Alcune poesie da Nuovi giorni di polvere, uscito di recente per le Edizioni Casagrande (Bellinzona, 2015).
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[Dalla sezione Lettera da Dejevo]
Prologo
Dici che abbandonando i caseggiati
avevano rotto tutto, i russi: raschiato
i pavimenti non crollati,
abbattute le finestre e le porte,
sradicate le tubature, le sale scoperchiate
con le stanze, i corridoi.
Nell’ombra, però, sotto i segni
di propaganda, un muretto si tiene
in piedi, quasi fiero.
Come in attesa di un’esecuzione.
[…]
Dici del tuo paese perché è vostro,
adesso, tutto vostro. Ritornato consunto,
come uno straccio smagliato, un cuore
che agonizza ma pulsa.
Dici l’identità, ma io ti guardo indifferente,
spalancando al vuoto un altro vuoto.
[…]
Non ricordo il dolore. Non posso piangere
di quello che so: anche i miei nonni,
reduci a modo loro, sono troppo lontani.
Ma tu vivi e respiri il presente del fango,
il disordine, la foresta…
[…]
Racconti che tuo padre era un linguista,
un esperto di Bulgakov. Russo, quindi,
e ti volti a cercare un tassello mancante,
a nascondere un corpo deturpato.
[…]
Ho scelto io di sedermi in silenzio
ad aspettare? Tu ti muovi fra i blocchi
ma ti piace la crepa che sgretola il muro
portante, pronto a trascinare nella terra
non il primo e non l’ultimo boato.
E ti consola il villaggio di strazi evidenti:
così facile la speranza, chiara la condanna.
Non ho scelto io questa libertà
senza censure, incrostata all’assenza
di sangue.
[…]
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Sul treno per Zurigo
Il treno per Zurigo è anche il treno di questi ruderi,
di queste case ai margini, sporche di polveri pesanti,
dove i muri si scrostano e si staccano dalle travi.
(«Usurpatori», dice l’uomo al telefono. «Gli stranieri,
i clandestini, gli immigrati: tutti».)
È anche il treno dei morti, questo: di chi è morto al lavoro,
tra tanti, e di chi sarebbe morto volentieri ma vive
abbandonato ai suoi spazi ristretti di sempre, dimenticato
da promesse lontane e nebulose.
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Un ritratto
Vedi l’asfalto bagnato, da lì: le venature
percorse dall’acqua e rotte solo dalla fanghiglia,
più lenta. I rami delle piante di città.
Anche oggi, da fuori, i rintocchi si ripetono,
prolungano il suono della notte.
La giustizia è giustizia, pensi: malgrado tutto,
era giustizia anche per noi e tanti sono passati
a miglior vita; sacrificarsi era l’unica strada,
stringere i denti con onore.
Le grida rauche dei ragazzi si spengono lontano,
da qualche parte, mentre cadi nell’ombra
della tua poltrona: la pipa, la tosse, la televisione.
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Cartolina da Herisau
Dalle colline si vede San Gallo, rassicurante,
col suo stadio. Gli anziani stanno insieme, salutano
il soldato che torna in caserma dagli altri.
Immacolate, le case e le facciate respingono i prati,
troppo verdi. Ristagna una fierezza vaga:
le nostre donne, le nostre terre, le nostre bestie.
È strano che in un bosco, proprio qui,
ci sia il corpo senza vita di una bambina.
Così stonato. È strano che una terra come questa
dia anche, ogni tanto, di che morire.
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Dún Laoghaire
È freddo, ma non mettiamo la giacca: ci fermiamo
sul mare, di qua della barriera. Spazi residenziali
alle spalle, il verde cupo di un giardino sorto nel nulla,
la faccia di un uomo stanco del suo giorno e degli altri.
Si alza la canna fumaria, davanti,
col suo doppione d’ombra e di colore.
Si alza l’odore della torba: penetra nelle narici,
nel petto, più forte del freddo, del vento, dell’acqua.
Passano due ragazzi con i pattini e gridano,
già lontani da questi cerchi d’acqua, dalla terra operosa
che assorbe senza tregua. Dove sono le strade,
le automobili? Gli scatti luminosi e i riverberi sconnessi?
Così sciocco scappare. Così rassicurante questo grigio.
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Cartolina notturna n. 2
Dopo la pioggia è notte, è tutto vuoto,
e ritroviamo un po’ di luna nei riflessi dell’acqua.
La folla si è dispersa all’imbrunire, alle prime gocce.
La pensilina di ferro battuto ci ha tenuti all’asciutto:
siamo rimasti ad aspettare con gli occhi oltre le case,
verso boschi più densi di licheni e di rami,
dove i cinghiali attraversano il buio più buio.
Goffi e testardi ma sempre selvatici.
Restano adesso soltanto i nostri passi.
Non servono grandi parole: la strada è questa,
bagnata. Siamo insieme e inseguiamo la notte.
Goffi e testardi ma sempre selvatici.
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Altre volte
Altre volte scompare la promessa:
il falchetto non sosta sul limitare
dell’autostrada, posato sulla rete
verso i campi, di fianco al guardrail.
Né si alza o vola contro il cielo.
Dall’auto abbiamo visto delle piume
e forse un corpo inerte sulla corsia
di sorpasso.
*
Altre volte le madri scelgono di respingere
i loro cuccioli, come in un contro-destino.
Li lasciano soli a morire d’inedia
o li allontanano con forza, ferendoli
senza ombra di rimorso.
*
Altre volte ci sono mali incomprensibili
e incidenti silenziosi, che cancellano
le densità più fitte. Saperlo senza mai
veramente saperlo è già abbastanza
e non meno insopportabile.
Immagine: Saaremaa (isola estone dove si trova Dejevo), foto di Yari Bernasconi.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).