L’occhio del polipo. I versi di Goffredo Parise

da | Giu 17, 2015

Jetant son encre vers le cieux
Suçant le sang de ce qu’il aime
Et le trouvant délicieux,
Ce monstre inhumain, c’est moi-même.
CHARLES BAUDELAIRE, Le poulpe.

Dal marzo al maggio del 1986 Goffredo Parise compone trenta testi in versi. Poco dopo, in agosto, viene ricoverato all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso e il 31 dello stesso mese muore. Le trenta poesie che ci ha lasciato le detta a due donne per lui molto importanti, Giosetta Fioroni e Omaira Rorato; non le scrive di suo pugno, poiché la malattia gli causa problemi di vista sempre più gravosi. Alberto Moravia il 14 settembre, sempre del 1986, quindici giorni dopo la morte di Parise, ricorda per i lettori  di «L’Espresso» l’ultimo suo incontro con l’amico. Proprio in agosto, quasi al termine della sua vita, a casa sua a Ponte di Piave. Con Giosetta e Omaira e altri ospiti. Bevono il tè e l’umidità pesante annuncia un temporale. E:

Facciamo una conversazione vivace e cordiale, alla maniera veneta, parliamo un po’ di tutto, da fatti pubblici come la politica e la letteratura a fatti privati come il mio matrimonio. Parise, che non dovrebbe fumare, fuma continuamente seduto di sbieco su una poltroncina, sta zitto ma con l’aria di attenzione di chi ascolta. […] Ad un tratto, in un breve silenzio, colgo l’occasione per dirgli che ha una bella casa. Allora si alza, con passo lento e affaticato mi viene vicino, e mi dice in tono di scontento oggettivo e polemico, come se non parlasse di se stesso ma della casa: «Sì, ho una bella casa, ma sto per diventare cieco».[1]

La sua ultima eredità, quindi, è in versi. Versi che non solo pensa e realizza, ma che detta, appunto, violando il suo impedimento fisico e cercando l’altro, un aiuto esterno, per lasciarli in vita dopo la sua vita. Ci teneva dunque così tanto Parise a esplicitarsi in versi? Perché, dato che mai aveva avuto desiderio di scriverne (se non da giovanissimo, nella culla della sua vita letteraria[2])? Pare proprio gli premesse di chiudere la sua esistenza con queste poesie, che sembrano una necessità, un bisogno. Il suo corpo implodeva, forse anche la sua prosa (poetica e non) implodeva, senza però rarefarsi, anzi: si accartocciava, si concentrava, come in un buco nero, si faceva sempre più densa, sempre più compatta. E questa tendenza sgorga in un linguaggio assai difficile da comprendere e interpretare: «Non sempre sono poesie di facile comprensione. Anzi, in certi casi, si tratta di poesie ardue», scrive Perrella che ha curato e introdotto l’edizione Rizzoli.[3]

Ma oltre ai significati, di queste poesie colpisce altro. Affidandomi di nuovo a Perrella, concordo nel sostenere che: «A una prima lettura, però, non è per nulla difficile abbandonarsi al loro ritmo».[4] Un ritmo che sempre secondo Perrella assomiglia a quello del Montale di Satura, il «Montale gnomico», e che, aggiungo io, sguscia dai canoni classici della poesia italiana del secondo Novecento per affidarsi a regole personali, per esempio la regola del suono che non gli impedisce di, anzi lo invita a, creare neologismi apposta per l’armonia dell’occhio e dell’orecchio di chi legge o ascolta. Ma lo vedremo a breve.

Intanto, costruiamo delle mappe e cerchiamo di accostarci a questi versi così particolari da indurre pochi tra critici e lettori ad avventurarvisi. Ricordo Zanzotto, Bandini e Perrella per l’edizione Rizzoli. Un libretto rilegato in stoffa rossa in cui dopo i trenta testi si apre una sezione di foto che ritraggono Parise in vari tempi e luoghi, da Vicenza a New York, dal Vietnam a Salgareda. Perrella chiarisce: «Abbiamo creduto che questa galleria di icone, per uno scrittore così prepotentemente corporeo come lui, potesse trasformarsi in un testo parallelo e autocommentativo».[5] Anche le poesie si ‘autocommentano’: sono infatti prive di note. Non ci sono spiegazioni né interpretazioni.

