“Non ho mai scritto un diario”. Quaderni e Taccuini di Giovanni Giudici

da | Ott 20, 2016

di Teresa Franco

Nei primissimi anni della sua formazione, tra 1949 e il 1961, Giovanni Giudici annotava diligentemente pensieri e versi in Quaderni e Taccuini (a cura di Carlo Londero, in Giovanni Giudici: ovvero le fondamenta dell’opera, Istmi, 35-34, 2015, con una nota di Rodolfo Zucco), inaugurando un’abitudine scrittoria e un metodo compositivo che sarebbero rimasti saldi nel corso della sua carriera poetica. Dati alla stampa grazie al lavoro di un team di studiosi e per iniziativa della rivista Istmi, diretta da Eugenio De Signoribus, questi preziosi materiali privati, benché per la maggior parte anteriori, seguono, completandola, la già nota Agenda ’60 (Istmi, 23-24, 2009), e testimoniano il faticoso percorso di “approssimazione” alla poesia.  Per Giudici tale vocazione non può esser distinta da una equivalente volontà di perfezionamento umano. Ci vogliono quasi quindici anni perché il poeta cattolico riesca a trovare il punto di incontro tra vita e scrittura, l’equilibrio che possa riconciliare, senza invalidarli, gli strumenti di indagine (auto)biografica, tenendo presente, tuttavia, l’assioma per cui “…vedere non è | sapere”, e “…l’essere è più del dire”. La vita in versi (1965), titolo fortunato della sua prima vera raccolta, può a buon conto considerarsi anche approdo esistenziale e sintesi di quest’ambizione parallela. La varietà di questi appunti e la loro natura frammentaria dimostrano, invece, lo spazio della ricerca, dove l’edonismo della parola è mitigato dall’imperativo morale che tutto trasformerà, anche i dati apparentemente insignificanti, nell’opera a venire. Come l’“uomo feriale” di una sua futura poesia, intitolata, appunto, Taccuino, in queste pagine Giudici annota, riflette, trascrive, compone, critica, censura le sue velleità artistiche (“non ho mai scritto un diario”, dichiara nel ’56), ma mantiene il rigore dell’autodisciplina:

È inutile che io gli spieghi: non è un diario, parlo solo occasionalmente del prossimo e degli avvenimenti della giornata;  e non è nemmeno un “giornale letterario”, perché di letterati ne incontro troppi […] o troppo pochi (e quindi non posso avere una visione esauriente del loro milieu – e qui a Milano, poi!); e non è nemmeno un “giornale intimo” perché la mia intimità, se pure esiste, preferisco bruciarla in altri modi”. È dunque un mezzo per costringere nella minore generalità della forma scritta alcune cose che mi passano per la mente. (Agenda ’60, p. 56)

In questa fluttuazione di motivi – presentati qui in una versione leggibile, priva di cassature e interventi redazionali – non si dovrà cercare, dunque, un’immediata corrispondenza tra fatti biografici e risultati poetici, perché la selezione degli stessi motivi può essere molto lenta, durare e palesarsi dopo anni di sedimentazione. Il valore di questa scrittura è davvero quello di costituire “le fondamenta dell’opera”, esperienza originaria che il poeta ha sottratto al tempo nell’ordinata registrazione della sue pagine e che rivisita a posteriori, nutrendo non solo la sua ispirazione poetica, ma anche il suo impegno a fare poesia. Si pensi solo a come questa scrittura privata sostenga l’intenzione d’autore, non senza qualche vezzo narcisistico, in un saggio cruciale del 1984, Come una poesia si costruisce:

“solo più tardi riuscì a buttar giù su un taccuino alcune righe quasi informi” (p.63); “Un’altra sera – sul finire dell’anno, mi sembra del 1961, – annotai su una delle tante agende che per abitudine riservo a questo scopo alcune righette…(p. 64)”; “Potrei, se le circostanze lo consentissero, frugare nella cassa delle mie agende e trovare in qualcuna di esse non già una annotazione che sia risultata essere una poesia già compiuta…” (p. 69); p. “Nella mia agenda 1983 trovo una prima e unica annotazione alla data del 28 marzo; appena due versi abbozzati…” (La dama non cercata, Mondadori, Milano 1985, p. 69).

