Seamus Heaney. Su Osip e Nadezda Mandelstam

da | Set 28, 2013

[Si conclude oggi il nostro omaggio a Seamus Heaney (Casteldawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013), che ha seguito la sua poesia ogni sabato di settembre. Oggi un saggio di Heaney su Osip e Nadezda Mandel’stam, nella traduzione di Franco Buffoni.]

«Dopo aver schiaffeggiato Aleksej Tolstoi, M. ritornò immediatamente a Mosca. Da lì tutti i giorni chiamava la Achmatova, supplicandola di veni­re.» Sarebbe arduo trovare un inizio più drammatico di queste prime frasi di Hope against Hope (Speranza contro Speranza) di Nadezda Mandelstam. Il panico in quella circostanza è pari soltanto all’orgoglio del ricordare, anche se ciò che viene ricordato è la storia fatale di suo marito, il poeta Osip Man­delstam, quella M. dell’irriducibile nota biografica di Nadezda.

Nel 1932, Aleksej Tolstoi aveva presieduto una «corte di compagni» isti­tuita dal Sindacato degli Scrittori per ascoltare la denuncia di Mandelstam contro il romanziere Sargidzan. I Mandelstam all’epoca avevano una cattiva reputazione presso le autorità sovietiche e il romanziere e sua moglie erano stati incaricati di spiarli nel loro condominio. Come conseguenza della vici­nanza, dei sospetti e dell’ostilità, Sargidzan aveva poi colpito Nadezda «molto duramente». La corte concluse che «l’intero caso era un retaggio del sistema borghese e che erano da biasimare allo stesso modo entrambe le parti». Allora, all’interno della corte iniziarono i disordini, i giudici trovaro­no rifugio in una stanza, ma alla fine Tolstoi irruppe tra la folla gridando: «Lasciatemi stare, lasciatemi stare. Non potevo farci niente! Avevamo degli ordini.» Due anni dopo Osip restituì lo schiaffo. Per dirla con Nadezda, Mandelstam pensava che «l’uomo non avrebbe dovuto ubbidire agli ordini. Non quegli ordini. E questo è tutto.»

Naturalmente, questo è ben lungi dall’essere tutto. Lo schiaffo fu un se­gno visibile di una grazia interiore che a Mandelstam era ritornata a metà del 1930, quando fece il viaggio in Armenia. Nel corso dei suoi spostamenti laggiù, si ristabilì in lui il senso di essere nel giusto, quella libertà interiore senza la quale non riusciva a chiamare a sé la poesia, e si ruppe il silenzio poetico durato cinque anni. Insieme alla poesia arrivò la capacità di non ub­bidire agli ordini, e, parrebbe, quasi per provare a se stesso che quella capa­cità era incondizionata, Mandelstam scrisse poi il componimento, per lui atipicamente esplicito e «politico», contro Stalin, «Il monastero del Crem­lino». In realtà, fu questa poesia la vera causa del primo arresto di Mandel­stam uno o due giorni dopo l’incidente dello schiaffo: Davide aveva affron­tato Golia con otto distici di pietra nella fionda.

L’appartamento di Mosca fu perquisito dalla polizia segreta, Mandelstam fu portato al loro quartier generale nella prigione di Lubianka, interrogato e condannato a tre anni di esilio a Cerdyn, dove, in stato di squilibrio, tentò il suicidio gettandosi da una finestra dell’ospedale. Poi avvenne il «miracolo», come lo chiama Nadezda Mandelstam. In seguito all’interessamento perso­nale di Stalin, interessamento mantenuto vivo grazie all’abilità di Pasternak nel servirsi di una telefonata del dittatore in persona, la condanna fu com­mutata in esilio in una qualche cittadina della Russia europea, eccettuate le città principali.

«All’improvviso M. si ricordò che Leonov, un biologo all’Università di Tashkent, aveva parlato bene di Voronez (…). Il padre di Leonov vi lavora­va come medico della prigione. “Chissà, potremmo avere bisogno di un me­dico della prigione”, disse M., e decidemmo per Voronez.» Sembra che il tono leggero fosse tipico. E per un uomo che per scelta viaggiava con poco bagaglio, che si identificava consapevolmente con i raznochintsi, quegli «in­tellettuali arrivati» degli anni Sessanta dell’Ottocento, e che in questa fase era imbevuto di Dante al punto che ritrovava prefigurata nel maestro la pro­pria abitudine di comporre poesia declamando e spesso camminando ­«il passo, unito alla respirazione e saturo di pensiero: è questo che Dante intende per inizio della prosodia» – per un uomo simile, che riusciva anche a chiedersi «seriamente quante scarpe di cuoio, quanti sandali consumò Ali­ghieri durante la sua attività poetica, vagando per i sentieri impervi del­l’Italia», la prospettiva dell’esilio non era del tutto castrante. Comunque, l’illusorio senso di benessere sorse solo quando ebbe riacquistato l’equili­brio mentale: durante le sue allucinazioni nel viaggio da Mosca a Cerdyn, e durante il ricovero in quell’ospedale, Mandelstam era vissuto nel terrore, nell’assoluta consapevolezza di avere il destino segnato. Una volta sua mo­glie e la governante dovettero nascondergli l’orologio, per dissipare in lui l’ossessione che alle sei in punto nella corsia sarebbe arrivato il plotone di esecuzione per fucilarlo.

