Il nostro omaggio a Vittorio Sereni continua con Il silenzio creativo, una prosa tratta da Gli immediati dintorni (Il Saggiatore, 1962), che è stata poi raccolta nel volume La tentazione della prosa (Mondadori, 1998). Il testo contiene importanti indicazioni di poetica, oltre ad essere un documento dell’evoluzione della poesia di Sereni da Diario d’Algeria (1947) a Gli strumenti umani (1965).
L’umiliazione del non farcela più. L’umiliazione del lamentarsene, dell’essere in angustie per questo, il brutto spettacolo che uno dà di sé quando si perde in angosciate confidenze su questo.
Conosco uno scrittore che giunto all’età matura non fu più capace, per anni e anni, di scrivere un rigo. Qualche amico più paziente degli altri lo consolava rimproverandolo: di essere incontentabile, troppo severo con se stesso. Che non scrivesse un rigo e nemmeno ci provasse (salvo le rare volte che ci provava come di nascosto da se stesso) era vero alla lettera; ma quelli non ci credevano. Altri ci credevano, magari, ma allora gli attribuivano un’esemplarità, cercavano di convincerlo che il suo silenzio, certamente provvisorio anche se prolungato oltre il normale, era di per se stesso una virtù, una prova di coerenza e rigore. Quanto più esatto V., violento e sboccato: «Quello? Ma quello è come uno che non è più capace di…».
Per quanto ne so, quello scrittore non tenne un diario della propria impotenza – tentazione nella quale si può anche incorrere con la scusa di trovarvi un incentivo risolutore. Ma che male c’è se uno non scrive più? C’è qualcosa di vergognoso in questo? Di vergognoso non c’è che la vergogna di vergognarsi dello stato di impotenza. Uno dovrebbe avere la forza di convertire in altro che nello scrivere l’energia che non sa più usare in quella direzione. Invece no, di solito si sente diminuito, magari socialmente; segno che prima riteneva di avere rilievo sociale per effetto della qualifica di scrittore, di dovere a ciò la propria identità. Al limite, il sentimento di destituzione che ne deriva sfiora la contraddizione e l’assurdo, cade in un giro vizioso: posto che si scriva se si ha qualcosa da dire, uno che non ha niente da dire soffre di non scrivere più, di non essere più uno scrittore… Finisce la vita per questo? Può finire nel caso che il vizio di partenza si sia spinto così oltre, si sia propagato fino a questo punto, di aspettarsi una figura umana, una parte o un posto tra gli altri della qualifica di scrittore. Non c’è dubbio, d’altra parte, che l’espressione «qualcosa da dire» è estremamente, gravemente approssimativa. Che una cosa c’era da dire, e quale, quante volte non lo si capisce solo a cose fatte, cioè a cose scritte? E magari diversa, profondamente diversa da quella che s’era supposto sull’avvio? Per taluni un discorso come questo non ha senso se non parte dalla domanda: perché e per chi si scrive? Non sono dei loro, pur dando a volte prove di buona volontà nella loro direzione. Una volta mi fermavo a un’ipotesi semplice: che la cosa da dire fosse in fondo o un momento o un luogo della propria esperienza (esistenza) da salvare. Ma è una posizione sulla quale non si può resistere a lungo, sia come narratore che come scrittore di versi. Per uno scrittore di versi (è la mia esperienza; ma non tengo molto alla distinzione dal narratore e dallo scrittore in genere, anzi la evito) è invece un grosso pericolo, la buffa illusione dell’eterno e dell’eternare: quante macchinette automatiche, e quanto sonno e quanto silenzio allignano in esse: poco importa se silenzio scritto o assenza di scrittura.
Se poi il ghiaccio si rompe, c’è il caso che un’ipotesi retrospettiva su quel silenzio lo definisca fecondo e necessario. Ma più della giustificazione di esso interessa forse l’identificazione del peso psicologico che esso rappresenta, dello smarrimento con cui veniva a coincidere. Si trattava dunque del venir meno di un tramite, della rottura di un rapporto vitale con la realtà? A me un’ipotesi del genere ha l’aria di un espediente inteso a nobilitare un’inerzia o quanto meno sa d’astratto e rimediato. È al tempo stesso troppo psicologica. Mi persuade di più un’altra ipotesi, che – se non altro – è più interna alle ragioni di lavoro di uno scrittore, tocca più da vicino la sostanza concreta delle sue ansie, paure, perplessità; ma anche delle sue speranze e progetti. Si convive per anni con sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi. Il senso di rarità o eccezionalità che a ragione o a torto si attribuisce ad essi, forse in relazione con l’intensità con cui l’esistenza li impose, è la prima fonte di insoddisfazione creativa, anzi di riluttanza di fronte alla messa in opera, che si traduce (peggio per chi non la prova) in nausea metrica, in disgusto di ogni modulo precedentemente sperimentato… Si convive con le proprie intenzioni, con spettri di poesie non scritte… Un poeta invidierà sempre a un narratore, sia questi o no di stampo tradizionale, quella specie di sortilegio evocativo con cui l’altro dà corpo, illusorio fin che si vuole, a figure, situazioni, vicende, ben oltre la voce, l’accento, la formulazione lirica immediata. L’insoddisfazione tocca, in particolare, questo ultimo punto. E non è un caso che il termine «lirica» e l’aggettivo che gli corrisponde siano da tempo, almeno presso alcuni, caduti in disuso. Allo stesso modo non è prodotto del caso (e direi neanche salutare) la rinunzia a chiedersi che cosa sia, in assoluto, la poesia. Molto più senso di una simile domanda mi pare abbia l’individuazione di un piano di sviluppo delle emozioni che porti a raffigurare sotto un angolo specifico il rapporto tra esperienza e invenzione: la ricerca di un tale angolo e d’un tale rapporto segna il passaggio dalla fase negativa del silenzio di cui discorrevo alla fase per cui gli spettri dell’insoddisfazione prendono corpo. Programmare una poesia «figurativa», narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia «astratta», lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso tenerle distinte?
Ma ci sono tanti modi di inventare e non si inventa una volta per tutte. Al contrario, s’inventa volta per volta e l’invenzione è decisiva rispetto alle velleità, ai moti dell’anima, alle idee stesse. Cade come di sbieco su tutto ciò, non combacia mai perfettamente con uno qualunque di questi elementi; e magari ne radicalizza qualcuno, ne allenta o ne attenua altri che in altri casi erano stati addirittura determinanti. Avere ben presenti queste cose significa evitare per quanto possibile di fare anche dell’invenzione, dei propri collaudati modi inventivi, una formula e un’abitudine, sapere sempre – a rischio d’altri silenzi – che l’angolo utile, il rapporto illuminante non è mai dato, ma è da trovare; e al tempo stesso mettersi in grado di aderire meglio a quanto ha di varo il moto dell’esistenza. E questo è il prezzo della comunicazione.
(1962)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).