Louise Glück, Averno e L’iris selvatico

da | Dic 16, 2020

Pubblichiamo cinque poesie da Averno e L’iris selvatico di Louise Glück, appena usciti per Il Saggiatore, nella traduzione di Massimo Bacigalupo.

da Averno (2006)

La stella della sera

Questa sera, per la prima volta in molti anni,
mi è apparsa di nuovo
una visione dello splendore della terra:

nel cielo del crepuscolo
la prima stella sembrava
crescere in luminosità
mentre la terra si oscurava

finché in ultimo non poté essere più scura.
E la luce, che era la luce della morte,
sembrava restituire alla terra

il suo potere di consolare. Non c’erano
altre stelle. Solo quella
di cui sapevo il nome

poiché nella mia altra vita le avevo fatto
torto: Venere,
stella del crepuscolo,

a te dedico
la mia visione, poiché su questa superficie vuota

hai gettato luce sufficiente
a rendere il mio pensiero
nuovamente visibile.

 

Averno

1.

Muori quando il tuo spirito muore.
Altrimenti, vivi.
Puoi non farcela al meglio, ma tiri avanti —
non hai altra scelta.

Quando lo dico ai miei figli
non prestano attenzione.
I vecchi, pensano —
fanno sempre così:
parlano di cose che non si vedono
per coprire tutti quei neuroni che perdono.
Ammiccano fra loro;
senti il vecchio, parla di spirito
perché non ricorda la parola per sedia.

È terribile essere soli.
Non intendo vivere soli —
essere soli, dove nessuno ti sente.

Ricordo la parola sedia.
Voglio dire — è solo che non mi interessa più.

Mi sveglio pensando
devi prepararti.
Presto lo spirito si arrenderà —
tutte le sedie del mondo non ti aiuteranno.

So cosa dicono quando sono nell’altra stanza.
Dovrei vedere uno specialista, dovrei prendere
uno dei nuovi farmaci per la depressione?
Li sento che discutono, sottovoce, come dividere le spese.

E voglio gridare
vivete tutti in un sogno.

Basta e avanza, pensano, vedermi perdere colpi.
Basta e avanza senza le lezioni che gli faccio questi giorni

come se avessi diritto a nuove informazioni.

Bene, loro hanno lo stesso diritto.

Stanno vivendo in un sogno, e io mi sto preparando
a diventare un fantasma. Voglio gridare

la nebbia si è diradata —
È come una vita nuova:
non dipendi dalla conclusione;
conosci la conclusione.

Pensaci: sessant’anni seduta su sedie. E ora lo spirito mortale
che vorrebbe così apertamente, così temerariamente —

Sollevare il velo.
Vedere a cosa stai dicendo addio.

 

3.

Da un lato, l’anima erra.
Dall’altro, gli esseri umani che vivono nella paura.
In mezzo, il pozzo della scomparsa.

Alcune ragazze mi chiedono
se sarebbero al sicuro nei dintorni dell’Averno —
hanno freddo, vogliono andare a sud per un po’.
E una dice, come scherzando, ma non troppo a sud —

Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte,
il che le rende felici.
Intendo dire che niente è sicuro.

Sali su un treno, scompari.
Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari.

Ci sono luoghi come questo ovunque,
luoghi in cui entri come ragazza,
da cui non ritorni mai.

Come il campo, quello che è bruciato.
Dopo, la ragazza sparì.
Forse non esisteva,
non abbiamo prove in un senso o nell’altro.

Tutto ciò che sappiamo è:
il campo bruciò.
Ma questo lo vedemmo.

Quindi dobbiamo credere nella ragazza,
in quello che ha fatto. Altrimenti
sono solo forze che non capiamo
a governare la terra.

Le ragazze sono felici, pensando alle vacanze.
Non prendete il treno, dico.

Scrivono i loro nomi nella condensa sul finestrino di un treno.
Voglio dire, siete brave ragazze,
che cercate di lasciare i vostri nomi.