Anche la consapevolezza di Nadezda era assoluta, ma veniva sopportata alla luce di una coscienza sana. Improvvisamente divenne una guerrigliera dell’immaginazione, votata alla causa della poesia, alla conservazione dell’opera di suo marito e, in particolare, alla conservazione dei suoi mano­scritti. Alcune parole della condanna commutata che intendeva «isolare» e «proteggere» il poeta potrebbero applicarsi anche al compito che Nadezda si assegnò istintivamente e religiosamente – la parola non è troppo forte ­dal momento in cui la polizia segreta penetrò nel loro appartamento. Da al­lora in avanti, fu come un prete perseguitato all’epoca dei campi di prigio­nia, spostandosi rischiosamente insieme all’altare della fede proibita, siste­mando i manoscritti al sicuro presso gli adepti segreti. E inevitabilmente, essendosi consacrata custode, era destinata a diventare testimone.

Di conseguenza, sopravvisse il lavoro maturo di un grande poeta, e alla fi­ne degli anni Sessanta del Novecento furono poi scritti due libri tra i più for­tificanti dei nostri tempi, Hope against Hope (Speranza contro Speranza) e Hope abandoned (Speranza abbandonata) di Nadezda Mandelstam (i titoli costituiscono giochi di parole sul suo nome, che significa «speranza» in Rus­so). In questi libri abbiamo uno sconvolgente atto d’accusa contro quasi tut­to ciò che accadde nella Russia postrivoluzionaria e, più relativamente, la storia dell’esilio di Mandelstam a Voronez, il suo ritorno a Mosca nel 1937, il nuovo arresto e la deportazione in un campo di lavoro: «Il mio primo libro fu Pietra e anche l’ultimo sarà pietra.» Morì poco prima del quarantottesi­mo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok, dopo aver percorso le cinquemila e cinquecento miglia da Mosca viaggiando su un tre­no per il trasporto di prigionieri. La causa ufficiale della morte fu «collasso cardiaco»: Mandelstam effettivamente soffriva di un disturbo cardiaco, an­che se in realtà potrebbe essere morto di tifo. La vedova riferisce il modo in cui le fu data la notizia:

Mi inviarono un avviso che mi invitava a recarmi all’ufficio postale di Porta Nikita. Qui mi fu restituito il pacchetto che avevo spedito a M. al campo. «Il destinatario è morto», mi informò la ragazza allo sportello. Sarebbe abbastanza facile stabilire la data in cui mi fu rispedito il pac­chetto – era lo stesso giorno in cui i giornali pubblicarono il lungo elen­co dei riconoscimenti governativi – i primi in assoluto – agli scrittori so­vietici.

Già allora l’opera di Mandelstam era completa, anche se solo nel 1955, con l’edizione newyorkese delle sue Collected Works (Opere complete), an­dò in stampa qualcosa che si avvicinava a una testimonianza completa. Pri­ma di allora, più di duecento poesie vennero mantenute in vita in condizioni «pre-gutemberghiane». Per il lettore sovietico, Mandelstam come poeta era finito dopo l’apparizione di tre libri che nel 1928 segnarono il culmine della sua carriera pubblica di scrittore: le Poesie, un volume conte­nente «Il rumore del tempo», il resoconto autobiografico dell’infanzia a Pie­troburgo, e il brano dal titolo romanzesco «Il francobollo egiziano». Ma a Voronez i Mandelstam riempirono tre quaderni con l’opera successiva. Scri­ve Nadezda:

Mi hanno chiesto spesso dell’origine di questi «Quaderni». Era questo il nome che usavamo per riferirci a tutte le poesie composte tra il 1930 e il 1937, che a Voronez ricopiammo su normali quaderni scolastici (non riuscimmo mai a ottenere carta decente e perfino procurarsi questi qua­derni era difficile). Il primo gruppo andò a formare ciò che ora si chia­ma il «Primo quaderno di Voronez» [nuovo lavoro svolto in esilio, a quanto pare], e poi tutti i versi composti tra il 1930 e il 1934, che erano stati sequestrati durante la perquisizione del nostro appartamento, fu­rono ricopiati in un secondo quaderno (…). Nell’autunno del 1936,  quando si erano accumulate delle altre poesie, M. mi chiese di procu­rarmi un nuovo quaderno.

Malgrado il suo disprezzo per lo «scrivere» (la parola veniva usata in mo­do sprezzante per definire, tra l’altro, le relazioni degli informatori, e in ogni caso Mandelstam lavorava non con la penna, ma con le «mobili lab­bra»), il poeta aveva finito per rendersi conto che un manoscritto era più duraturo di un uomo, e che la memoria non poteva fornire alla poesia un santuario permanente. Tuttavia è da tale santuario che essa emerse con for­za commovente. Dopo il secondo arresto di Osip, ad esempio, quando Na­dezda faceva il turno di notte in una fabbrica tessile della cittadina di Struni­no, si teneva sveglia borbottando i versi tra se e se: «Dovevo affidare tutto alla memoria in caso mi avessero portato via i manoscritti, o le varie perso­ne cui avevo dato le copie si fossero spaventate e le avessero bruciate in un momento di panico.» C’è poi questa scena in un solaio occupato da ladrun­coli, che fu riferita a Nadezda da un uomo che era passato dall’ultimo cam­po di transito contemporaneamente a suo marito:

Seduto con i criminali c’era un uomo con un’ispida barba grigia che in­dossava un giaccone di pelle giallo. Recitava versi che L. riconobbe. Era Mandelstam. I criminali gli offrirono pane e roba in scatola, ed egli si servì tranquillamente e mangiò. Evidentemente era solo timoroso di mangiare cibo offertogli dai suoi carcerieri. Lo ascoltarono nel silenzio totale e ogni tanto gli chiesero di ripetere una poesia.

