“Te li ricordi quegli autunni della Lombardia…”. In dialogo con Franco Buffoni

da | Ago 3, 2015

Proponiamo una parte del dialogo tra Franco Buffoni, Corrado Benigni e Cristiano Poletti avvenuto in uno dei passati incontri della rassegna “Poesia che si legge” di Trevigliopoesia.

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Te li ricordi quegli autunni
della Lombardia
pieni di sole perché la sera
avesse odore di campo
e il bianco potesse
più duro e sicuro
coprire la notte
l’odore di sale del mondo?

Questa poesia s’intitola Jucci ed è tratta da I tre desideri, raccolta di Franco Buffoni edita nel 1984. Pochi tratti, enigmatici, lasciati volutamente – necessariamente – oscuri. Oggi 2014, sono passati trent’anni da questi versi.
Nel nuovo libro, interamente dedicato a Jucci, Buffoni scrive: “Sono stato molto in dubbio / prima di chiamarti per nome in poesia”…
Il nome in poesia: tutti noi sappiamo quanto può radunarsi intorno a un nome. In particolare a un nome proprio, di persona, quanti destini si possono condensare lì, idee, immagini, affetti.
E poi, pensandoci, in termini più generali, forse tutta la poesia procede in questa direzione: sempre, costantemente, alla ricerca del nome, di un nome, quel nome scelto, distinto dagli altri, perché capace di risuonare, di evocare in noi risonanze, personali, universali.
Insomma, ci sono voluti trent’anni perché Jucci diventasse, per così dire, un “nome proprio di libro”, un vero coagulo di poesia. Il tempo è stato un grande scultore per Buffoni.
Jucci è stata compagna di vita per un periodo, un decennio che attraversa in gran parte gli anni Settanta. Donna sensibilissima, amata, e figura d’amore essenziale nell’amore controverso dei vent’anni. Il fuoco di quella controversia, per Buffoni, era (e sarebbe poi continuata a essere) la “guerra privata di identità” (come ha avuto modo di indicare in altra sede, nel pamphlet Più luce, padre): il definirsi cioè a chiare lettere, con difficoltà e tormento in quegli anni, della propria omosessualità. Ed ecco quindi le incostanze, i tradimenti, la ricerca di una via personale, il farsi di una psicologia tesa a fronteggiare gli steccati della società di allora (che poi per tanti aspetti sono gli stessi che la società presenta ancora oggi).
Il libro dunque ci parla, anzi meglio, ci narra (perché alto è il tasso narrativo di questa poesia) di un amore e del farsi strada dei suoi due protagonisti.
E se il nostro sulla terra è un viaggio senza ritorno, quello di Jucci si è interrotto presto, troppo presto. La malattia, irrimediabile, e la morte.
C’è tutto un nodo di indignazione-sgomento-pietà che prende via via volume e culmina esattamente lì, nella scomparsa di Jucci. Questo infatti è anche un libro sulla morte, o meglio sulla vita che una morte può regalare a chi ha continuato e continua il viaggio.
Se a volte si pensa alla poesia, e all’arte in generale, come espressione, sembra questo il caso di pensare invece a qualcosa di impresso, di inciso: all’incisione del ricordo.
C’è una costante vocazione al ritrovamento tra le pagine, come di un fossile, il dolore reso fossile e inciso nella memoria con la grazia della gentilezza.
Vocazione, certo, ed evocazione, nel senso proprio, etimologico, di chiamare fuori, ex-vocare: fuori da sé e da un mondo diverso da questo, appartenente alla memoria e difeso – potremmo dire – dalla morte.
I luoghi, poi, sono importanti. Perché Jucci è anche, interamente, un libro di viaggio. Scorre infatti in successione un paesaggio di montagna caro al poeta e da lui fortemente interiorizzato. Ci si muove tra Lombardia e Piemonte, passando da zone del Varesotto ad altre dell’Ossola o dai dintorni del Lago Maggiore all’inseguimento, sempre, del profilo del Monte Rosa.
E se alto come detto è il tasso narrativo, certo non manca il canto. Anzi, di più: il paesaggio si accorda con gli accenti giusti del canto. Buffoni più che altrove appare qui, come dicevano i greci, melopoiòs, un “creatore di canti”.
In fondo si canta per fissare e superare il dolore e tutta la forza lirica di quest’opera sta senz’altro nella confessione e nel canto. Un’aria tutta intima difatti ispira il dialogo a due voci, sussurrate entrambe, entrambe divenute strumento, dolcissimo.
È così che il ricordo trova casa sulla pagina, continuando a vivere perché portato in luce, dichiarato come questo amore, cristallizzato in poesia.
Come vediamo e sentiamo inciso nei versi de Il rododendro:

(…)

Abita con me la conca
il tuo fiore col ramo
lo ritrovo in questa luce
chinato sul respiro

(…)

CP: Chi è, chi è stata più esattamente Jucci e soprattutto quanto è costato portare il suo nome in poesia?

