Poeti, artisti, plaquette. Terza parte – Intervista a Meri Gorni (edizioni En Plein Officina)

da | Apr 11, 2014

di Marco Corsi

Abitare il linguaggio nello spazio delle immagini; uscire dalla prospettiva geometrica del quadro o del fuoco di un’inquadratura per indovinare dei profili ulteriori; prolungare in maniera visibile le forme e le condutture dell’esistenza. Tutte queste, seppure generalizzate, sembrano le ipotesi più accreditate che il lavoro di Meri Gorni dimostra: lo dimostra attraverso i lavori e le serie esposte in diverse occasioni e in sedi prestigiose (fra le altre ricordiamo almeno: il Museion di Bolzano, il Kunst Meran Art di Merano, il Kunstraum di Monaco, il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce di Genova); lo dimostra il suo laboratorio domestico, a Palazzolo Milanese. Una nota a parte certamente merita Come promesso (Corraini 2013), volume pubblicato in occasione della mostra Andata e ricordo. Souvenir de voyage, tenutasi al Mart di Rovereto dal 21 giugno all’8 settembre 2013, durante la quale erano esposti ritratti in bianco e nero di donne antiche e di donne contemporanee, accompagnati da missive dedicatorie riportate come pegno della loro immagine, come segno tangibile di un sentimento de lonh, giunto da lontano e da lontano vissuto, al pari della passione della loro lingua, sempre originale e sempre di grafia diversa.

[M. Gorni, “Ti mando, come promesso, il mio ritratto”. Installazione, 2007]

Invero uno dei cataloghi più rappresentativi del lavoro condotto negli anni da Meri, almeno nelle sue ultime fasi, è quello intitolato Nel sogno parlavo con Dostoevskij (Martano Editore 2010), introdotto da uno scritto che porta un titolo involontariamente volponiano: Con testo a fronte. Ripartiamo da qui: «In tutte le mie immagini (disegni e fotografie), c’è un libro. Il libro mi ha sempre incantato anche come forma, come contenitore. Lo si può aprire, chiudere, leggere, guardare. Ha sempre mosso la mia fantasia. Mi ha sempre condotto a grandi trasvolate psichiche. Leggere un libro è guardare dall’altra parte del cannocchiale: vedere la propria curiosità riflessa, qualcosa di nuovo o di vecchio di noi stessi che ci era sfuggito. Leggere un libro è come scorrere le parole-figure della nostra infanzia che risuonano in noi insieme al paesaggio di allora. Ogni libro che leggiamo aggiunge qualcosa alla conoscenza di noi stessi. Non si è mai uguali a prima dopo aver letto un libro. Scrivere è legare tra loro le immagini della memoria; è riscattare le vicende che nella realtà sono frammenti, sempre mancanti di qualcosa». Queste parole di Meri somigliano ad altre che ci siamo scambiati a voce, mentre sfogliava davanti a me opere più o meno feroci, tutte concentrate sull’uso della fotografia, del fotomontaggio manuale, del ritaglio fotografico, e sull’innesto di questo in una prospettiva grafica assolutamente riduttiva eppure profonda, accompagnata dal segno del lapis sulla pagina, come per prolungare il racconto di un’immagine ancora viva.

Fotografie fermate sulla carta con delle graffette e sottoscritte da brani più o meno celebri della letteratura mondiale, vergati a mano (e ancora col lapis) dall’artista, meno alcuni dati oggettivo-soggettivi impressi per sempre col torchio (date che si legano, per l’appunto, alla lettura di libri, tra i quali figurano: i Saggi di Bacone e gli Scritti di Bazlen, la Commedia di Dante e Orlando della Woolf, i Deserti luoghi di Marina Cvetaeva e I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke).

[M. Gorni, “Le figure del romanzo”, 2013]

Se questo vale più o meno sommariamente ad inquadrare, forse in maniera non del tutto impressionistica, l’opera di Meri Gorni, certo il nostro interesse in questa sede si rivolge all’attività delle edizioni En Plein Officina da lei realizzate tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del decennio successivo e dedicate, nello specifico, al rapporto tra poesia e immagine, tra autore e artista, tra il concetto di opera e l’opera di concetto. Parliamone con lei, producendo alcune sollecitazioni, condizionati – come ovvio – dall’attesa di alcune risposte.

Meri, da cosa nasce il desiderio di stampare poesia e cosa significa “En Plein”?

Il progetto En Plein Officina nacque, un po’ per caso, nel 1996 insieme al desiderio di condividere il piacere della lettura: stampare poesie per regalarle agli amici. L’idea e l’invenzione di una “casa editrice” fu la spinta che mi fece comprare un torchio.

Ogni libretto che stampavo conteneva tre o quattro poesie, scritte appositamente per questo progetto da un poeta, oltre all’immagine di un artista. Chiedevo infatti a un artista di creare un’immagine o di cercare nel suo archivio quella immagine che più si avvicinava alla poesia o all’immagine della poesia stessa.