Sebbene l’ultimo Mandelstam tendesse a identificarsi sempre più con gli emarginati e gli esiliati, la sua prima cerchia di amici era davvero al centro del mondo letterario nella Pietroburgo pre-rivoluzionaria. Nel terzo capito­lo di Hope abandoned Nadezda afferma implicitamente l’importanza di questa iniziale sicurezza e dell’amicizia con poeti quali Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Il capitolo è sul nutrimento morale e artistico che può scendere su una comunità di spiriti che abbiano «pieno diritto di riferirsi a se stessi come “noi”»:

Sono assolutamente convinta che senza questo «noi», non possa esserci un compimento adeguato neanche del più comune «io», ossia della per­sonalità. Per trovare il proprio compimento, l’«io» necessita di almeno due dimensioni complementari: «noi» e – se è fortunato – «tu». Penso che M. sia stato fortunato ad aver avuto un momento nella vita in cui era unito dal pronome «noi» a un gruppo di altri.

Contro questa autentica chiesa di valori, le sette eretiche del sistema so­vietico non avrebbero potuto trionfare definitivamente, sebbene in realtà risultassero inizialmente vittoriose, fucilando Gumilëv (il primo marito del­la Achmatova) nel 1921, perseguitando Mandelstam fino all’esilio e alla morte, e riducendo la Achmatova al silenzio per decenni. Malgrado ciò, do­po il 1960, dal suo punto di osservazione Nadezda poteva proclamare trion­falmente la convinzione che le aveva fatto superare i momenti più neri e po­teva pronunciare il suo anatema contro i nemici con la noncurante autorità di qualcuno che scacci una mosca dal cibo: «Tali sette non sono la prova del­l’esistenza di un senso di cameratismo, dato che sono composte da indivi­dualisti intenti a raggiungere solo i propri scopi. Si riferiscono a se stessi co­me “noi”, ma in questo contesto il pronome indica solo una pluralità priva di qualsiasi senso o significato più profondo.» Il tema fondamentale delle memorie è questa guerra tra i valori umanistici e il sistema utilitaristico che fu imposto per decreto e poi con il terrore. E la storia che raccontano è tan­to inesorabilmente angosciante che è facile dimenticare la pura esuberanza letteraria del periodo iniziale del rapporto di Mandelstam con questi poeti acmeisti, quando la sua guerra principale era contro i Simbolisti e quando le scarpe gli si consumavano solo per i viaggi di studio a Parigi, a Heidelberg e, quasi certamente, in Italia.

Robert Tracy fornisce un resoconto delle influenze principali che erano nell’aria all’epoca del primo libro di Mandelstam, Pietra, da lui tradotto in toto in versi rimati, con il testo a fronte in russo, un’ottima introduzione e note molto illuminanti. Tracy ricorda il mondo dell’infanzia e dell’età scola­re di Mandelstam, così iperbolicamente evocato dal poeta stesso ne «Il ru­more del tempo» e osserva che il successivo senso di «non appartenere» era già presente nella consapevolezza del bambino della tensione tra il «caos giudaico» di casa sua e il mondo imperiale di Pietroburgo, «il paradiso di granito delle mie pacate passeggiate», Tracy accenna anche all’importanza dell’educazione alla letteratura classica e russa che Mandelstam ricevette al­la Scuola Tenishev, dove l’insegnante che lo influenzò maggiormente fu il poeta simbolista V. V. Grippius, riportato in vita in modo indimenticabile ne «Il rumore del tempo»:

V. V. aveva instaurato relazioni personali con scrittori russi, legami malin­conici e amorosi pieni di nobile invidia, gelosia, giocosa scortesia, grave slealtà – come di consueto tra i membri di una famiglia (…). I giudizi di V. V. ancora oggi continuano a tenermi in loro potere. Il Viaggio che ho fatto con lui (…) è rimasto l’unico. Dopo di quello, «leggo un po’» solamente.

Eppure non fu con il simbolista Grippius che scoprì definitivamente la sua vera linea poetica, ma con il noto gruppo degli Acmeisti, i più importan­ti dei quali costituirono quella prima comunità cui Nadeida si riferisce sem­plicemente come «I Tre».

Gli Acmeisti si formarono per reazione, scindendosi dai Simbolisti, per dirla con Clarence Brown, «propugnavano l’abbandono del dualismo meta­fisico dei Simbolisti e un ritorno alle cose di questo mondo, una chiarezza classica e mediterranea in opposizione alIa bruma gotica e nordica dei Sim­bolisti, e un accostamento risoluto e virile alla vita.» Roba da manifesto. Inoltre, vi era «determinazione a introdurre una certa leggerezza mozartia­na – e puskiniana – nella poesia», un senso del componimento poetico come struttura animata, un equilibrio di forze, un’architettura. Tutto ciò scorreva in Mandelstam eccitando la sua devozione furiosa per il mondo fisico, la banca etimologica della memoria, la parola in quanto forma e contenuto di se stessa: «il mondo è una fascina da cui il significato si ramifica in varie di­rezioni», Questo brusco approccio familiare, questa insofferenza per il mo­do in cui il Simbolismo «corrompeva la percezione», percorre tutta la sua prosa e i suoi versi. Quando era nel pieno dell’impeto – e non scriveva mai senza esserlo – il suo contatto profondo con le comuni e miracolose risorse del linguaggio come strumento fonetico lo mantenevano vicino al gusto del­l’ordinario anche mentre la lingua si sbizzarriva in arzigogoli di associazioni fantastiche al di fuori di tale gusto. Il suo saggio On the Nature of the Word (Sulla natura della parola), pubblicato nel 1922, costituisce una sorta di rica­pitolazione delle sue prime idee e porta in sé brillante sicurezza e spa­valderia, come in occasione del famoso attacco alla rosa simbolista:

La rosa rappresenta il sole, il sole rappresenta la rosa, una colomba una ragazza, e una ragazza una colomba, Le immagini vengono sventrate come spaventapasseri e riempite di sostanza estranea. In luogo della fo­resta simbolista, ci rimane un’officina che produce spaventapasseri (…) Non rimane nient’altro che un’orribile quadriglia di «correspondences» che annuiscono vicendevolmente, un eterno ammiccare, mai una paro­la chiara, nient’altro che allusioni e reticenti sussurri. La rosa annuisce alla ragazza, la ragazza alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso.