FB: Quando trent’anni fa venne pubblicata la poesia ne I tre desideri, con la prefazione di Raboni, Jucci era morta da quattro anni. Ci eravamo conosciuti nel ’69, io avevo ventun anni. Questa nostra vicenda si intreccia a un momento storico molto particolare. Non ero pienamente consapevole di me, allora; poi il periodo era molto farraginoso: venivo sì dall’aver conquistato la mia libertà, che allora non era per niente scontata, nel contesto storico del ’68, ma senza che io capissi di essere diventato adulto in un particolare momento di snodo della storia del mondo occidentale. La mia infanzia negli anni Cinquanta era stata terribilmente compressa da una famiglia ipercattolica. Poco dopo l’iscrizione alla Bocconi nel ’67, la situazione sociale e politica precipitò. Jucci era più grande di me di sette anni, già laureata in tedesco. Io con lei imparai a leggere, imparai le lingue, imparai a riflettere: fu una vera scuola per me. L’innamoramento fu totale, onnicomprensivo. Certo, poi c’era la mia pulsione al tradimento, che però non aveva nulla a che fare con l’amore, durava giusto il tempo di poche ore, di una notte. D’altronde non era pensabile in quegli anni avere una relazione con una persona del tuo stesso sesso. E impossibile anche per il tasso di omofobia che io stesso avevo interiorizzato.
Credo di dovere tutto a quel decennio: la mia formazione, i miei convincimenti, che lei, fornendomi  dubbio, spunti, letture, contribuiva a irrobustire. Dopodiché ci fu il salto decisivo, il gradino più difficile, il ’78, anno in cui le venne diagnosticato il tumore e di lì la morte, due anni dopo.
Tutti gli anni successivi sono serviti a far sedimentare il ricordo finché ho capito che era giunto il momento, moralmente, di raccontarla tutta questa storia, in tutti i suoi risvolti psicologici.

CB: Leggendo “Jucci”, credo sia possibile trovare un importante riferimento interno al suo lavoro poetico: forse tutti i temi e persino gli stilemi, la sostanza e la tensione degli elementi qui in gioco, appaiono già contenuti, sebbene ancora ‘inesplosi’, in “Come un polittico”, la splendida poesia d’apertura de “Il profilo del Rosa”, raccolta pubblicata nel 2000. È così? In “Jucci”, è davvero rappresentata quella storia dell’Io che c’è dentro il polittico e non si vede?

È una intuizione esatta, una considerazione profonda. Come un polittico la scrissi proprio in quegli anni vicini alla morte di Jucci, tra la fine dell’81 e l’inizio dell’82. Nella vita di ciascuno di noi, verso i trent’anni, ci accorgiamo che non riusciamo a contenere la nostra vita in un unico pensiero. Iniziamo ad avere tanto passato e si comincia allora a procedere per tranches de vie, cassetti via via che si aprono. Da tempo volevo descrivere questo passaggio. In un mio viaggio in Spagna nell’estate dell’81 trovai finalmente la metafora giusta, il polittico appunto: chiuso quasi tutti i giorni, monocromo all’esterno, il polittico è visibile in tutta la sua ricchezza, nei suoi colori accesi, nei pochi giorni di apertura, in occasioni speciali.

CB: Oltre a poeta, romanziere e saggista, Franco Buffoni è anche traduttore. A questo proposito, Benjamin, ne “Il compito del traduttore”, sostiene che compito della singola lingua è di tendere alla lingua universale e funzione del traduttore è svolgere il proprio compito al servizio di quella lingua universale. In “Jucci” più che altrove c’è grande attenzione alla musica e pare che qui il traduttore sia entrato nel versificatore, nel poeta. Si sentono echi della poesia anglosassone e del Nord Europa. Quanto dunque ha inciso l’influenza del traduttore verso il poeta e quanto si può trovare accordo nell’affermazione di Benjamin?  

FB: Grazie per questa raffinatissima domanda. Meriterebbe una risposta molto articolata, ma risponderò sentimentalmente: il suggerimento di Benjamin venne proprio da lei, da Jucci. Un riferimento classico, al quale si potrebbero indicare altre nuove strade per il lavoro di traduzione.
Tra i poeti, penso soprattutto a Heaney, in particolare, e Tranströmer, per molti aspetti ancora più intenso, come un film di Bergman: poeti amati e proposti ai lettori di poesia ben prima che il Premio Nobel ne diffondesse più largamente nome e opera.
Sì, certamente, la poesia che ho tradotto mi ha dato moltissimo. In special modo la traduzione dei romantici inglesi mi ha fatto perdere la vergogna per il romanzo in versi: capii che potevo arrivare alla poesia narrativa. Insomma, un vero nutrimento e anche un volersi bene tra poeti.

Ed ecco una sera a Treviglio raccontato un amore compiuto e perduto; il dolore della perdita, certo, mescolato però al “perdono di sé” che il poeta si è assegnato, nella consapevolezza che di lì è giunta infine l’edificazione del ricordo e, con la costanza di un atto delicato, il regalo della grazia.

Immagine: Monte Rosa visto da Milano.

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).