, dovunque
quando vedere le boe abbandonate
è ripetersi, al mattino, l’idea della fine:
ma è deserta, vedi, ed è solo
una spiaggia gelata dal temporale, col sesso
che ci daremo perché sei qui
nell’ accappatoio che togli. Ma soprattutto
pietà di adesso, le parole che ci aiutino,
perché c’è paura, se finisce
e non lo dicono. Non è
che un’azione, ma è ora, per tenerci occupati
prima che questa sabbia scura
venga pensata.

*

Ancora un passo e sai che nemmeno
una tua azione sopravvive
come in questo bar umido
cinquanta lire prestate
un gennaio: ma per essere qualcosa
dovrai fare, anche qui vicino al casello
con la nebbia di Alessandria
ancora, nei momenti in cui avere
o non avere tentato si appaiano.
Restano
le cose che vuoi finire, il sogno puerile
e profondo di prepararti la salvezza:
non vuoi scomparire
nemmeno dopo, nell’ordine di una camera
che hai scelto. Sapersi progetto
interminabile
è avere paura del tempo fermo
in cui entrerai. Rimanere vivente
questo solo conta, anche perdendo posizioni
che non saranno riguadagnate.
E se tocchi un corpo
è per la tua voglia tremenda di esserci:
ascoltare l’esistenza
dal tuo ventre, le generazioni a cui rimanda
in tua madre, nel tempo, e oltre: poi accetterai
la tua falsità, una camicia da abbottonare,
il tuo corpo: accetti qualche gesto
i movimenti del volante: diminuisce
la paura di non esserci.
Ormai il mondo è vicino: nessuno, nemmeno con la sua
vita rimasta nella terra
ti può smentire.

*

Un modo di violare la grazia
di questi abiti, tra le danze e il vino
e i volti fini:
non c’ è. La nebbia entra dalla finestra
morbida, avvolge
ogni crudeltà, vellutandola. È un inverno già caldo
in cui ciò che manca annuncia il ritorno
e là dentro l’agonia degli animali compone un ordine
musicale.
Anche i buchi di morfina
nascondono il sangue.

*

Di colpo, nel freddo, quando fissare il rettilineo
è come farsi tutte le domande o contare
quello che è uscito, non misurato, e si perde,
il pensiero
del proprio corpo morto. Giù nel cortile
era preciso: finire
senza colpevoli da accusare.
Solo un cumulo di storia, dentro, consumata
che toglie senso alle guerre
dietro gli alberi
di sera, l’esercizio rischioso sui binari.
Dopo, quando i vagoni
erano passati
insieme al gioco di negarsi alla morte
si contavano le azioni “in più”
da adorare.
Ma tutto questo
stratagemmi:
e i nostri tuffi nella calce, perché qualcuno pagasse
la gara sadica
delle bottiglie.
Deriderle queste strade, nei ritorni
senza accuse
o questo passaggio a livello
puerile per resuscitare. Un tempo scientifico
non bara
dove ogni diserzione è negata
una materia ferma
per la sua fine, in quest’odore d’erba
non c’è che restare.

*

C’è solo questo buio
di collina corrosa dalla lucidità
e non sarà più estate, in cerchio,
ad applaudire la gara vicino al pozzo:
questa calma
imposta ai luoghi, all’ abbandono
che non scatta: è il tempo che viene accertato,
la distanza, dal corpo
teso verso gli anni
a capire come è giusto
mescolarli alla rabbia, sporcare quest’erba
marginale perché bella
dove nemmeno uccidersi
sarebbe dentro il suo ritmo, mentre l’ esistenza
è già stata fatta
altrove: e ancora qui la fatica
di schierarsi contro la sua corsa
di ragazza, dove aveva senso
amare i sassi e la polvere, e la cortesia strana
di non dire il dolore: ma oggi è il rispetto
aperto a chi non resta
in compagnia, nel sole,
un fuggitivo a capofitto: “capire
è anche quest’ insolenza
contro il cuore, è la giustizia dei fatti,
lasciarli prevalere, contro sé”.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).