Contro il luccichio tremolante e l’ineffabilità silvestre di tutto ciò, l’istinto portò Mandelstam a cercare l’affabile facciata di pietra e la solida volta degli edifici. La pietra divenne la sua immagine; la durezza e la forma la sua con­solazione. Perfino nel suo Viaggio in Armenia lo troviamo ancora fare salti di gioia per scoperte come questa:

Quando ero bambino una sorta di stupida suscettibilità, un falso orgo­glio, mi tratteneva sempre dall’andare a cercare frutti di bosco o dal chinarmi a raccogliere funghi. Le gotiche pigne e le ghiande ipocrite nei loro cappucci monastici mi piacevano più dei funghi. Passavo la mano sulle pigne. Si rizzavano, cercavano di convincermi di qualcosa. Nella loro tenerezza nascosta, nel loro aprirsi geometrico intuivo i rudimenti dell’architettura, il cui demone mi ha accompagnato per tutta la vita.

Robert Tracy discute anche la rilevanza dell’architettura e della pietra, e fornisce un lucido commento sull’importanza fondamentale delle poesie di Mandelstam sugli edifici; e nelle sue traduzioni ha preso a cuore la discipli­na del poeta, cercando di conservare le simmetrie e le indicazioni di rima e strofa. Il suo orecchio non è dotato quanto quello di Mandelstam – quale lo è? – e scompare l’alta tensione del gioco di parole ad associazione interna, che tanto nitida sembra essere in russo, ma c’è molto da guadagnare atte­nendosi al metro e alla rima: la base metaforica dell’edificio viene in tal mo­do salvata – benché parlare troppo in questi termini significhi probabilmen­te travisare il fremere delle «mobili labbra». Una volta un poeta russo mi ha detto che la strofa di Mandelstam ha l’impatto sonoro dell’ultimo Yeats, perciò Tracy ebbe il suo bel da fare. Ma si mostra all’altezza, ad esempio, nella versione della Poesia 78:

Бессоница. Гомер. Тугие паруса.
Я список кораблей прочёл до середины:
Сей длинный выводок, сей поезд журавлиный,
Что над Элладою когда-то поднялся.

Как журавлиный клин в чужие рубежи –
На головах царей божественная пена –
Куда плывёте вы? Когда бы не Елена,
Что Троя вам одна, ахейские мужи?

H море, и Гомер – всё движется любовью.
Кого же слушать мне? И вот Гомер молчит,
И море чёрное, витийствуя, шумит
И с тяжким грохотом подходит к изголовью.

1915

Sleeplessness. Homer. The sails tight.
I have the catalogue of ships half read:
That file of cranes, long fledgling line that spread
And lifted once over Hellas, into flight.

Like a wedge of cranes into an alien place ­
The god’s spume foaming in the prince’s hair.
Where do you sail? If Helen were not there
What would Troy matter, men of Achacan race?

The sea, and Homer – it’s love that moves all things.
To whom should I listen? Homer falls silent now
And the black sea surges toward my pillow
Like a loud declaimer, heavily thundering.

*

Insonnia, Omero. Tese le vele.
Ho letto a metà il catalogo delle navi:
Quella fila di gru, lunga implume linea che si distese
E si alzò una volta sull’Ellade, in volo,

Come un cuneo di gru in luogo alieno ­
La spuma del dio schiumeggia nella chioma del principe,
Per dove salpi? Se Elena non fosse là
Che importerebbe Troia, uomini di razza achea?

Il mare, e Omero – è amore che muove ogni cosa,
Chi devo ascoltare? Omero ormai giace silenzioso
E il mare nero cresce verso il mio cuscino
Come un oratore fragoroso, inveendo violentemente.

Come resa di un testo questa è più che toccante. Ma ciò che rende impa­gabile il libro di Tracy è la sensibilità per il contesto. L’introduzione com­prende una parte importante, intitolata “Poetry and Quotation” (Poesia e citazione), in cui egli insiste proprio sul modo in cui le poesie di Mandelstam sono «saldamente radicate sia in un contesto storico e culturale sia nella realtà fisica in misura pari all’Ulisse di Joyce o alla Terra desolata di Eliot», Le note alle poesie saranno essenziali per chi cercherà di individuare tale contesto, in particolare quando si tratta di altra persona russa o di uno scrit­to critico di Mandelstam.

Un’altra cosa che si incontra in queste traduzioni è la verve e l’immedia­tezza dei pretesti delle poesie. che richiamano il programma acmeista incen­trato su «questo mondo»: vi sono poesie sul tennis, il gelato e i film muti, poesie che sembrano composte di getto. Talvolta Tracy tocca il tasto del­l’intenzione casuale con convincente disinvoltura:

When I hear the English tongue
Like a whistle, but even shriller
­I see Oliver Twist among
A heaping of office ledgers,

Go ask Charles Dickens this,
How it was in London then:
The old City with Dombey’s office.
The yellow waters of the Thames.