Parte di questo materiale sotterraneo a cui il poeta alludeva, e tanto altro nel surplus del suo fervore intellettuale, è quindi oggi disponibile. Toccherà al lettore il compito di vagliarlo, ricostruendo, o semplicemente immaginando, gli inevitabili vuoti e interstizi tipici di ogni confessione.

Quaderno 1949-1954 – Trascrizione e note di Teresa Franco

11 Marzo 1952.

Un giorno come tanti. Al mattino, buoni propositi; la sera, un pugno di mosche e una stanchezza da convalescenti.

30 dicembre 1953.
Alla chiusura di un altro anno quale bilancio possiamo fare delle nostre azioni? Sul piano morale, piuttosto negativo. Perché illuderci di essere buoni, quando è forse la nostra una bontà imperfetta; debolezza, direi.
Il bilancio è lieto per la poesia: mi ha riaccolto con tenerezza; è ritornata in me più consapevole; ha avuto davvero un effetto illuminante. Ho la coscienza – ma ne son certo? Sì ne sono certo – di non aver barato a questo gioco.
Il bilancio è lieto, ma meno lieto, per la vita dello spirito: anch’io sono ripassato sulla via di Damasco. Ma che via più banale, che via obbligata è stata la mia! Ora, l’averla imboccata, mi fa sentire la miseria della vita del mio spirito no a questi miei giorni. Che cosa diversa appare, che cosa diversa è la vita, che cosa diversa dev’essere quando vissuta sull’istanza di perfezionamento, di self-elevation!

22 febbraio

Da quella bocca, da quella voce – che s’aprivano e parlavano, si chiudevano e tacevano nelle alterne fasi del dialogo – non si poteva attendere che un sonoro, romanesco: «Ma pperché nun ce vai?» Era la frase di turno. Invece il rispetto umano, il desiderio di apparire migliore (?), le fecero dire un «Perché non ci vai?» che sapeva di purismo disinfettante, che recava tuttavia, ma intristita, la patina fragrante del fondo romanesco.

Quaderno 1954-1957 – Trascrizione e note di Teresa Franco

7 settembre (1940-1952)

Letto il dattiloscritto del nuovo libro (Iride?) di Montale. Delle sue perplessità a pubblicarlo che dicevano vedo ben le ragioni. Le poesie di Finisterre sono certo le migliori del gruppo, ma hanno anch’esse il tono (incipiente) dell’esercitazione dell’ismo di sé. In questo libro Montale è ermetico davvero e nel senso non buono. Mi ricordano La Gli orecchini La frangia dei capelli etc. Bella anche La bufera. Belle le prose di Intermezzo. Le Silvae sono le cose che, nella mia supposizione, avrebbero dovuto dare il tono (e non danno, e non per causa di esse medesime) a tutto il libro: Iride, L’orto, Voce giunta con le folaghe, Il sogno Ezekiel saw the wheel ecc.
L’ultimo gruppo – a cui poi si aggiungerà a mo’ di epilogo Congedo provvisorio, – comprende poesie di se occasione amorosa secondo un modulo non nuovo in Montale. Ma certo viene allora da preferire i Mottetti. Se t’assomigliano è, comunque, una bella poesia. → Tutto sommato, non ci avrebbe più innamorato (se non ci fossero gli ossi) un Montale così. ← |Ma non aggiunge niente.|

3 Aprile – 1956

Non ho mai scritto un diario, ma da qualche parte – qui – debbo annotare la visita che ho compiuto per Pasqua a Spotorno per Camillo Sbarbaro. Non ha libri e fa di tutto perché non se ne accumulino al di fuori della sua volontà: mi ha regalato un catalogo di licheni, dopo avermi mostrato l’erbario (per me interessante). In un primo momento si era rifiutato: «Per una ragione che capirai», dicendo. La ragione era in Fuochi fatui: v. « ricevo la visita del letterato militante». Mi ha detto di essere felice: contento di un giudizio della Manzini a proposito di Fuochi fatui – appunto parlava di «felicità straziata» di Sbarbaro. Ha rinunciato a tutto in cambio della libertà: è la sola, la sola cosa più grande? Siamo andati a colazione a Finale, il paese di Boine dove nemmeno un vicolo è intitolato a Boine. Sbarbaro non l’ha conosciuto, anche se fu Boine a scoprire Pianissimo. Per Montale, Sbarbaro è preoccupato del suo comportamento: «gli ho mandato – dice – le

