“Non ho vita che per tenerti in vita”. Undici poesie di Ferruccio Benzoni

da | Lug 14, 2017

Scelta a cura di Dario Bertini.

***

da La casa sul porto (Quaderni della Fenice, Guanda, 1980)

Jeux de massacre

Da poco gli amanti sono dissolti
umidi e stanchi. È quasi l’alba.
Ah, io bevo e a mia madre so scippare
dal suo fodero d’abete un po’ di vita ancora
– miserabile calore.
E di te grido, amore, allo stellato incerto
a un’alba di cotone. Ebbra è l’aria e io
posassi la tua mano – penso – sulla mia fronte
la tua mano, quanta morte darei
per un massacro vano. Ma resto solo
e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo:
fossero viole le voci, sarei di primavera!
Mi allontano invece, deraglio dalla vita.
Posassi la tua mano – non più per solitudine
per amore infine saprei farla finita.

*

Appendice a “un tu non ipotetico e caro”

Devo dirti che non l’acqua mi manca
o il pane o il letto dove sfinirsi.
Neppure una donna a seni e alghe.
Non la strada rivoltosa mi manca
o il caffè delle chiacchiere intonate.
Né il privilegio di oziare in contemplazione
mentre fuori la stagione trascolora
e l’edera attecchisce con astuzia senile.
Ho voglia di cose disamorate e vive
– non sogni tastiere evocative – poiché
l’amore, l’imponderabile non vivono
che in te, trafugati e spenti.
È dentro il tuo viso che nasce la devozione
della mia solitudine. Non m’assolvesti
quando un’esenzione chiedevo da quel grumo
d’angoscia in cui sono innestato.
Non è l’amore un ragazzo cieco, violentato:
c’è una logica del profitto anche in amore.
Così per amore torno a contraddirmi.

*

D’un coglitore di carta stagnola

a Giorgio Orelli che ha ripescato questi versi

Ho raccolto per strada solo qualche viso, io
che cerco carta stagnola e bottiglie col culo. Davvero
la vita non mi è amica. La strada
era tutta pulita, incatramata di persone e pneumatici.
Il mio è un mestiere come un altro
vecchio come gli zingari. L’importante – si dice –
è avere fortuna… – Ma chi ne ha? –
si sospira: segno che il discorso non fila.
Mia moglie che ho vinto a una lotteria
con una bottiglia di spumante, lei
ha una sua fortuna: è sorda. Perciò
non ascolta sciocchezze. Tira dritto
con la sua faccia intarsiata. A me
che ne sento tante non va più di parlare.
In silenzio ci si intende meglio. Liberassero i manicomi
ci sentiremmo tutti un po’ meno soli.
Comunque io mi faccio il mio mondo, lei
si cresce i miei figli. Mi sono abituato
a volerle bene anche. La vita così dà meno fastidi.
Da tempo morire non stupisce più nessuno.

*

La casa rossa

Non c’è più la casa rossa dov’era sfollato
mio padre e mia madre quasi in un presagio
spiava la morte. Pure quanta vita ancora
e voglia di crescere per gioco un bambino!
Dante Arfelli era un giovane e sapeva l’inglese:
vennero gli alleati e sorridendo accendeva le sue luckystrikes…

Quando vidi “Accattone” da una cabina di proiezione
– poca gente in sala e un’idea di benessere ai piedi
nelle scarpe all’inglese coi buchi – ero appena ragazzo,
piangevo. ‘ Gisto l’operatore, ma vieni domani – imprecava –
che danno i cowboys… Fu il mio modo
di sentirmi comunista, sentendomi controluce.

La prima ragazza che ebbi io non l’amavo.
Ma aveva i seni duri sotto il grembiule di scuola.
Fu un pomeriggio ai campi. Arrivammo nel sole
in bicicletta: ricordo un odore di lacca e di sete, d’ascelle.
Il batticuore mi seccava la gola. Sapevo di ridere male.
Lei era svelta e triste se diceva “mi ami?”