*

Quando sento la lingua inglese
Come un fischio, ma ancora più stridula ­
Vedo Oliver Twist in mezzo a
Una catasta di libri mastri.

Vai a chiederlo a Charles Dickens,
Com’era a Londra allora:
La vecchia City con l’ufficio di Dombey,
Le acque gialle del Tamigi.

Vi è un salubre élan in gran parte del libro, e il fatto che questo sia effetti­vamente un libro, non solo una scelta di poesia significativa, approfondisce la nostra sensazione di che cosa significò veramente Pietra per i lettori del­l’epoca. La maggior parte di quanti sono interessati a Mandelstam avrà recepito l’importanza dei brani chiave sull’architettura – «Hagia Sophia» (Santa Sofia), «Notre Dame», «The Admiralty» – e ammi­rato la loro nota confidenziale e ambiziosa: ma trovarli accanto ad altre poe­sie che non ostentano la stessa serietà significa giungere ad apprezzarne in modo più completo la forza corroborante. La poesia seguente (Numero 62), che mi affascinò quando apparve nella versione più libera di W.S. Marwin e Clarence Brown, mostra più profondamente i propri meriti in questa tradu­zione più letterale e metrica:

Есть иволги в лесах, и гласных долгота
В тонических стихах единственная мера.
Но только раз в году бывает разлита
В природе длительность, как в метрике Гомера.

Как бы цезурою зияет этот день:
Уже с утра покой и трудные длинноты;
Волы на пастбище, и золотая лень
Из тростника извлечь богатство целой ноты.

1914

Orioles in the woods, and the only measure
In tonic verse is to know short vowels from long.
There’s a brimming over once in each year, when nature
Slowly draws itself out, like the metre in Homer’s song.

This is a day that yawns like a caesura:
Quiet since dawn, and wearily drawn out;
Oxen at pasture, golden indolence to draw
From a pipe of reeds the richness of one full note,

*

Orioli nel bosco, e l’unica misura
Nel verso tonico è distinguere le vocali brevi dalle lunghe.
C’è un traboccamento una volta ogni anno, quando la [natura
Lentamente si allunga, come il metro nella canzone di [Omero.

Questo è un giorno che sbadiglia come una cesura:
Sin dall’alba tranquillo, e stancamente allungato;
Buio al pascolo, indolenza dorata per trarre
Dalla canna di uno zufolo la ricchezza di una nota [naturale.

Lo schiaffo di Mandelstam ad Aleksej Tolstoi non fu affatto il suo primo contatto con quel componente della grande famiglia. Il conte Tolstoj era emigrato dopo la Rivoluzione, sebbene fosse poi tornato in Russia come «Il Conte Rosso» e fosse diventato un utile sostegno del giovane regime. Nel 1923, comunque, quale curatore di un supplemento letterario del giornale berlinese La vigilia, aveva pubblicato il saggio di Mandelstam «Humanism and the Present» (L’Umanesimo e il presente), e a quel punto sembrava che fosse il poeta a stare dalla parte del regime – o perlomeno che fosse quasi pronto a illudersi di esserlo. In retrospettiva, l’intero brano assume una co­lorazione tragica e ironica.

Mandelstam inizia ponendo in evidenza la propria concezione della socie­tà ideale, che naturalmente risulta avere la stessa struttura dell’edificio o del­la poesia ideali. La pietra, la parola, l’individuo devono mantenere e realiz­zare pienamente il sé creativo, ma devono anche essere parte di un «noi», una «architettura sociale», allo scopo di portare allo sviluppo più fecondo il loro potenziale. Mandelstam in un certo modo desume la sua osservazione dall’atmosfera dell’epoca e inizia la caccia a «nuove forme»: è implicita una visione ottimista della Rivoluzione quando parla di un nuovo «gotico sociale: il libero gioco di pesi e forze, una società umana concepita come una com­plessa e densa foresta architettonica in cui tutto è efficiente e individuale, e in cui ogni particolare risponde alla concezione dell’insieme». Eppure questa esaltante visione di armonia viene preceduta, all’inizio del saggio, da una vi­sione crudele – e fortemente esplicita – della società inumana, delle ère in cui la vita individuale veniva considerata insignificante, in cui l’architettura so­ciale era una piramide opprimente: «I prigionieri assiri si accalcano come pulcini sotto i piedi di un re enorme; i guerrieri che incarnano il potere dello stato nemico dell’uomo uccidono con lunghe lance i pigmei legati, mentre gli Egiziani e i costruttori egiziani considerano la massa umana materiale edili­zio disponibile in abbondanza, facile da procurare in qualsiasi quantità.»

Quindici anni prima dell’esperienza dei treni-convoglio e del recinto del campo di prigionia, l’animo profetico di Mandelstam trema di premonizio­ne, e benché mantenga coraggiosamente il controllo – o per il momento sia preparato a mascherare a se stesso il tremito – i segni sono ovunque. L’illu­sione al concetto inglese di «casa» («home») come concetto rivoluzionario è seguita dal pensiero che quella fu «un tipo di rivoluzione radicata più pro­fondamente, e più affine alla nostra epoca di quella francese». Pia illusio­ne. Ma mai quanto i paragrafi conclusivi:

Il fatto che i valori dell’umanesimo siano diventati ormai rari, quasi tolti dalla circolazione e nascosti sottoterra, non è in sé un cattivo se­gno. I valori umanistici si sono semplicemente ritirati. Si sono nascosti co­me la valuta aurea (…).

