Quattro quartetti

da | Dic 14, 2017

Pubblichiamo la sequenza Burt Norton dei Quattro quartetti di T. S. Eliot dall’edizione Raffelli (2017) con l’introduzione di Elio Grasso che ha curato la traduzione.

LA VISIONE DI UN FUTURO

Burnt Norton venne pubblicato nel 1936. Eliot, durante l’estate del 1934, visitò un castello disabitato nel Gloucestershire: il suo nome ispirò al poeta il titolo del primo Quartetto. Il tema del tempo, passato e presente, prende avvio dalla quantità di testimonianze visibili in quel luogo geografico. Fin dai primi versi inizia la meditazione sulla ciclicità, sulla compenetrazione dei differenti stati (mentali e terreni), tra principio e fine. Ogni indagine umana, dentro e fuori la psiche, non può fare a meno di soffermarsi sul movimento alterno della memoria, e su ciò che viene avvertito come scorrere del tempo. L’astrazione del “quanto poteva essere” ha qui la sua maggiore influenza. Il giardino delle rose di Burnt Norton spinge Eliot a considerare le antiche vestigia, in rapporto con l’altalena delle stagioni, con la fecondità e l’aridità, con la giovinezza attuale e i bimbi sorridenti. Si tratta, per lui, di attraversare con rinnovata leggerezza i suoni ospitati nel giardino del tempo, dove la distanza fra il giorno e la notte, fra le diverse ore, non è più la stessa, e tutto viene annesso alle cadenze relative del pensiero che insegue la memoria. La memoria – Eliot lo scrive con pacata accuratezza, distanziandosi dalla straordinaria e furiosa scorribanda nella Waste Land – non è soltanto oltrepassare un cancello, ma osservarne attentamente le sbarre e la materia di cui è forgiato. La maturità conduce il poeta quarantottenne (lungo un itinerario durato sette anni, dal 1936 al 1942) a una svolta dove la concentrazione sulle cose si acutizza, disegnando un paesaggio esteriore che diventa presto interiore, grazie alle evoluzioni del tempo che tutto trasforma. E che viene trasformato dagli elementi fondamentali del mondo: aria, terra, acqua, fuoco. “Concentrazione senza eliminazione”, egli scrive, là dove sarebbe un errore contrastare la forza che trasfigura debolezze e resistenze. La coscienza (consciousness), permessa dai tempi, è sufficiente all’uomo per meditare sull’epoca e scrivere poesia. Negli stessi anni Wallace Stevens compone alcune delle sue più belle pagine sul tempo e sulle cose in esso immerse. Certo, a conti fatti, fra i due il numero delle discordanze è ben più alto di quello delle affinità, ma è indubbio che un approccio del genere lascia impronte omogenee nell’affresco della storia letteraria di lingua inglese. Della stessa consistenza oggi ci appaiono certi versi posti di fronte alle intemperanze di una giornata soleggiata in Connecticut o nel Gloucestershire: ma, lo sappiamo, America e Inghilterra, quanto meno, si trasfondono l’una nell’altra. Se non nel paesaggio, almeno nella memoria.

East Coker, pubblicato nel 1940, quattro anni dopo Burnt Norton, è la seconda, ideale parte di quello che venne subito considerato un poema unitario, legato in sé per temi, assonanze e ricorrenze. Prende il titolo dal nome di un villaggio del Sommersetshire, da cui emigrò un antenato di Eliot. In questo secondo Quartetto torna sempre più minuziosa la meditazione sul tempo, e sul consumarsi della terra, fra rocce e giardini. Nel pieno disordine che regna là dove le cose si trasformano l’una nell’altra. L’uomo e la donna, uniti in una danza matrimoniale e dunque sessuale, restano in questo mutamento, inconsapevoli o decisi, anche pesantemente, a proseguire il cammino, a seguire le epoche. E giunge la guerra, lo sconvolgimento delle stagioni e delle costellazioni ha un seguito nei minacciosi avvenimenti di quegli anni. Occorre fronteggiare chi distribuiva saggezza e svernava oltre l’incomprensione, chi sembrava conservare tutte le conoscenze utili a preservare. La palude è la conseguenza di una terra che riconosce la propria desolazione quando s’esaurisce la danza d’amore e inizia quella armata. Se c’è passione nel destino degli uomini, fonte di dolore e oscurità, l’attesa diviene quasi unica fonte di speranza – l’attesa di un ulteriore mutamento, se non di riordino stagionale. Il purgatorio ha bisogno di parole umane per il suo sostentamento. La carne appaga altri uomini, prima ancora che la salute venga rinnovata. Eliot cerca le parole con la consapevolezza che gli strumenti talvolta sfuggono, sono imprecisi, si guastano subito nell’uso. Ricominciare là dove era sembrato di riconoscere una dimora, rivelandosi invece il posto di un’ulteriore tappa. Il principio della casa diventa la sua fine e insieme il principio di un avanzamento.

