“Solstizio” di Roberto Deidier

da | Dic 17, 2014

“Solstizio” è per Roberto Deidier il libro della piena maturità, l’opera nel suo insieme segna il passo, la vita dell’autore stesso. Ci sono voluti dodici anni per scrivere e pubblicare questo lavoro: un periodo lungo per la tempistica odierna dei libri di poesia. “Solstizio” determina la completa  adesione a più livelli di realtà, varca i confini di un futuro che preme: “Ogni confine ha alle spalle un confine/ Ogni passato declina il futuro./ Una valigia appena chiusa, una maniglia/ Girata. Gesti cresciuti come ricordi/ In una disarmante felicità”. Si potrebbe partecipare alla “felicità” dei testi, si potrebbe segnalare che, come in quasi tutta la poesia di Deidier, il viaggio occupa una posizione principale, vitale, fin dai tempi dell’opera prima dell’autore Il passo del giorno; ma non si deve, non si può partecipare ad un piacere che è l’attraversamento solitario dell’autore nel proprio “mondo”, la sua posizione: l’unica distanza definitiva fra noi e lui.

Le descrizioni si riempiono di immagini precise. Verità doppie. La continuità della scrittura di Deidier è legata ad un duplice binario d’ascolto: “Sono fermo a metà strada e guardo indietro./ La vita, dove l’ho abbandonata,/ Era disseccata come un tronco/ Relitto dal mare e non ho conquistato/ Una seconda città. Dalle piste/ Ascolto guerre sempre lontane,/ E lente corriere del benessere./ Sono fermo non so dove e non ho occhi”. Realmente la poesia si batte contro il nulla, contro un ascolto represso ed impaziente. Ma la poesia ha ancora un grande compito, il lavoro sulla lingua, la modificazione costante della realtà. Si potrebbe chiedere di più ma l’ascolto ha il vorace compito di propagare un desiderio di costanza: “…Prima che il cristallo immobile dell’alba/ Sia trafitto dalla piena della luce”. Durante la lettura di “Solstizio” ci vengono incontro queste ombre, queste figure di immobilità, come “la statua di sale” che apre il libro o come quest’altra in attesa, modulata da un Giugno arso e unico : “Figura persa, chiunque tu sia,/ Forma disfatta, cenere quaresimale/ Trascorri nell’acqua del solstizio/ Da bordo a bordo d’una ciotola lustrale,/ Muta nell’arsura di giugno” . La verità non si può trovare nella forma, nemmeno nella migliore, il  limite per noi non è la perfezione, ma le nostre piccole incapacità, per questo la figura emblematica ispirata ad un racconto di Kafka rappresenta questa fallimentare insicurezza: “ Non capivo quanto fosse difficile/ Quell’arte di giocare con le altezze,/ Di passare da un vuoto a un altro vuoto/ E farne corpo, fasci, movimento”. Il bisogno di costituire un ambito famigliare che sia percepito come luogo di ritrovo è per Deidier il massimo livello della tensione, una partecipazione, un valore costante di normalità: “Non abbiamo avuto casa, io e te,/ Intendi insieme, comunione/D’abiti sporchi, odori di cucina,/ Conti e bollette da dividere,/ Cani per il passeggio mattutino”. Per questo in una sezione del libro vengono citate anche delle figure bibliche, in una sorta di ricerca famigliare nelle fonti dell’antichità, come partecipazione ad un passato che include storia e umanità fin dalle origini. L’opportunità di Solstizio è anche arrivare all’amore, ad una sorta di verità piegata alla vita: indecisioni, tormenti, bellezza, dolori. Ma dico, per tutto questo ci sarà una strada? Qualcosa che convinca? La risposta è molto semplice: no. Non ci sono direzioni ma solo una continua ricerca, prevaricata dal buio, dall’oscurità del pensiero che ogni tanto spezza i propri inganni: “Apri gli occhi,/ Tenuti spenti lungo tutto il giorno,/ Occupa il buio che non hai saputo accendere,/ Per ogni immagine perduta/ Una verità in quel buio si fa strada”.

Fra i passaggi più riusciti di Deidier la descrizione di personaggi e luoghi, come la bella rappresentazione di Auden o la visione costretta di un museo olandese: “Come finestre appese lungo il corridoio,/ Lasciate aperte. E il corridoio/ E’ una strada e la sala una piazza./ Di questa città senza cielo vedo il cielo/ Soltanto nello spazio d’una cornice”. Viviamo il nostro tempo dove le Muse sono “stanche”, dove la percezione di quello che sarà l’avvenire della poesia è ormai un unico sistema di codici: mischiato e sbriciolato allo stesso tempo. Il passato della poesia ci sarà sempre, ma il futuro? Anche quello, sicuramente, si tratterà ancora una volta di percezione, di affinamento dei più sottili cambiamenti dell’umano e della propria realtà. Sarà la sospensione più bella, la realizzazione migliore ad avere la meglio: nessuno è figlio del proprio tempo. La ragione di tutto questo è la voglia di esserci nei limiti della lingua, nei suoi vecchi ostacoli e nelle sue figure ricostruite in chiave contemporanea: ambiziosa e sodale. Dove l’ispirazione è ancora l’amore per quello che si chiede e per quello che manca, in una successiva e costante richiesta di desideri: “ Per te m’inventerei un alfabeto,/ Ma arriva solo un suono di sirena./ M’accosto al legno scuro, nell’occhiello/ Ti chiedo a voce bassa di tornare”. Quindi, nessun risveglio per l’‘estate’, una sola osservazione: stanze doppie e un solstizio a venire.

[Un’anteprima della raccolta di Deidier è stata pubblicata su “Nuovi Argomenti” nell’ottobre 2013: E’ venuta la nebbia – quattro poesie inedite]

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).