Il cambio di valuta aurea è l’affare del futuro, e nell’ambito della cul­tura ciò che ci si pone dinnanzi è la sostituzione di idee provvisorie – di banconote cartacee – con l’oro coniato dalla tradizione umanistica euro­pea; i magnifici fiorini dell’umanesimo suoneranno di nuovo, non con­tro la picca dell’archeologo, ma (…) come le monete sonanti che circo­lano passando di mano in mano.

Potrebbe essere solo un caso dovuto alla traduzione che la moneta della speranza di Mandelstam sia quella fiorentina, la valuta della città di Dante, quel Dante nel quale si sarebbe imbattuto dopo il 1930 e che lo avrebbe aiu­tato a vivere al valor nominale mentre intorno a lui circolava valuta falsa co­me accecante surrogato.

Tre anni dopo questo saggio Mandelstam aveva smesso di illudersi sulla natura del mondo in cui viveva – ma aveva anche smesso di scrivere poesia. Nadezda approfondisce le ragioni di quel blocco durato cinque anni, che terminò nel 1930, e suggerisce che i mali fisici di suo marito, così come quelli immaginari, possano avere avuto origine dalla questione, per lui basi­lare, del rapporto con la propria epoca. Nadezda annota anche che fu men­tre gli veniva consegnata la menzione ufficiale per la poesia dal responsabile della letteratura infantile presso la Casa Editrice Statale (e accorgendosi che non sarebbe più riuscito a resistere alla voce tentatrice) che Mandelstam udì come uno scampanellio, un suono che segnava l’insorgere del suo primo attacco di angina pectoris.

Durante questo periodo si manteneva con traduzioni e lavorando più o meno sotto l’egida di varie organizzazioni e pubblicazioni di partito, trovan­dosi però sempre più alienato. Si sentiva «un doppiogiochista con un’anima divisa», complice del «nuovo» nel trattare con i funzionari di una letteratura che disprezzava, ma nell’intimo ancora impegnato nei confronti dei «vec­chi» valori. Tra gli uomini nuovi, «la moralità cristiana – compreso l’antico comandamento: “Non uccidere”, – veniva allegramente identificata con la moralità “borghese”». Il suo malcontento incontrava diffidenza e ostilità, ed era inevitabile, con un tipo dalla natura impulsiva e coraggiosa come Mandelstam – e che viveva nella tonificante aura morale della compagnia di Nadezda – che avvenisse uno scontro.

Nella primavera del 1928 fece la prima mossa nella sua offensiva, interve­nendo a favore di cinque anziani impiegati di banca che stavano per essere giustiziati. Attaccò i funzionari governativi, ma la mossa decisiva fu di inviare a Bucharin una copia delle Poesie appena pubblicate, con un’iscri­zione che diceva: «Ogni riga di questo libro contesta ciò che intendi fare». Il contrattacco ebbe luogo quella stessa estate, quando un editore tralasciò di apporre il nome dei traduttori originali sulla pagina di copertina di un lavo­ro rivisto da Mandelstam, che fu così denunciato, ingiustamente, come pla­giario. Dopo estenuanti udienze in tribunale e interrogatori, una commis­sione della Federazione della Organizzazione degli Scrittori Sovietici giudi­cò Mandelstam moralmente biasimevole per il fatto che l’editore non aveva provveduto a stipulare un contratto con i traduttori precedenti. La coppia perse l’appartamento e per un po’ il poeta sparì dalla circolazione.

In una delle sue espressioni più memorabili, Nadezda definisce il lavoro di suo marito su una poesia uno scavare alla ricerca della «pepita dell’armo­nia», e nello stesso capitolo osserva che «la ricerca delle parole perdute è un tentativo di ricordare ciò che deve ancora essere richiamato in vita». In que­sti anni tormentati era come se Mandelstam avesse smarrito la pepita del­l’armonia, e non potesse pronunciare le parole perdute. Ma si riprese, al­l’improvviso e in modo trionfale, tra l’estate e l’autunno del 1930, nel corso del viaggio in Armenia. Lì denunciò come stupida e illetterata la formula ufficiale della letteratura: «Nazionale nella forma, Socialista nel contenu­to». La formula era di Stalin. Mandelstam si allontanò così dalla compagnia degli scrittori per passare il suo tempo con scienziati e biologi. Scrisse la «Quarta prosa», «arrabbiata», ellittica e catartica, che appallottola l’univer­so dei suoi valori autentici in una micidiale palla di ferro, e simbolicamente si strappò di dosso il cappotto di pelliccia che associava ai privilegi accordati agli scrittori allineati al regime: «La razza degli scrittori professio­nisti emana un odore ripugnante (…) però è sempre vicina alle autorità, che trovano rifugio ai propri membri nei quartieri a luci rosse, come le prostitu­te. Perché la letteratura adempie sempre a un solo compito: aiuta chi gover­na a mantenere in riga i propri soldati e aiuta i giudici a disporre arbitraria­mente del condannato.» E poi: «Mi strappò di dosso il cappotto di pelliccia letterario e lo calpestò. Percorrerò in tondo per tre volte i viali di Mosca con indosso solo la giacca a trenta gradi sotto zero. Scapperò dall’ospedale gial­lo della sala del Komsomòl direttamente verso la polmonite mortale (…), se non altro per non udire il tintinnio delle monete d’argento e il frusciare delle banconote». Rivendicò la sua libertà interiore, si gettò avidamente sulle pe­pite, insistette sulla purezza e l’obiettività del suo tipo di poesie: «Fare pizzo di Bruxelles implica lavoro effettivo, ma le sue maggiori componenti, quelle che sostengono il disegno, sono l’aria, i fori e i vuoti». Si ricordò di ciò che doveva ancora essere richiamato in vita, ma, come rivela l’immagine di «polmonite mortale», fece tutto ciò sapendo perfettamente che avrebbe pa­gato con la vita la guarigione della sua anima divisa.