Con The Dry Salvages, pubblicato nel 1941, appena un anno dopo East Coker, Eliot torna in quella parte degli Stati Uniti dove trascorse la prima giovinezza, così come spiega nella nota esplicativa posta all’inizio del Quartetto. Nel fiume dell’infanzia, il Mississippi, rifluisce un simbolismo accostato alle rinnovate valenze della terra e del mare, che sempre portano lavoro, forza, speranza. Il dio bruno, il fiume, attraversa la terra verso un mare che mostra i relitti e i diversi destini dei naviganti. L’alternanza fra liricità e una forma fortemente imparentata con la prosa segue il passo rivolto al trasporto più prettamente musicale e alla vigorosa meditazione sul senso del tempo e della vita. Il viaggio per mare e per terra prosegue nel Quartetto, il ritorno delle immagini è lento così come accade nella realtà, e non valgono gli sforzi che talvolta si crede di rendere decisivi per contrastare o favorire la cronaca. Le diverse vie, da Eraclito a Krishna, descritte con modi differenti ma con eguale rispetto per la vita e per il pensiero umano, non cambiano se si perseguono passi fuori dai giudizi e dai premi immediati. Il viaggio, dunque, è quanto di meglio si possiede per contrastare la morte, soprattutto la morte del pensiero. La concretezza della terra contiene preghiera e accenni di chi non si dà pace quando osserva le distanze incolmabili: da un posto a un altro, da un uomo a un uomo, da un uomo a una donna, è destino comune raccogliersi in una disciplina che non tolga a nessuno la forza del desiderio. Proprio dove passato e futuro si riconciliano.

Little Gidding è un paese del Huntingdonshire: lì sorse, nel 1626, una comunità religiosa successivamente soppressa da Cromwell. L’ultimo Quartetto venne pubblicato nel 1942. Eliot scopre in quei paraggi, e lo trascrive, il fenomeno di una primavera invernale che mostra, a chi sa osservare, un tempo eterno, una dimora nei ghiacci. Lo scontro col tempo “sconveniente” fa parte dell’intima vita di un’intera generazione. Non basterà la semplice visita a una cappella votiva per scongiurare i pericoli, per scacciare le bombe e la tecnologia bellica. Ma la preghiera impone un diverso ordine alla mente quando essa dà spazio alla sua vera natura di dialogo con i morti. Eliot giunge adagio a questa fedeltà religiosa, e da lontano, se è vero che da Eraclito prende forma il primo concepimento dei Four Quartets. L’esito, sotto forma di cenere, non dà scampo a chi ha ancora occhi per vedere, poiché è stato contaminato dalla profezia del fuoco radioattivo. Basteranno la tensione d’amore, la voce di un richiamo, a impedire il termine dell’esplorazione, quel principio che ha permesso all’uomo di salvarsi, pur costeggiando la catastrofe? La risposta di Eliot non ammette semplicità a basso prezzo, né esperienze separate da un giro di “fuoco e rose” – incendio e arbusti uniti in un nodo. Le possibilità rigenerative del mondo, dopo la malattia esplorata nella Waste Land, sono infinite: lo dimostrano le pagine dei Four Quartets, tessute con gli stessi elementi primari che ci compongono. Riconoscere la distruzione è un’espressione di civiltà che da sempre ci appartiene, anche quando tutto appare indecifrabile, quando la continua ricerca trova ostacoli duri, inattaccabili. Quanto vediamo alle spalle (Eliot, nel bene e nel male, indica una via) coincide, in un tempo fortemente indagato, con la visione di un futuro che possiede ancora grandi aperture nell’indissolubile intreccio di vita e morte, di movimento interminato. Parole erranti, che individuano il disastro e il consumo inopinato dell’innocenza. Parole che sono viaggio interminabile, e che riconoscono le diversità affioranti dall’abisso, le aperture infinite di ogni migrazione.