…se si prova a porre domande precise al lessico, ecco sorgere un numero non indifferente di difficoltà. E non è davvero facile risalire a risposte plausibili e precise. Per tale ragione si è pensato di editare queste poesie senza un apparato di note e rispettando tutta la peculiarità della loro misteriosa e fertile polisemia.. Che allo stato delle conoscenze attuali è giusto che rimanga tale.[6]

Di interpretazioni, più o meno fantasiose, se ne potrebbero azzardare molte. Per esempio da versi come questi, che aprono la raccolta:

La danzatrice greca
color viola
brillava nell’ombra
era pavillon o
giardino per defunti?
Alle forme di Costantino
la sola risposta.[7]

Ci si può subito domandare chi è la danzatrice greca o chi rappresenta, e perché è vestita di viola e se viola è appunto l’abito o lei stessa. Perché la scelta del francese ‘pavillon’ in luogo di un italiano ‘padiglione’ e perché la danzatrice brilla e perché il dubbio tra un padiglione e un cimitero. Cosa sono le forme di Costantino, chi è per Parise Costantino, perché sono qui le risposte. E ci si potrebbe divertire a inventare delle storie da questa e dalle altre poesie che lasciano aperte porte di significati davvero fantasiosi. Indovinare però cosa ‘frullava in testa’ a Parise (come mi disse simpaticamente Omaira Rorato in una conversazione telefonica) è troppo arduo, anche per i più bravi tra gli addetti al mestiere.

Tra gli aspetti più curiosi di questi trenta componimenti ci sono, come già accennato, i neologismi, un «idioletto», come lo chiama Perrella, «affascinante, misterioso e fantastico».[8] Spesso Parise si affida ai suoni modificando alcune lettere di alcune parole per farle consuonare con le vicine di verso. Per esempio ‘laico’ diviene ‘loico’ in «Teosofo loico/con la scusa dell’omosex/ti facesti teologo…»;[9] oppure compare un ‘olore’ al posto di ‘odore’: «Pensiero di setola/ma olore di lord…».[10] A volte invece crea parole troncando, assolutizzando: tronca ‘ozono’ che diventa ‘ozo’, ‘ozo’ senza articolo, quasi un nome proprio: «Schiocchi di ombrelloni verdi e blu/contro il mare di sulfo/ozo invade l’aria…».[11] E ‘sulfo’ stesso è un arcaismo improbabile. Altra ‘assolutizzazione’ è quella di un prefisso, ‘archeo’: non è utilizzato come prefisso, bensì come aggettivo a sé stante: «Immerso l’occhio/nel fondo archeo…».[12] Una libertà lessicale che sfiora un anarchismo ribelle tutto parisiano. «E’ anche attraverso questo felice libertinaggio lessicale che Parise dà vita a quelle che Andrea Zanzotto ha definito “immagini fosforescenti”».[13]

Per cercare una plausibile geografia di questa ‘forforescenza’, una possibile mappa che posso tentare è quella tematica/contenutistica. Ci sono infatti elementi che tornano. Uno interessante fra questi (e Perrella lo nota) è il numero elevatissimo di animali. In soli trenta testi Parise cita: «pesci» (p.21), «animali» (p.23), «formiche» (p.29), «tope» (p.31), «astici» (p.35), «volatili gracchioni» (p.39), «ramarro» e «formica» e «polipo» (p.40), «pernici» e «camoscio» e «corvo» (p.43), «larva» e «cagnolino» (p.53), «coleottero» e «formiche» e «libellule» e «farfalline» (p.57), «pidocchi» (p.58), «strilli scimmieschi» e «scoiattolino» (p.59), «merlo d’acqua» (p.61), «porcella» (p.65), «vipere» (p.71).[14] Un numero che colpisce.[15] Inoltre, due poesie sono dedicate al suo noto cane, Petote, l’unico animale che ha l’onere e l’onore di avere un nome. Entrambi i testi intitolati appunto Petote e –anche questo lo nota Perrella- in entrambi non si può non scorgere una linea di autoritratto nemmeno troppo celata.