Rimanenze con una dedica molto amichevole, e non mi ha risposto nemmeno. Chissà? Forse è per questo? … o per questo?…»

3 dicembre 1956
A Milano, Biffi-Scala. Esco insieme a V. S. e G. T. Spingendo la porta a girevole a vetri: – «Come lucente muove sui suoi spicchi – la porta d’un albergo…». L’ho detto a mezza voce. Sulla strada: «Quello che hai citato era là» mi dice T. Allora, insieme a V. S., rientro. È seduto a uno dei tavoli. Lo avviciniamo, mi riconosce e restiamo lì per un’ora.

Taccuino 1954-1956 – Trascrizione e note di Teresa Franco

Il nostro tormento sarà nell’impossibile impresa di definirci; di seguire fino all’estremo della coscienza ogni nostro pensiero. La non-poesia è essenzialmente un peccato di pigrizia mentale. Bisogna osare di scomporsi per quanti sono i sottili filamenti del nostro pensiero e delle nostre emozioni

(marzo 1955)

Chi ci sta nella casa che abitavamo,
i segni che lasciammo chi li copre?
No, non i versi: ma mi duole
il pensiero del nostro terrazzino di via Tripolitania, da [altri

frequentato forse ostili al ricordo dei nostri odori. E quanta luce dei nostri occhi noi lasceremo su tutte le cose lungamente guardate?

Taccuino 1956 maggio-settembre – Trascrizione e note di Linn Settimi

Però aspetteremo in questa realtà immersi. È il momento [di
riprendere le due citazioni paoline dell’altro taccuino. «Non abbiamo rubato il pane da nessuno» etc.
Un’allegria di rossi treni merci
sempre
al limite del tradimento, sospetto d’intelligenza col [nemico:

14 luglio
L’improvviso del golfo nella pioggia,
acqua semisommersa da chissà qual sole o nebbia, i [bastimenti etc.
Ma soprattutto la improvvisa aggressione di questo panorama
nativo.

(Arrivando su Spezia dalla Foce).

C’era chi preparava in te il prodigio – di un golfo all’improvviso che s’aperse – seminato di navi e dell’attesa – di partire infinita.

Il panorama di un porto in una carta cinquecentesca (o più antica ancora)

Taccuino 1956 ottobre – Trascrizione e note di Linn Settimi

Nel grido degli stadi che dimentica, l’angoscia raffrenata, che fa esplodere l’attesa d’una vita.
Sembra che sia finita e ricomincia che ci dà l’illusione d’una fine.

Quaderno Ivrea 1957 – Trascrizione e note di  di Marta Gas

27 Febbraio – Manchester

Gli ingressi dei pubs rivelano una strana concezione del bere, come peccato: sembrano come da noi gli ingressi delle case di tolleranza. Evidentemente ciò che per noi è il sesso, è per gli inglesi l’alcool. Eppure questa gente vive come per automatica costrizione: si costringe a vivere come se non dovesse morire. È chiaro che il protestantesimo ha tolto al messaggio cristiano molto del suo valore escatologico. Qui – del resto – il comunismo non è un problema: non vivono di fedi, di fatti – vivono.

2 marzo
Lascio Manchester dopo aver appreso che la via da me massimamente frequentata – Oxford Street – è specialmente a sera lo scandalo della città. One feels as he was doing always the wrong thing.
In viaggio.
I prati, gli agnelli, i puledri, le pavoncelle, e le anatre bianche, sull’erba verde tenero di quei prati: il paesaggio idillico di una vecchia Inghilterra, noiosa ma sicura e salda.