Il mio era un passaparola, il  tentativo di coinvolgere persone ed esperienze in un incontro continuo tra immagine e parola, tra poeta e artista.

L’artista sarebbe stato, in questo modo, il primo lettore delle poesie che stampavo.

Ho intitolato la raccolta dei libriccini Colonne.

«En plein» è un termine usato nel gioco della roulette e indica l’uscita del numero su cui si è puntato singolarmente e con cui si ottiene la massima vincita. Il progetto di stampare dei libretti di poesia era per me come una scommessa perché comportava un lavoro a lungo termine, molta energia e l’incognita del risultato. Ho puntato molto su questo lavoro e credo di essere riuscita nel mio intento: di avvicinare l’immagine alla parola.

[“Colonne”, 1996-2006]

Quale rigore comporta il torchio?

Comporre un testo con i caratteri a piombo per la stampa richiede grande precisione, pazienza e concentrazione. In questo lavoro, che svolgevo al mattino per avere di fronte a me più tempo, ci mettevo tutta me stessa. La poesia, durante la sua stampa, mi si rivelava totalmente: scoprivo, per esempio, impreviste insistenze di certe vocali o consonanti, ritmi segreti e consonanze nascoste in un verso, strani giochi di rimandi fra le lettere… C’erano poeti la cui poesia  pullulava di effe piuttosto che di emme: e io me ne accorgevo solo a composizione finita, quando il cassetto di una lettera rimaneva totalmente vuoto. Ricordo, mentre componevo, la sorpresa nel constatare che una poesia aveva avuto bisogno di tutte le o del cassettino, e di fatto la poesia era una esclamazione di sorpresa di fronte a qualcosa. Ogni lettera dell’alfabeto vibra di significati nascosti e scoprirlo era per me come entrare nel mistero della parola. Io non so cosa sia la poesia ma, frequentando i poeti, ho imparato che la poesia è la sola a tenere unita l’umanità, a contenere la nostra piccola vita e quella grande, la poesia ha il grande compito di risvegliare dentro di noi il desiderio di libertà. E la mia libertà, adesso sono in grado di dirlo, è stata esplorare l’alfabeto sempre nuovo delle parole, assecondarle  nel loro brulichio d’immagini. Ho stampato fino al 2007 quando le mie Colonne hanno raggiunto i due metri d’altezza.

Che rapporto vivi nel tuo quotidiano con le parole e con le immagini, e quanto di questo si traduce nella scelta di pubblicare autori e artisti?

Per me la parola non è solo un concetto. Il significato riportato dal dizionario è solo una parte…e certe definizioni le trovo insufficienti anzi insoddisfacenti… Allora cerco di risignificare le parole, di connettere il loro dentro col loro fuori e di entrare nel loro caleidoscopio di significati. Da quindici anni, per fare un esempio, sono impegnata a costruire un vocabolario visivo. Ad ogni parola faccio corrispondere un video. Tutti i video si intitolano Vocabolario alla voce: … (e segue la parola). Ogni video è per me come uno scavo nell’esperienza, nel mio mondo affettivo. Le parole sono per loro stessa natura piene di echi, di ricordi, di associazioni: nel corso dei secoli sono uscite e passate per le nostre labbra, nelle nostre case, nelle nostre strade. Nel video l’immagine mi ha aiutato a restituire alla parola il gesto che è stata, a rendere presente ciò che è assente; nel video ogni parola ha un colore e temperamento e una durata differente. In ogni video cerco di restituire alla parola quella immagine affettiva che le appartiene e che la mente razionale in genere tiene separata. Ciò che muove la mia immaginazione, infatti, e che mi spinge verso una precisa parola non è solo la conoscenza ma, prima di tutto, un’emozione. Il mio lavoro – installazione, fotografia, performance, disegno e video –, come avrai capito,  ruota tutto attorno alla parola e la parola della poesia è un distillato di sensazioni, di emozioni, è un luogo di verità, ecco perché sono arrivata a stamparla.

Il mio vocabolario visivo risponde dunque al desiderio di ricoprire di parole le immagini e di immagini le parole.

[Disegni e fotografie degli artisti di En plein officina]

Nel catalogo delle tue edizioni, per tornare in argomento, leggo tanti titoli di tanti poeti diversi, da Sanguineti a Rossi, da De Angelis a Majorino a Vivian Lamarque, da Loi a Heaney. Ci sono tra tutti i nomi che puoi ricordare dei maestri, dei sodali, dei compagni di strada?