 

Persefone l’errante

Nella seconda versione, Persefone
è morta. Lei muore, sua madre piange —
i problemi della sessualità
qui non ci concernono.

Ossessivamente, nel lutto, Demetra
percorre la terra. Non ci aspettiamo di sapere
cosa Persefone stia facendo.
È morta, i morti sono misteri.

Abbiamo qui
una madre e un enigma: questo
corrisponde precisamente all’esperienza
della madre quando

guarda in faccia alla bambina. Pensa:
ricordo quando non esistevi. La bambina
è perplessa; più tardi, l’opinione della bambina è
che è sempre esistita, proprio come

sua madre è sempre esistita
nella sua forma attuale. Sua madre
è come una figura a una fermata d’autobus,
un pubblico per l’arrivo dell’autobus. Prima di questo,
lei era l’autobus, una temporanea
casa o comodità. Persefone, protetta,
guarda fuori dalla finestra del carro.

Cosa vede? Una mattina
all’inizio della primavera, ad aprile. Ora

tutta la sua vita sta iniziando — sfortunatamente
questa sarà
una vita breve. Conoscerà, a fondo,

solo due adulti: la morte e sua madre.
Ma due è
due volte ciò che ha sua madre:
sua madre ha

una bambina, una figlia.
Come dea, avrebbe potuto avere
mille bambini.

Cominciamo a vedere qui
la profonda violenza della terra

la cui ostilità suggerisce
che non desidera
continuare come fonte di vita.

E perché questa ipotesi
non è mai considerata? Perché
non è nel racconto; essa solamente
crea il racconto.

Nel lutto, dopo che la figlia muore,
la madre vaga per la terra.
Sta studiando il suo caso;
come un politico
lei ricorda tutto e non ammette
niente.

Per esempio, la nascita
di sua figlia fu intollerabile, la sua bellezza
fu intollerabile: questo lo ricorda.
Ricorda di Persefone
l’innocenza, la tenerezza —

Cosa progetta, mentre cerca sua figlia?
Sta manifestando
un avvertimento il cui messaggio implicito è:
cosa stai facendo fuori dal mio corpo?

Ti chiedi:
perché è sicuro il corpo della madre?
La risposta è
questa è la domanda sbagliata, poiché

il corpo della figlia
non esiste, se non
come un ramo del corpo della madre
che deve essere
ricongiunto a ogni costo.

Quando un dio piange significa
distruggere gli altri (come in guerra)
mentre allo stesso tempo chiede
di ribaltare i patti (anche come in guerra);

se Zeus la recupera,
l’inverno finirà.

L’inverno finirà, la primavera ritornerà.
I venticelli irritanti
che amavo tanto, gli idioti fiori gialli —

La primavera ritornerà, un sogno
fondato su una falsità:
che i morti ritornano.

Persefone
era abituata alla morte. Ora sempre e poi sempre
sua madre la trascina di nuovo fuori —

Devi chiederti:
i fiori sono veri? Se

Persefone «ritorna» sarà
per una di due ragioni:

o non era morta o
viene usata
per sostenere una finzione —

Penso di poter ricordare
l’essere morta. Molte volte, d’inverno,
ho avvicinato Zeus. Dimmi, gli chiedevo,
come posso tollerare la terra?

E lui diceva:
tra poco tempo sarai di nuovo qui.
E nell’intervallo

dimenticherai tutto:
quei campi di ghiaccio saranno
i prati dell’Eliso.

 

 

da L’iris selvatico (1992)

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale — la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa — Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne —
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.

 

Fine dell’estate

Dopo che pensai tutte le cose,
pensai il vuoto.

C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma —

In questo non sono come voi,
non mi appago in un altro corpo,

non ho bisogno
di un riparo fuori di me —

Mie povere ispirate
creazioni, siete
fastidi, in fondo,
mera limitazione; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.

E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo

per quanto non è la terra
a durare, non
queste scaglie di materia —

Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve —

poi luce bianca
non più travestita da materia.