*****

2 marzo – Tutto il pomeriggio, un magnifico pomeriggio di sole, a Londra. Una lunga passeggiata da Piccadilly Circus al London Bridge: ho scoperto qui per caso, senz’ausilio di guida, sepolta tra una selva di gru e di costruzioni d’uffici commerciali la chiesa di St Magnus the Martyr, ricordata da Eliot in The Waste Land.

La chiesa – che era naturalmente chiusa – è letteralmente sepolta: vi si accede dalla Lower Thames Street (qui siamo nella Upper) quasi per un cunicolo.

Taccuino 1957 giugno-ottobre – Trascrizione e note di Marta Gas

Bisogna avvertire la presenza dell’eroe, del protagonista. Questa poesia – mi è venuta incontro l’osservazione contenuta nella conferenza del Pignotti a proposito di me – dovrà avere un protagonista come se fosse un romanzo. Anzi gli troveremo un nome.

Anche a Londra si muore.
Il turista non ci pensa:

Eppure quella donna
Sul bus numero nove
Neri gli occhi la forma
e neri i suoi capelli, ma bianchissimo
il viso, tondo avorio
gli zigomi, il sorriso
chissà dove sepolto. Non ci pensa
il turista, cammina per King William
Quando è disceso in
Lower Thames Street:
How unpleasant to meet me. Eliot.

In poesia un procedimento non eguale ma analogo a quello del vanishing hero, nel senso che il poeta si presti come voce ad un protagonista.

Taccuino 1958 – Trascrizione e note di Stefania Siddu

“Sah!” – non so come si scrive – per dire: “nn {prob.}! Andiamo! D’accordo! ecc.” – Credo che lo dicano anche in Puglia: comunque insieme al “neh” è una delle locuzioni che i meridionali a Torino assumono immediatamente nella loro parlata. Il piacere – forse – di trovare che almeno una parola della loro attrezzatura linguistica è buona per arare o lavorare [con le parole] questa nuova, più ricca e più difficile terra.

Quaderno 1958 – Trascrizione e note di Stefania Siddu

15 novembre 1958.
Ieri mattina Fortini mi parlava della sua adesione alla tesi di un filosofo marxista (il più importante fra i contemporanei) secondo cui il momento etico e il momento politico sarebbero tendenzialmente coincidenti in modo che – nella società socialista – una cattiva azione morale diverrebbe una cattiva azione politica. E viceversa. In altri termini – aggiungo io – momento individuale e momento collettivo sarebbero tendenzialmente coincidenti. Diciamo in una “società socialista”, ma che cosa si opporrebbe a che dicessimo entelechìa del Corpo Mistico?

(O anche, per quello che ricordo di Kant, la coincidenza del “sommo bene” con la “felicità”?)

Ma ciò che distingue la concezione cattolica dalle concezioni temporali è la coscienza dell’errore aperto, del momento individuale che sovverte ogni ordine stabilito o vagheggiato, la continua “rottura” per cui la storia si muove, l’incapacità che l’ordine temporale ha di consistere se non divenendo oppressivo e quindi reazionario, la continua mancanza dello scatto finale, la failing condition della nostra natura, la continua possibilità che una somma di sacri ci (ivi compresa l’accettazione del male) sia di colpo annullata per l’errore di un singolo. È la coscienza di questo che  con tanta veemenza spinge la società comunista contro l’individuo: una coscienza che si unisce alla fiducia nel bene; la stessa coscienza che armò il braccio secolare quando la Chiesa cattolica si fece persecutrice di eretici. Pure la libertà di pensiero metteva in movimento la storia: e tuttavia verso un traguardo, (il comunismo?) che si riconosce nelle stesse condizioni di psicologia ideologica del punto di partenza. Costruiamo il castello di carte e il genio male co dell’errore (o del peccato) lo distrugge continuamente: il dramma è questo, la ferita che continuamente si riapre. Solo nel compimento in Cristo si chiuderà.