Elio Grasso

Burnt Norton

I

Tempo presente e tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro,
il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo è eternamente presente
tutto il tempo non è riscattabile.
Quanto poteva essere è un’astrazione
che rimane come perpetua possibilità
soltanto in un mondo d’indagini.
Quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.
Eco di passi nella memoria
nei passaggi dove non c’incamminammo
verso la non spalancata porta
sul roseto. L’eco delle mie
parole, nei tuoi pensieri.
Per quale scopo
sollevino polvere da una coppa di foglie di rosa
io non so.
Altri echi
abitano il giardino. Vogliamo seguirli?
Presto, disse un uccello, trovateli, trovateli,
oltre l’angolo. Attraverso il primo cancello,
nel nostro primo mondo, seguiremo
il tranello del tordo? Nel nostro primo mondo.
Erano là, degni, invisibili,
passavano leggeri sulle foglie morte,
nel tiepido autunno, nell’aria vibrante,
e l’uccello chiamava, rispondeva
a una musica mai sentita e nascosta nel bosco,
attraversava uno sguardo mai visto, poiché le rose
avevano l’aspetto di fiori ben studiati.
Erano là come nostri ospiti, accolti e accoglienti.
Così andammo con loro, solennemente,
per il viale deserto, fino alla rotonda,
a guardare lo stagno prosciugato.
Dapprima arido, solido e bordato di scuro,
lo stagno sotto il sole si riempì d’acqua,
lentamente spuntarono i fiori di loto,
la superficie brillò sotto il cuore luminoso,
ed essi, dietro di noi, si rispecchiarono.
Passò una nuvola, e lo stagno si svuotò.
Andiamo, disse l’uccello, tra le foglie frotte di bimbi
si nascondevano eccitati, trattenendo le risa.
Via, via, andiamo via, disse l’uccello: gli uomini
non sopportano troppa realtà.
Tempo passato e tempo futuro
quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.

II

Aglio e zaffiri nel fango
incrostano l’asse confitto.
Un vibrante filo di sangue
canta nelle perenni cicatrici
calmando le guerre dimenticate.
La danza nell’arteria
la circolazione della linfa
raffigurate nel moto delle stelle
crescono nell’estate arborea –
spostiamoci sopra l’albero mutevole
illuminati tra le foglie incise
ascoltiamo sulla terra bagnata
il levriero e il cinghiale
seguire la solita trama
ma riconciliati fra le stelle.

Nel punto fermo del mondo che svolta. Né carne né senza carne;
né da né verso; nel punto fermo, dov’è la danza,
né arresto né movimento. Non chiamarla fissità,
dove passato e futuro sono raccolti. Né movimento da né verso,
né ascesa né declino. Se non nel punto, nel punto fermo,
non c’è danza, e c’è soltanto danza.
Posso dire soltanto, là siamo stati: ma non posso dire dove.
E non posso dire per quanto, perché lo porrei nel tempo.
La segreta libertà dal desiderio pratico,
lo svincolo da azione e da sofferenza, lo svincolo dallo sforzo
segreto e visibile, tuttavia circondati
dalla grazia del senso, bianca luce ferma e in movimento,
Ehrebung immobile, concentrazione
senza eliminazione, il mondo nuovo
e il vecchio ben dichiarato, compreso
nell’integrità della sua incompleta estasi,
nel risolversi del suo incompleto orrore.
Tuttavia la stretta fra passato e futuro,
intrecciati nella debolezza del corpo trasfigurante,
protegge gli umani dal paradiso, dalla dannazione
che la carne non può sopportare.
Tempo passato e tempo futuro
permettono soltanto poca coscienza.
Essere cosciente non è essere nel tempo
ma soltanto nel tempo il momento nel roseto,
il momento sotto il pergolato dove batte la pioggia,
il momento nella chiesa piena di correnti e fumi,
si possono ricordare; uniti al passato e al futuro.
Soltanto col tempo il tempo è conquistato.