Non c’è più la casa rossa e vivere è ormai necessario.
Arfelli scrisse “I Superflui” che io ero dentro mia madre.
Adesso che ci parliamo e so quanto sia chiuso quel libro
e agro, cosa fu la vita – mi dico – quegli anni
di mia madre e di me, dentro di lei, un’estate
del quarantotto. Come un romanziere allora
vorrei fingerla morta…

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da Fedi nuziali (Scheiwiller, 1991)

I morti amici

Ben presto verranno a sapere
(tu forse dimenticando…)
la solitudine cos’è se disarma
in un sopore d’animule.
Ma saranno mai soli, sapranno
mai cos’è una passione?
Dondola a un vento il canale,
e tu che ringhi
……………………andrò via, me ne andrò
– lo so: non ci credono.
Qui sepolto ti vedono, solo,
con l’arroganza d’averci creduto.

1985

*

Risvegli

Non sempre sono i migliori.
Ma se appena l’onda defluisce
in risacca, imperversando con ira.
Più dei tarli s’imbestiano, dei topi
lancinando la notte e il tepore
stremato d’una stanza.
Sono morti con lena attrezzando
la tua vita al gelo ai rimorsi
– e ridevano, ah, ridevano
così di rado, ma se un amico grandeggiava
o una tromba spezzandosi…
Se ne sono andati per sempre;
spariti senza morire.
Ma basta un tocco di melodramma,
una cialtroneria di gemme in fiore
per riapparire trionfanti.
Non sono morti mai veramente.
E quello che tu chiamavi «il migliore»
per garbo e abnegazione da fighter,
ancora soppesa un fulgore
dell’accidia d’un sabato sera.
Da una risacca o riverbero
di trapassanti fervori.
Da un sipario d’amanti più o meno
venali un sabato sera.
Neve su neve spezzandosi i rami.
E tace tace una tromba
l’ulcera smangiante della gioventù.

Arriva sul tardi con una camicia
bianca. Si mette a parlare come un soldato in licenza
o un adolescente in gita scolastica.
Ride solo così facendo risaltare
un silenzio enorme di lago o vallata.
Sono sul punto d’andarmene
………………………………….– ribatto –
lasciami coricare con una trafittura
o una rabbia piuttosto ben oltre
la ridda spettrale e i patemi.
Ho un gran sonno; lasciami andare.
………………………………….Nevica. Ho bevuto.

*

da Numi di un lessico figliale ( Marsilio, 1995)

Verso il venti d’aprile

Precipitando allucciolava la Senna.
Prima dei suoi corvi d’abisso.
Con uno spolverio di neve
che c’era o no furiosamente
scrosciando in acquitrini.
Ma un fardello c’era galleggiava
tra tomaie e pastrani
– o fu solo un cauchemar giù
gettarsi
la morte in auge come un’elegia
sig. Paul Celan

*

“Basta con le botte basta. All’aperto”

……………………………………………..(V. Sereni)

Adesso che so di rassomigliarti
tra svenamenti coaguli e altri
reperti d’incresciosa
………………………………funebre familiarità –
non per questo mi sento cambiato,
qui stornato con una compagna
di parche dolcezze e fragili.
Pure, un’immane vecchiezza
(questa sì!) sfiorandomi
di un grido di girasoli ha fatto
giallezza.
………………………….Taciturni stranieri ancora
ci lesiniamo (vedi?) un
conforto: due soldati siamo
diversi, prigionieri entrambi.

Ahi padre, con più cipiglio tu
e tremore per il figlio che frughi
negli occhi perplesso,
con il mio fervore io, livido
d’inchiostri decorosi – ed è
l’unico mio bene (l’ultimo)
prima che dai vetri le voci
rauche di un altro Reichstag…

***

da Sguardo dalla finestra d’inverno ( Scheiwiller, 1998)

I giorni ricontati

La gioventù che riarde qui svuotata
non travolta
in un sole di novembre attardatosi
dalla casa ventosa ai crocicchi
diramantisi al mare.