Taccuino 1958 [-1959] – Trascizione e note di Claudia Murru

Costretto a percorrere col quella striscia – scostarsi di lì la ruota liscia – della sua bicicletta – Andiamo in fretta – , andiamo, – in fretta, anima eletta
ecc.

bene non è benessere

Mi viene in mente quello che mi diceva il direttore dell’ufficio Olivetti di Londra, circa la difficoltà di evitare il turn-over del personale o, quanto meno, di ottenere dal personali {sic} prestazioni eccezionali. Lo stimolo della carriera non è così forte; ognuno sa che lavorando di più guadagnerà meglio, ma pagherà anche più tasse e lo sforzo maggiore non potrà essere che in parte compensato dal lieve aumento del benessere. Le necessità fondamentali – i cui limiti col progresso tecnologico si dilatano – vengono agevolmente fronteggiate. Si sta bene «It defends from what you want», naturalmente. Ma il socialismo è in quella libertà di rifiutare la carriera, se what you want è di vivere in pace, se stolte ambizioni storte non ti deformano. All’estremo opposto c’è la Morte di un commesso viaggiatore. Il socialismo lascia la via aperta ad altre ambizioni vere.

Taccuino post 1958 – Trascrizione e note di Claudia Murru

a dirti: bel culo che ciai!
Hai la nomina, hai
un culo lieve {prob.} e tondo. In questo non lo sai
ma com’è ingiusto il mondo.

Taglia la strada il giovane ciclista

lui che t’ha già vista
appena in tempo per guardarti e mai saprà come poi tu [sorriderai
ora che un po {sic} villano e in tutta fretta, risalito in sella [alla bicicletta
e grida: bel culo che ciai!

Conquista ogni tua parola, popolo – di gente muta che parla in una lingua straniera – sai che cosa ogni nome dato a cosa – sconosciuta significa, parola – che nell’oggetto si conosce e vive – di ciò che era muto e senza storia.

Taccuino 1959 – Trascrizioni e note di Stefano Marangoni

Io so che forse è tutto inutile ma questa verità in cui spero e alla cui perdita non mi rassegno è quella che mi rende in vita degno di non morire ancora. Sarà mai ecc.

La verità è ciò con cui non riusciamo a coincidere. Può essere anche noi stessi: ma quante volte riusciamo a coincidere in noi stessi?

Taccuino 1959-1960 – Trascrizioni e note di Stefano Marangoni

Non dimenticare che sei contro: essere contro è un privilegio che si paga. Tu subisci la inevitabile conseguenza di ciò che vuoi essere: non puoi aspettare accoglienza diversa. Desideri – purtroppo – che venga lodato ciò che fai, quando ciò che fai – e devi per onestà fare – è proprio fondato nel rifiuto della lode che nondimeno tu cerchi.

Puoi ripetere con orgoglio che Milano –
è l’unica città dove nessuno la sera va a letto digiuno.
Questa città all’ora di mezzogiorno – esce puntuale dagli [uffici.
Chiudo la ditta, fra poco ritorno.
Scattano i turni negli opifici.
Questa città è tutta in strada nell’ora di mezzogiorno: tutti
conquistano due ore di libertà.
Corro a casa, mangio, ritorno –
di corsa al centro della città.
Questa città ha ragazze che abitano lontano –
e mangiano in piedi davanti ai cancelli
etc.
Io sono uno che lavora e perdo –
tutta la vita per rifare un’ora.

Taccuino 1959 – post gennaio 1961 – Trascizioni e note di Carlo Londero

Il successo. I personaggi, letterari e non letterari. Le frasi fatte: i grandi solitari (ma i grandi solitari erano veramente i brillanti ovvero i corridori ciclisti che si distinguevano nei percorsi in salita. {sic}

Il successo. Contrasto di costoro che si uniscono e sommano la potenza del loro successo (diventano come dive) e certi personaggi esemplari
(il meccanico di via MacMahon, e ora quell’anziano operaio toscano della CEMM lampade ecc. di cui devo parlare più a lungo).

Molta attenzione a non confondere questo mio criticism sul successo col facile risentimento di un quasi quarantenne ormai incamminato ad una soddisfatta mediocrità.

Scriviamo per le classi di italiano: questo nella migliore delle ipotesi. Scriviamo versi in cui il tormento privato aspira ad essere comunemente interpretato come a tutti comune.