Viaggio in Armenia è ormai disponibile nella traduzione di Clarence Brown, con un’introduzione di Bruce Chatwin. Nel 1933 era apparsa nella rivista sovietica «Zvezda», e fu l’ultima sua opera di cui Mandelstam vide la pubblicazione. Definirla uno scritto di viaggio è mancare il bersaglio, quasi quanto il recensore della «Pravda» che accusò Mandelstam di non essersi accorto della «fiorente Armenia, attivissima nella gioiosa edificazione del socialismo». Quando Mandelstam protestò ritenendo inammissibile che il principale giornale del paese pubblicasse «articoli da stampa di quart’ordi­ne», un funzionario lo rimproverò: «Mandelstam, stai parlando della Prav­da». «Non è colpa mia se l’articolo è stato pubblicato sulla Pravda», rispose Mandelstam. Chiaramente la guarigione era completa.

Il recensore centrò però il bersaglio, anche se per motivi perversi, ritro­vando vivo nel brano lo screditato stile acmeista: «Questa è una maniera di parlare, scrivere e viaggiare coltivata prima della Rivoluzione». E quindi da estirpare. Tutta l’antica fiducia di Mandelstam nelle risorse del linguaggio, il suo identificarsi con la chiarezza e l’aura classica del Mediterraneo, il suo gioire della natura «ellenica» del retaggio russo, l’esuberante certezza filolo­gica del suo saggio «On the Nature of the Word»: tutto ciò fu ravvivato dal suo incontro fisico con la lingua e il paesaggio armeni. Aggiunte e note che nel testo non trovavano spazio chiariscono come Mandelstam fosse perfet­tamente consapevole di ciò che gli stava accadendo:

(Se accolgo l’immersione totale nel suono, nella tenacia e nel vigore co­me venerabile e giusta, la mia visita in Armenia non è stata invano). Se accolgo come venerabili sia l’ombra della quercia che l’ombra della tomba, e, certamente, la tenacia dell’articolazione del discorso, come potrò mai apprezzare l’epoca attuale?

La poesia gli ritornò. In realtà, la prosa stessa scoppia dall’ansia di erom­pere come sequenza di poesie. Nel momento in cui una sensazione colpisce la membrana ben tesa di ogni senso, essa emette onde dall’onnipresente «pepita dell’armonia». La fonte è stata individuata, il liquido è stato spillato e imbottigliato, l’idraulica del linguaggio si rimette in funzione azionando tutti i suoi meccanismi. Come al solito, le migliori glosse al libro vengono dal libro stesso: «l’elice si affina e si dispone in una diversa struttura a spira­le». E non solo l’orecchio, anche l’occhio e il naso: vi è un’immediatezza da far storcere la bocca, una passione da boscimano per il corpo e l’istinto. Quello che Mandelstam disse dello stile di Darwin, qui si applica perfetta­mente al suo: il potere della percezione funziona come uno strumento di pensiero.

In inglese la cosa più simile sono gli scritti di viaggio di Lawrence: leggen­do Lawrence, però, siamo sempre consapevoli che ci viene impartita una le­zione su come reagire. E lo stesso è vero in misura minore per i quaderni di Hopkins, che a loro volta vengono in mente in questo contesto. Lawrence non rinuncia così totalmente a se stesso come Mandelstam: nelle sue anno­tazioni più deliziose vi è un implicito progetto evangelico, mentre in Man­delstam il fondo morale è stato ripulito in precedenza (nella «Quarta pro­sa») ed egli si può così preparare con gioia a mettere in quarantena il mon­do intero nella loquacità dello stesso composto linguistico. L’antico sistema di valori cristiano dell’Armenia e l’atmosfera interiore delle sue sensazioni si combinarono in una reazione meravigliosa che dimostra, sulla base delle emozioni, la verità della sua convinzione secondo la quale «l’intera nostra cultura bimillenaria è uno scenario del mondo in cui giocare liberamente».

Viaggio in Armenia, allora, è più di un insieme barocco di impressioni. È la celebrazione del ritorno di un poeta ai suoi sensi. È un peana alla realtà della poesia come potere realmente presente nella natura delle cose quanto lo stesso potere della crescita. È shakespeariano nel modo in cui confonde arte e natura: un’identificazione apparsa fugacemente già nella Poesia 62­. E Bruce Chatwin giustamente attira l’attenzione sul paragrafo che tanta of­fesa arrecò alla brigata degli impellicciati, un passaggio che a un certo punto pulsa nel ricordo del primo mentore letterario di Mandelstam, il simbolista Grippius, che «amava le poesie nelle quali ci fossero rime energiche e felici quali plamen (fiamma) – kamen (pietra) »: «Una pianta è un suono evocato dalla bacchetta magica di un termenvox e sussurra in una sfera intrisa di pro­cessi ondulatori. È l’araldo di un temporale vivente che ruggisce permanen­temente nell’universo, affine in uguale misura alla pietra e al fulmine! Una pianta nel mondo è un evento, un avvenimento, una freccia, e non un noio­so, barbuto sviluppo».

