Salutz

da | Nov 29, 2016

E’ da poco uscita per Il Saggiatore una riedizione di Salutz di Giovanni Giudici, con prefazione di Giovanni Raboni. Di seguito alcune poesie e alcuni passi della prefazione.

I. 1

Minne Midons
E ogni altra cura lasciata
Esploro volumi
Alcuno che racconti:
È successo anche a me –
Dove la mente prigioniera stagni
Vostra o di chi non so
O che voi non sapete
Verso quali pensieri a quali mète
Mai mi svagassi anch’io
Su quella ferma strada
Dove c’incontra (narrano) lo sguardo
Che tutto e insieme vede
Chiamato Dio

*

III. 1

Ma siete voi – voi pure che non siete
Voi che in un tempo al vero
E al non vero equalmente rispondete –
Di viso in viso e corpi
Filtranti noi per futile parete
Poi che quasi da morti
Vivemmo là donde nessuno a dire
Non ritornava non ritornerà
Sub quale specie appaia uno sparire:
Mai lo sapremo mai –
Nell’alba di Toledo vi riudivo
E i tristi carri della pioggia intanto
A un rovo di parole restai vivo –
Se voi non foste non sarebbe il canto

*

V. 2

Voi, Minne, essendo Ulisse e invece io
Un vostro non fedele cane Argo
Che dal gaglioffo oblìo
Ha paura dal misero letargo
Dunque esitando malandato e tardo
A correre a cadere
Gaudioso e morto ai piedi del suo Dio –
Se rivedere voi mai più vedere
Non fosse – non godere
Ignoto già goduto
Gli eternamente istanti immaginati
Bruciati nel fatuo minuto:
Veni de Libano, veni –
Neboj se, maminka se vrátí

*

V. 5

Però colpo ferale
Preciso inaspettato
Come Marat nel bagno assassinato
Non sia per voi mio semplice pugnale
Midons – che a un aldilà
Io garzone perfetto
Compunto quondam chierichetto
Non stravolga sul tavolo tovaglia
Bei calici stoviglia
Cortese avita vostra paccottiglia
Per sfregio per fendente di plebaglia
E cruda voi remota madrefiglia:
Vi scelgo – mia fatale
Orfanità

*

V. 10

My name is Magalhâes
Quanto di mondo e mare
Fu il periplo incompiuto
Mio dirmi e da voi sempre non creduto –
Traviato alla deriva del mio fare
Ahimè che sopravvanza
Assiduo properare
Nera la vela della mia distanza:
Ma sia che per ben esservi leale
A voi mi scrissi quasi più che morto
Essendo la mia lettera il mio corpo
Parola per virtù transustanziale:
In seno a voi riposto
Io pergamena – e inchiostro

*

VI. 2

Poi che diceste che sono
La talpa – o sia
Bestiola della quale non si dà
Lume né biografia –
D’ubbidienza la cieca galleria
Tortuosamente prono
Scavai come la più diritta via
Al mai-saper-dov’è vostro perdono:
Nero del nero, buio
Del buio – il mio peccato
Voi decideste, penitenziarìa
Di tutto e tutto tutto in che ho fallato:
Sempre mi fruga dove più m’infuio
Toro e lione mai non esser stato

*

VI. 4

Sicché voi sareste
Al dir vostro la riccia
Riccio femmina che
A un niente si appalla e aggriccia
Ma su voi rotola una ruota
Un piede v’è addosso vi è sopra
Di voi nell’alba scalpiccia:
Se però già nella radura
Di gelo e di spazzatura
Non foste voi donna di topo
Dal grigio della sua buca
Laido musetto che scruta
Faccia invisibile e pura
Dama Paura

*

VII. 2

Lichtlein che a grado a grado m’abbandona
Così come declina
Candelina nell’alba
E negli anni prestanza di persona –
Onore della lingua mia italiana
A voi, Minne, perlina su perlina
Parola da parola
Io compitavo a un filo di collana
Nota su nota della mia viola
E voce a spente voci di fontana –
Dal cuore della mia profonda cina
Anima senza nome a voi pregando
Consunta vista ormai
Occhi a un tepore di fango

***

Giudici, la poesia alla ricerca dell’ultima maschera

di Giovanni Raboni

Il salutz o salut è un genere dell’antica poesia provenzale; anzi, per essere più esatti credo non si debba parlare d’un genere a sé stante (come sono, mettiamo, il sirventes o l’alba, la pastorela o la tenso), bensì d’una forma particolare e abbastanza rara del più diffuso fra i generi trobadorici, quello della canso (canzone), nel cui ambito il salutz si caratterizza per la struttura esplicitamente epistolare e per l’uso del cosiddetto metro epico, cioè del decasillabo, corrispondente all’incirca all’endecasillabo italiano.