III

In questo posto si perde l’affetto,
tempo anteriore e tempo successivo
in una debole luce: né la luce del giorno
che colpisce le forme di lucida quiete
che trasforma le ombre in bellezza fugace
e ruotando lenta suggerisce durata,
né la tenebra, purificano l’anima
che vuota la sensualità con la rinuncia
pulendo l’affetto dalla temporalità.
Né pienezza né vuoto. Soltanto una vibrazione
sui volti tesi e tormentati
distratti per distrazione da distrazione
ricolmi di fantasie e vuoti di significato,
apatia rigonfia priva di concentrazione,
uomini e carte nel turbine di un vento gelido
che soffia prima e dopo il tempo,
vento dentro e fuori polmoni ammalati
tempo anteriore e tempo successivo.
Eruzione d’anime insane
nell’aria scolorita, gente intorpidita
sospinta dal vento che spazza le cupe colline di Londra,
Hampstead e Clerkenwell, Campden e Putney,
Highgate, Primrose e Ludgate. Non qui
non qui le tenebre, in questo mondo gorgheggiante.

Scendi giù, scendi soltanto
nel mondo della solitudine perenne,
mondo non mondo, ma ciò che non è mondo,
tenebra interiore, privazione
e deposizione di ogni proprietà,
essiccazione del mondo del senso,
evacuazione del mondo fantastico,
ozio del mondo spirituale;
questa è una strada, l’altra
è la stessa, non nel movimento
ma rinunciando ad esso; mentre il mondo si muove
voglioso, sulle sue compatte strade
di tempo passato e di tempo futuro.

IV

Tempo e campane hanno sepolto il giorno,
una nube oscura porta lontano il sole.
Il girasole e la vitalba si piegheranno
verso di noi; viticci e ramoscelli
stringeranno, abbracceranno?
Ci avvolgono
fredde dita di tasso?
Dopo che l’ala del martin pescatore
ha risposto con luce alla luce, e tace, è ancora
nel punto fermo del mondo che svolta.

V

Le parole si muovono, la musica si muove
soltanto nel tempo; ma ciò che soltanto vive
può soltanto morire. Le parole, dopo il dialogo, giungono
al silenzio. Soltanto con la forma, con un modello,
le parole o la musica possono giungere
alla quiete, come un vaso cinese
si muove perennemente nella sua quiete.
Non la quiete del violino, finché la nota resiste,
non soltanto quella, ma la coesione,
o diciamo che la fine precede il principio,
e la fine col principio erano sempre lì
prima il principio e dopo la fine.
E tutto è sempre ancora. Le parole si tendono,
s’incrinano e talvolta si spezzano, sotto il peso,
per la tensione, sfuggono, scivolano, rovinano,
imprecise decadono, non restano a posto,
non restano ferme. Voci strillanti
richiamano, deridono, o soltanto discorrono,
sempre assalite. La Parola nel deserto
è più aggredita da voci tentatrici,
l’ombra piange nella danza funebre,
il forte lamento della chimera scoraggiata.

Il dettaglio del disegno è movimento,
come nella figura delle dieci scale.
Il desiderio è movimento,
non per sé desiderabile;
l’amore è immobile,
soltanto origine e fine del movimento,
senza tempo, e senza desiderio
eccetto nell’aspetto del tempo
raggiunto nella forma del limite
tra il non-essere e l’essere.
Inattese in un raggio di sole
mentre la polvere si muove
si alzano le risate nascoste
dei bimbi nel fogliame
presto, qui, ora, sempre –
ridicolo, sprecato e triste tempo
che prima e dopo si stende.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).