Il primo è il seguente:

Come me anche tu
cerchi compagnia
ma non tra i canini
Diffidi dei proverbi
e a Darwin credi
quanto basta per esistere

Ma sai che l’onore
ha regole senza specie
il pedigree obbedisce
a chi gli è simile

Magra è l’onda
della bestia di stile
e tu sei bestia di stile
sei tra coloro
che non fanno banda

Pensiero di setola
ma olore di lord
ti degnò la magra
la sprecona lady
dell’universo.[16]

Questi versi sono di più semplice e immediata comprensione rispetto ad altri e a chi conosce almeno un po’ Parise e la sua biografia risultano da subito familiari. Del suo cane dice che sì, cerca compagnia, ma non fra i suoi simili, non si trova a suo agio con gli altri cani, come un perenne outsider: «come me». Immediatamente emergono a mosaico pezzetti di ‘sentito dire’ su Parise: dagli amici che parlano di lui ai convegni, dalla compagna Giosetta Fioroni, da editori e colleghi scrittori, da vicini di casa e di vita. Vengono in mente per esempio alcuni episodi raccontati dalla Fioroni: quando aveva ospiti, se questi non gli garbavano, Goffredo si alzava, usciva dal salotto e se andava via, non tornava più; e lei doveva arrangiarsi come poteva e giustificarlo. E quando De Benedetti le chiede: «Com’era la convivenza?» lei risponde con amore, ma anche con lucidità:

Domanda difficile, dopo 24 anni di convivenza. Ci sono stati problemi, ovviamente. Ma posso dire con certezza di non essermi mai annoiata, neanche un minuto. Goffredo era vitale, anche troppo, a volte era difficile stare con lui, era un estremista, aveva una natura esplosiva e originale.[17]

Questo suo temperamento schietto e inquieto Parise lo regala anche a Petote, il quale diffida dei proverbi e crede a Darwin «quanto basta per esistere». Darwin è stata una lettura importante per Parise e tornerà anche in un’altra poesia cardine della sua raccolta, lo vedremo a breve.

E ancora parla di sé Parise quando dice che il pedigree, la purezza della razza canina con la sua storia di antenati, fa ‘avvicinare’ solamente chi è della stessa ‘famiglia di élite’; ma l’onore, l’umanità direi, ha regole che non solo non sono quelle della ‘razza’, ma addirittura non sono quelle della specie. A proposito di discendenze familiari (di pedigree) ricordo un evento che ha perseguitato Parise per tutta la sua infanzia e che lo ha accompagnato anche oltre, per tutta la vita: egli era infatti ‘figlio naturale’, suo padre non lo ha mai riconosciuto e il suo cognome lo ha ereditato ormai maggiorenne dal patrigno, che ha sposato sua madre quando lui era già bambino. Nella Vicenza degli anni Trenta questa sua condizione di orfano non è stata di facile sopportazione; lui stesso racconta episodi di dolore, come il momento tanto atteso della foto di classe, alle elementari, quando la maestra lo invita a stare in disparte, a uscire dalla foto, anche lui come Petote dissimile dagli altri, dai ‘normali’, anche lui un senza famiglia.

A proposito dell’onore senza specie, non può non venire in mente la fame con cui Parise ha sempre divorato l’altrove e l’altro, l’ovunque e il chiunque, e di esempi –dai suoi reportages– ce ne sarebbero tantissimi. Da New York questo racconto di smanie e erotismo:

è molto strano perché in ogni posto dove vado non sto mai fermo e quasi non dormo alla notte per non perdere niente di niente. Anche qui dormo pochissime ore preso dalla frenesia delle negrette che mi perseguitano una più bella dell’altra. […] L’altra sera sono stato al Palladium, una grande balera soprattutto per negri a Broadway, dove si esibiscono ballerini dilettanti, in rumbe, cha-cha e changhe. Meraviglia delle meraviglie, l’erotismo di questi luoghi è veramente incredibile. Si condensa nell’aria come una nube vagamente profumata di sesso femminile, ma negro, e quindi assolutamente naturale come un forte odore di erba e di latte, misto a qualche innocente profumo di sandalo o di sapone.[18]

Ancora più chiaro l’autoritratto, riferendomi a ciò che è stato appena rilevato del suo carattere ispido e della sua fame di mondo, e soprattutto del suo innato senso di solitudine, quando a Petote dice «sei tra coloro/che non fanno banda».