Al mio “ti amo” vorrei rispondessi
anch’io mille volte – da
rammemorare ogni volta che si muore
blandamente per pigrizia, noia.
Vetroso il fogliame ai passi.
E non è solitudine – non solo
desolazione vuoto.
“Hai l’età di un padre morto
per un eccesso di narciso”.
Non altrimenti un dileggiante
passato prossimo e
Où t’es-tu glissée tendre jeunesse?
Mai vissuta – potrei ribattere – intravista
patita forse da un perplesso voyeur.
“Nascodile queste cose” luciferino
sibila il poeta – altrove
mettano radici spiritate
in carte purgatoriali tra
piccole spoglie lapidate.
Il mare (controluce) un fruscio
che agli svolti, allo squero risale,
alle falene dei lumi per una stretta del cuore.
Del resto la gioia cos’era se non
una falsa partenza per sprintare
bruciando bellezza, amore?
Ma basta. Non barattare la tenerezza
con il compianto della carne, stanco
di parvenze il non distrutto cuore.

*

A mia insaputa

Vorrei per una volta tutti
della mia vita i volti s’affollassero,
e uno in particolare contro
l’invetriata senza desideri.
Sorridono e all’implorante
“Vi aspetto, tornate!” –
socchiuso lasciano il battente,
neanche spettasse a me seguirli
(chi qua chi là scomparendo)
e fossi dei loro già, senza saperlo.

*

L’inverno dopo

……………………………………………..(a Fortini)

Dicembre senza grazia senza
l’amata neve cara a Boris Pasternak.
Dai cavi una voce che s’impenna
strozzandosi, e ingenuamente, nello sforzo di spezzare
il sibilo faticoso
prima per sempre di farsi silenzio.
Contando, ahi, ricontando quanti inverni
per una strada di Firenze
(la spolverina il basco)
imbozzolato nella rosa di una
poesia claustrale
a margine
(a margine?) del tuo “comunismo speciale”.
Non interrotto il dialogo le
(ma canute altere) provocazioni
– da un ultimo inverno
afono,
non finisce qui – ti dico – e
sciupato infante rauco, “addio”:
il modo tuo d’accomiatarti.

***

Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1949 – Cesena, 1997), fu tra gli animatori della rivista «Sul Porto», pubblicata dal 1973 al 1983, che riuscì a creare un dialogo tra i suoi allora giovanissimi redattori (Stefano Simoncelli e Walter Valeri) e alcuni dei maggiori poeti delle generazioni precedenti come, tra gli altri, Franco Fortini, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici e Vittorio Sereni. A testimonianza della lunga frequentazione fra Benzoni e Sereni si ricordi «Miei cari tutti quanti. Carteggio tra Vittorio Sereni e Ferruccio Benzoni e gli amici di Cesenatico», a cura di Dante Isella (San Marco dei Giustiniani, 2004). Un quaderno collettivo del 1980, con una nota di Giovanni Raboni (Quaderni della Fenice-64, 1980), che comprende (oltre a testi di Simoncelli e Valeri) la raccolta «La casa sul porto», costituisce un primo documento rilevante della sua poesia. Seguono poi le raccolte «Notizie dalla solitudine» (San Marco dei Giustiniani, 1986), «Fedi nuziali» (Scheiwiller, 1991), «Numi di un lessico figliale» (Marsilio, 1995), «Sguardo dalla finestra d’inverno» (Scheiwiller, 1998). Nel 2004 è uscito postumo «Canzoniere infimo e altri versi», curato da Dante Isella per San Marco dei Giustiniani. Importante testo di riferimento per l’approfondimento della vita e della poesia di Benzoni è «Postumo a me stesso», a cura dell’Associazione Ferruccio Benzoni (Pàtron Editore, 2004). (D. B.)

Nota: La foto è tratta dall’Archivio privato Ferruccio Benzoni. Benzoni è ritratto insieme a Vittorio Sereni.