Ascoltare un poeta leggere mi ha sempre affascinato. La lettura ad alta voce comporta la presenza di tutto il corpo. È un esserci con i gesti, con i movimenti della testa, delle braccia e della bocca. La bocca, in particolare che obbedisce a intonazioni, a ritmi e cadenze e che si adegua al corpo delle parole – le mastica, le espelle impastate con la saliva e con le fa vibrare l’aria. È, quello della lettura a voce alta, un mostrare l’esaltazione che la parola suscita in sé: la docilità al pensiero e all’immaginazione. Ho seguito molte letture dei poeti che stampavo e ogni incontro è stato, per me  una esperienza di vita. Ricordo l’emozione di tutti in occasione della mia prima performance (1996) alla quale avevo invitato molti poeti e durante la quale esponevo i miei libretti. Performance e esposizione che, prendendo a prestito un verso di Paul Celan, avevo intitolato La poèsie ne s’impose plus, elle s’expose.

Ricordo poi che Edoardo Sanguineti, in particolare, amava moltissimo frequentare l’arte visiva e quando lo invitai a parlare d’arte in un workshop che tenevo a Trieste: ricordo che era affascinato e molto curioso di capire il lavoro dei giovani artisti presenti. Un altro aneddoto simpatico fu quando, in un gioco radiofonico, Sanguineti scrisse lì per lì una poesia per me: «Il mio libro sei tu ». Iniziava così il suo Radiosonetto. E che dire quando la plaquette da me stampata è comparsa nella bibliografia del «Meridiano» di Seamus Heaney Mondadori?  È stato per me un simpatico e inaspettato ringraziamento. Tiziano Rossi, quando lo raggiunge la notizia di una mia mostra o pubblicazione, ancora oggi mi scrive affettuosi bigliettini. Con Nicola Gardini e Vivian Lamarque,  dopo la serata all’Hotel “Europoa & Regina” di Venezia, ho visitato la tomba di Josif Brodskij. L’Hotel, che aveva accolto la mia proposta di mettere sul comodino accanto alla Bibbia un libretto di poesia, ci aveva ospitato per una notte in lussuosissime camere sul Canal Grande. Con Vivian, dispensatrice di preziosi consigli (sull’amore), mi sento spesso. Con Nicola girerò un altro video.

Se ti dico Biennale di Venezia e castello di Duino a cosa pensi?

Penso ad una esperienza bellissima. Al castello di Duino, nell’ambito del Collegio del Mondo Unito, organizzai nel 2000, insieme ai poeti Gabriella Musetti e Roberto Dedenaro, un incontro-convegno tra artisti e poeti. Lo intitolai  Residenze estive, proprio perché si teneva d’estate e voleva essere una condivisione di esperienze, di spazio e paesaggio. La mattina gli artisti mostravano e spiegavano il loro lavoro e la sera i poeti leggevano le loro poesie. Attraverso Residenze estive  desideravo creare un momento dove fosse possibile incontrarsi, confrontarsi e dove si potesse indagare e raccontare il primo agitarsi della mente intorno a una parola, a una immagine. Realizzare questo tipo di incontro voleva dire per me diminuire la distanza tra artista e poeta, tra immagine e parola, rendere meno astratto quell’incontro che da anni cercavo di creare con la stampa delle mie plaquette. Questa esperienza è stata tradotta poi nel  libro intitolato Residenze estive e pubblicato da Il Ramo d’oro di Trieste, con traduzione in sloveno.

Alla Biennale di Venezia del 1999, curata da Harald Szemann, nell’ambito del progetto Oreste, assieme agli artisti Pietroiusti e Fantin, invitai i poeti a leggere i loro testi. Come ci si incontra con i poeti, fu il titolo di quella indimenticabile estate che rispondeva ancora e in parte all’intento di conoscere da vicino chi scrive. «Quando leggo un libro e mi accorgo che vorrei essere amico del suo autore (morto o vivo che sia), quello è per me il maggior frutto della lettura. E gli autori di cui vorrei essere amico sono quelli in cui l’arte è illuminata da una severa comprensione umana», per dirlo con le parole di Montale. Questo avvenimento oggi è testimoniato dal volume Oreste alla Biennale, pubblicato da Charta nel 2000.

[M. Gorni, “Nadym”, 1996]

Per salutarci, un pronostico: torneranno davvero a parlare insieme poeti e artisti?

Lo spero! Avrebbero molto da dire e raccontarsi.

In un mondo che ci vuole sempre distratti l’arte ci porta al centro di noi stessi.

In fondo, l’arte (tutta l’arte) ha il compito di ricondurre lo sguardo dalla prosa alla poesia. L’artista, per sua natura, si colloca in uno spazio che sta al limite della conoscenza, in uno spazio tra l’inconscio e il cosciente. In questo spazio l’opera prende vita e si trasforma, fino a cambiare se stessa. E questo movimento, inevitabilmente, si ripercuote verso l’esterno, nella società, nell’esperienza dell’intera umanità.

Poeti, artisti, plaquette. Prima parte
Poeti, artisti, plaquette. Seconda parte