Tengo a precisare però che il temperamento di Parise, di cui chi gli è stato accanto racconta, viene sempre bilanciato dall’affetto profondo che riusciva a suscitare in tutti. Lo dice bene Omaira Rorato nell’intervista rilasciata per la Casa di Cultura di Ponte di Piave: Parise viene spesso descritto come schivo e scontroso, ma –dice- era un uomo «divertentissimo» e racconta che insieme ridevano tanto e lui inventava degli scherzi macchinosi e terribili, come fingere di essere morto o di essere stato investito da un’auto. E sempre la Rorato fa emergere un altro aspetto dolce di Parise, ovvero il bisogno di ‘famiglia’ che nasce in lui negli ultimi anni della sua vita, da quando si installa nel Trevigiano, a Salgareda e poi a Ponte di Piave. L’idea di famiglia che si fa spazio nella sua testa, prima forse interamente occupata dall’altrove, dalla voglia di provare sulla sua pelle tutte le cose, tutti i luoghi.

La seconda poesia dedicata a Petote riprende questa sua posizione intima conquistata nei suoi anni in Veneto. Si conclude così:

Petote
un quattordicenne,
rachitico
dai piedi palmati
un aio rassegnato
che ebbe vita breve

Ma, dicono i
testimoni
di così poco spazio vitale
di buon cuore.[19]

Poco spazio vitale come un piccolo paese sul Piave, come una casa rosa molto semplice ed essenziale, quella a Salgareda. Come le famiglie di amici da cui si sentiva accolto e coccolato. Come le battute di caccia nel silenzio assoluto, in attesa. Come i pranzi rumorosi tra amici in osteria e il salame e il vino condivisi su un tavolaccio di legno grezzo, sul prato, sotto il melograno. Anche Parise trova il suo ‘buon cuore’ nella nicchia che va a scegliere, luogo secondario e appartato, ma l’unico da cui poter ancora dire; luogo che Parise percorre a piccoli passi, assaporandone tutti i particolari piccoli. La vita breve del suo cane riporta invece un’altra ossessione di Parise: il tempo e la brevità che ci è concessa. E anche lui, quasi prevedendolo da sempre (e nato artisticamente giovanissimo, quasi un enfant prodige, a detta di Zanzotto), muore giovane, a 56 anni soltanto.

Un altro autoritratto notato da Perrella è la poesia sul merlo d’acqua. Ancora un animale (questa volta anonimo) gli dà voce e parla di/con lui. Ecco come inizia:

Solo perché il suo verso
somiglia a una goccia d’acqua
come tante ne cadono nell’universo
nessuno crede al merlo d’acqua[20]

Il verso del merlo d’acqua è uguale a quello delle gocce che cadono che sono tantissime, ogni pioggia, ogni torrente, ogni rugiada. E quando parla lui, il merlo, nessuno gli crede poiché non riconoscibile. E continua:

Eppure se spiove
eccolo glottare
a lunghi sorsi
e senza regola[21]

Appena si tacciono i cloni del suo parlare, il merlo può dire la sua, lo fa lasciandosi andare (a lunghi sorsi) e soprattutto senza una regola: è libero di dire quello che vuole e di farsi finalmente sentire. Un solitario, il merlo, un incompreso, ma non per suo volere, per condizione naturale, biologica.

Simile al non essere
ma essere
deve essere per il merlo d’acqua
una blague
non configurata
nella storia naturale

Forse Charles lo sapeva
ma riservò l’interrogativo
ai non credenti.[22]

Una condizione speciale quella del merlo che, per questa sua particolarità vocale, linguistica, espressiva, oscilla fra l’essere e il non essere. A causa di uno scherzo della natura: una blague, appunto, che esce dalla griglia della storia naturale, non è prevista. Il Charles nominato è ovviamente Darwin, il quale forse già sapeva del merlo, degli scarti e degli scherzi che la natura a volte compie, ma «riservò l’interrogativo/ai non credenti»: Parise è uno di questi, lui che continuamente costruisce da sé il suo significato della vita, il suo disegno dell’umano, le sue specie, i suoi perché.