Può darsi che la prosa – perfino questa prosa – sia più facile da tradurre della poesia. In ogni caso, non posso credere che si perda molto leggendo il libro nell’inglese lucido e atletico di Clarence Brown, che ci dà «la valuta dorata del cognac nella dispensa segreta del sole montano». Ma l’intero can­to e la creazione di Hopkins si celavano sotto le braci tetre del triste fato che Mandelstam sapeva di abbracciare: «La pienezza di vita degli Armeni, la lo­ro ruvida tenerezza, la nobile propensione per il lavoro duro, l’avversione inspiegabile per tutto ciò che è metafisico e la splendida intimità con il mon­do delle cose reali – tutto questo mi diceva: sei sveglio, non spaventarti della tua epoca, non nasconderti.»

Una costante adorabile dei libri di Nadezda Mandelstam è l’amore pro­fondo che nutre per Osip. Chiaramente costituivano una coppia forte da in­contrare, e chiaramente funzionavano molto in quanto coppia. Senza di lei, Mandelstam forse non sarebbe potuto essere se stesso, e la stima e l’amore che lei aveva per lui – l’amore di una moglie, malgrado tutto, con le sue feri­te segrete, e pienamente consapevole dei punti deboli del marito – fece sì che lei potesse poi esporre tutta la verità. Parla della fedeltà titubante di Mandelstam ai «tre» nei primi anni Venti, quando era pronto a scrivere in modo critico della Achmatova; racconta con grande acume la storia dei ten­tativi falliti di scrivere un’ode a Stalin nella speranza di riacquistarne il favo­re dopo l’intermezzo di Voronez; e della visita al canale del Mar Bianco nel 1937 sotto gli auspici dell’Unione degli Scrittori Sovietici, quando uno spiri­to sensibile di quella organizzazione pensava che Mandelstam si sarebbe an­cora potuto salvare sfornando prodotti del realismo socialista. Mandelstam riuscì a produrre soltanto qualcosa sul paesaggio: un fallimento che Na­dezda ricorda con amaro compiacimento. Riferisce perfino i particolari di un altro fallimento, la relazione di Mandelstam con Olga Vaskei nel 1925: «Ancora oggi sono sorpresa dal modo spietato in cui scelse tra noi.»

Una volta lei teneva due cani che definì «selvaggi, viziosi e fedeli», e il primo e l’ultimo aggettivo di quella triade sono applicabili alla sua «registra­zione» dell’«era» sovietica, e in particolare alla sua anatomia dello spirito di compromesso e adattabilità imperante nella tribù dei compagni che scriveva­no con facilità. Non era una poetessa, benché sapesse tutto e le sue memo­rie siano in se stesse un’educazione poetica: ma, come suo marito, anche lei si ri­volgeva al «lettore nella posterità», non come artista ma come testimone. Vi è una nota di gioia quasi materna quando riferisce la trasformazione di Mandelstam: dopo la «Quarta prosa» aveva ripulito l’aria malsana generata dalla denuncia per plagio e dalle sue conseguenze:

I due anni così trascorsi furono ricompensati cento volte di più: il «fi­glio malato dei tempi» ora si rendeva conto di essere in realtà sano (…) Quella di M. fu da allora in poi la voce di un emarginato che sape­va di essere solo e apprezzava il suo isolamento. M. era maturato e si era dato una voce da testimone. Il suo spirito non era più turbato.

Si avverte che per Nadezda la conquista di questo ruolo incorona una vita di sforzo artistico. In un certo modo le sue memorie costituiscono due autobiografie, e quel­la di Osip è più esplicita di quanto non avrebbe potuto fare egli stesso: gli entusiasmi metamorfici di Mandelstam, il suo bisogno di eseguire danze di guerra nel bel mezzo della guerra…  Osip non avrebbe giocato a carte scoperte come ha fatto Nadezda: nelle sue mani le carte sarebbero diventate fluide come l’intero mazzo che sboccia dalle mani di un baro. Non che la sua carica intellettuale o il suo acume morale fossero in qualche modo inferiori a quelli di sua moglie; è una semplice questione di risposta organizzata in modo diverso. Mandelstam era interessato all’essere umano come strumento, a come fosse strutturato e accordato: sua moglie era più interessata al modo in cui lo strumento veniva influenzato dall’intel­ligenza morale.

Come scrittrice, Nadezda possiede un tipo di caparbietà, una brama da perito contabile di penetrare tutto, da rendere un ricordo tanto implacabile quanto disadorno. I particolari rimangono letterali e chiari come rivetti fo­rati dal punzone: l’uovo mai consumato che era stato preso in prestito per offrirlo alla Achmatova; i segni lasciati dalle dita unte di Stalin sui libri che gli avevano prestato; il gesto eccessivamente cortese nel corso del primo interrogatorio di Mandelstam: «Ormai avevo quasi peccato contro la venerabile tradizione stringendo la mano a un membro della polizia segreta. Ma l’interrogatore mi salvò dall’infamia non rispondendo – non stringeva la mano a gente come me – cioè, alle sue vittime potenziali». Si può immaginare Osip, date le circostanze, fare una metafora sulla natura dell’uomo dal modo in cui pronunciava una certa parola.

Per effetto delle loro diverse doti e delle loro vite eroiche, quando Osip morì nel dicembre 1938 e Nadezda morì nel dicembre 1980, nulla morì con loro. Le loro opere hanno accresciuto incommensurabilmente quella «cultura mondiale» alla quale anelavano, e le loro biografie costituiscono un altro tragico esempio di ciò che T.S. Eliot vedeva come quella «condizione di completa semplicità, che costa non meno di tutto».

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).