Chiedo scusa per questo piccolo sfoggio di erudizione a buon mercato; ma qualche chiarimento terminologico mi sembra davvero utile, se non indispensabile, per accostarsi all’ultimo e per diversi aspetti stupefacente libro di Giovanni Giudici, che si intitola appunto Salutz e reca, subito sotto il titolo, due date (1984-1986) che suggeriscono un ritmo di composizione assai serrato, addirittura ossessivo, attorno a un nucleo estremamente compatto di ispirazione tematica e formale.

È lo stesso autore a raccontarci, in una breve nota, come quella parola –salutz– gli sia entrata quasi fortuitamente nell’orecchio e nell’immaginazione. Il salutz va inteso, suppongo, come una parte per il tutto, cioè come emergenza acuta e istantanea di una vasta e complessa memoria letteraria che comprende, accanto alla tradizione trobadorica, quella della lirica cortese altomedioevale d’area austro-bavarese: tant’è vero che Giudici, oltre alle parole provenzali Midons (cioè «mea domina» madonna) e Domna, usa con non minore frequenza la parola Minne (amore), estrapolata con ogni evidenza dai testi dei Minnesänger germanici.

[…]

La poesia di Giudici è divenuta e si è formata, sin dai primi esiti riconoscibilmente autonomi, attraverso successive «colate» della propria inconfondibile e unitaria sostanza dentro diversi stampi o maschere (la maschera del piccolo borghese querulo e frustrato, la maschera del libertino timorato di Dio, la maschera quasi invisibile dell’io spudoratamente «mis à nu»…). Ad esse corrispondevano, via via, altrettante funzionali alterazioni della voce, altrettanti «falsetti», altrettante «imitazioni» dell’eloquenza o dell’afasia, che genialmente non coincidevano mai né con se stessi né col proprio contrario, realizzando ogni volta un tipo nuovo e sottilmente complementare di verità-simulazione espressiva.

A questa straordinaria agilità e spregiudicatezza linguistica (oltre che, si capisce, a una non meno articolata ricchezza di motivi esistenziali e di motivazioni etiche e intellettuali) dobbiamo alcuni fra i testi poetici più emozionanti e perfetti di questi decenni. Ebbene, a me sembra che Salutz, lungi dal significare un’improvvisa, «scandalosa» ritrattazione della storia formale che lo precede, ne costituisca uno scatto ulteriore, una nuova e inaspettata e inevitabile accelerazione: all’ultima delle sue maschere, Giudici ha sostituito o sovrapposto la maschera estrema e remota –atrocemente impassibile e patetica come il volto di Buster Keaton– del trovatore, del poeta cortese, dell’amante gotico…

[…]

Un bisogno feroce di confidenza e di pietà, un magma ondoso, ripugnante di suscettibilità e di dolore strisciano e ribollono sotto una superficie tanto apparentemente tesa e impeccabile quanto, a saper guardare, segnata come il sudario di un torturato da un fittissimo reticolo di lividi e ferite, di spaccature e secrezioni. Inventata, mai finta, la lingua di questi versi corrode di continuo la propria patina antiquariale, organizza infaticabilmente la trasgressione di se stessa e della sua stessa trasgressione, nutre da viva i vermi della propria corruzione e «modernità».

È difficile credere che Giudici si attesterà su questa incarnazione; anzi, già nei venti versi del congedo sembra di cogliere un impeto diverso, una scabra, macabra ruvidità da gesso funerario. Ma certo il punto cui è arrivato con Salutz è un punto molto alto e, nel più forte e nobile dei sensi, senza ritorno.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).