Non può non venire in mente il suo reportage da New York, già citato, in cui Parise, a proposito del nuovo mondo del consumo, il mondo americano, che si va imponendo sempre di più e che mangerà chi non si trova pronto e concorde, scrive:

La selezione è e sarà violenta e tuttavia la vita andrà avanti, come per quei pesci di non ricordo più quale era, che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati. Dal cataclisma essi furono costretti a nuove funzioni e dunque obbligati a creare altri organi necessari alla sopravvivenza, alla evoluzione della loro stessa specie ad altre specie, e in altre ancora fino alla comparsa dell’uomo.[23]

E si paragona –lui- a un pesce destinato all’asfissia, una specie in via di estinzione che verrà, per leggi darwiniane appunto, soppiantata da altre specie più forti che remano lungo la corrente della storia naturale, mentre lui cerca di risalire il fiume, va al contrario, e perderà:

Sono uno scrittore, prima di tutto, per di più italiano, e appartengo inesorabilmente alla vecchia cultura, quella in via di sparizione: sono cioè uno di quei pesci destinati all’asfissia e non allo sforzo di creare nuovi organi per assolvere nuove funzioni.[24]

Anche lui è una blague in questo nuovo mo(n)do che si sta imponendo,  anche lui come il merlo d’acqua non è creduto, non è sentito. Non può cambiare la sua voce, il suo humus, la sua cultura, la sua provenienza, come una pelle che non può mutare. Ma conclude:

Questo non toglie che anch’io non faccia quello che posso per trasmettermi in qualche modo, felice o disperato non lo so, nella nuova specie.[25]

E’ quando ‘spiove’ che anche Parise parla, continua a ‘glottare’ con gli strumenti che ha, la parola sui giornali, l’articolo, il reportage, la narrativa, la poesia. Anche i suoi silenzi dal Trevigiano. E lui pure parla senza regola, con la sua voce fuori campo che tanto si discosta dal coro: ricordiamo le reazioni che sono scaturite all’uscita dei primo Sillabario, lo scandalo che ha provocato poiché fuori dai binari percorsi dal mondo ufficiale della cultura, della letteratura, dell’impegno politico e del pubblico. Senza regole, e da un luogo in cui ben poche sono le gocce d’acqua svianti, da dove spiove insomma, Parise dice, può dire ancora.

E, oltre ai Sillabari, anche le sue trenta poesie sono una sorpresa. Parise prima di morire ha regalato un ennesimo suo modo di dire le cose, una nuova e inaspettata sua voce. Quel pesce di cui parlava nel 1977 nella nota di apertura a New York ha lanciato così il suo ultimo colpo di coda, per ‘trasmettersi’ ancora, per resistere. Che abbia scelto i versi, versi difficili da interpretare e da raccontare, lascia quell’impronta sibillina di ogni verità visionaria: cosa ha voluto dirci Parise con questo suo testamento scivoloso?

Scopriamo altro, continuiamo a disegnare mappe.

Leggendo alcuni testi vengono in mente i Sillabari. O meglio: torna quella sensazione ‘illuminante’ che li percorre tutti, quella visione chiara che emerge dal non detto e dalla semplificazione fulminante degli eventi e delle descrizioni. Una di queste poesie si intitola «Rabbino» e racconta di un rabbino che si siede in treno, in terza classe, «con abiti e cappello nero/barba e riccioli di fiamma».[26] La chiusa sono due strofe semplici, ma fanno intuire la meraviglia e la sorpresa delle cose nascoste e taglienti, del pericolo che attrae:

Più tardi aprì una fessura
della sua borsa nera
da medico
per cavare un untume kasher

Fu un attimo
un bambino vide brillare
all’interno
bisturi e pinze.[27]

È un bambino che con i suoi occhi meravigliati scivola nella borsa «da medico», da medico stregone, e vede i bisturi e le pinze, strumenti di chirurgia e di dolore, che però brillano: attrazione quindi per oggetti pericolosi, e occhio attento che coglie «un attimo». Ancora si parla di Parise: la sua propensione per il particolare, per la piccolezza che però rivela sostrati di verità, e il suo «sguardo prensile» che davvero si infiltrava negli anfratti del mondo andando ad afferrare piccoli indizi, gesti appena accennati, anche lui chirurgo del reale. Un reale che spesso è misterioso e glissa da un’analisi attenta (il rabbino tira fuori dalla borsa «un untume kasher», qualcosa di ‘non comune’) come nei Sillabari: nominano sentimenti e cose, ma scivolano dal titolo e vanno ad attingere in altro, come se chi apre la borsa del rabbino (chi va a cercare di dire le cose) si trovasse sempre di fronte a qualcosa d’altro, un leggero scarto che fa di ogni definizione cercata un prisma, un gioco di specchi deformanti.

E da qui spontaneamente si allaccia un tema importante per Parise, quello della curiosità contrapposta alla ‘noia’, una curiosità che lo ha spinto sempre, per tutta la vita, a cercare l’altro/l’altrove, e quindi i viaggi con i reportages, le zone di guerra, i quartieri più ‘bassi’ delle grandi città, i gusti da assaggiare, i profumi, le donne eccetera. Ma anche, infine, Salgareda: gli aspetti più infimi della vita e della natura, l’upupa, le volpi in amore, le piene del Piave, le amicizie semplici, la caccia eccetera. Con il suo importante ‘naso veneto’ (come lo descrive Moravia): quasi presagio della sua propensione ad impicciarsi sempre dappertutto, un destino fisico, se volessimo dar fede a una scienza fisiognomica.

I tamponi poco chiari, altra poesia delle trenta, racconta bene questa frenesia parisiana:

I tamponi poco chiari
inzeppano i culs de sac
del canale sotto bassi archi
di case ex patrizie
e stillicidio di fogne:
promenades di losche tope.
E’ questo il destino
della pigrizia
Dove non è piacere
è mestizia.[28]

Il destino della pigrizia è impaludarsi in luoghi fognari (di tamponi e topi): «Dove non è piacere/è mestizia». E allora si deve andare, si deve curiosare, stare all’erta, sempre in movimento, sempre scartando le chiuse che la vita offre («L’occhio del camoscio/tira a sinistra/di alte vette»,[29] scrive). E si sognano luoghi ‘altri’, si sogna continuamente ‘alterità’:

L’ometto del tostato Brasil
tinge di bruno il fumaiolo
ad ogni scottata giù nel forno
per te che non conosci
l’odore del tropico
basta per sognare
seppur in così giovane età[30]

Questa ricerca di alterità viene però soddisfatta dai viaggi reali che Parise compie. Seguace della sua sentenza che manda da New York all’amico Vittorio: «Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita»,[31] come un bambino un po’ imprudente si lancia nelle cose, appena le annusa e ne viene attratto le afferra per guardarle, per mangiarle, per scriverne. Per fuggire al rischio più grande e più soffocante, la noia appunto, che racconta attraverso il suo personaggio Filippo de L’odore del sangue (personaggio che gli somiglia, suo alter-ego):

Nel frattempo vivevo la mia accidiosa vita in campagna. Perché dico accidiosa? Perché non avevo nulla da fare, mi annoiavo e la presenza della ragazza non bastava assolutamente ad alleviare questa noia. Mi annoiavo del resto anche a Roma e, io credo, mi sarei annoiato in qualunque altro posto del mondo.[32]

Una poesia datata 9 maggio ci racconta questo, ci racconta la ‘sete di cose’; e il conseguente rischio che a volte questa sete può trascinarsi appresso. Ableo è il nome del protagonista bambino, nome che può ricordare lo spagnolo ablar, ma che a mio avviso intende invece riprendere il balbettio dei bambini, il bla bla delle prime parole (sillabate), e quella ‘a’ è un’alfa privativa (a – bla bla) che indica la giovanissima età del bambino, la totale inesperienza di chi addirittura non parla, ma soprattutto la condizione di accoglienza totale e di meraviglia che solamente i piccoli hanno. Ableo si vede atterrare sulla mano un coleottero «color Radames»[33] (e: «L’estate buflava di vapori/nel centro botanico a giro d’occhio»). Ableo trova «felice» questo coleottero e anche lui è felice e ne è attratto. Ma…

Non sapeva Ableo
il destino del verdastro sigillo
segno del veleno
che portava con sé
dagli emaciati verdastri avi
morti di colera e di peste
al tempo dei pidocchi

Ableo non conosce il rischio che tiene tra le dita: il veleno del coleottero è lì sulla sua mano, ma la curiosità è tanto forte da non fargli presagire un rischio, una fine. Parise continua la sua storia facendoci perdere nei pensieri del bambino, come dimenticando il siero mortale e il pericolo in agguato. Ci smarriamo con lui nello splendore della corazza metallica che pare finta:

Ma fu attratto da quel cangiare
dall’artificio di quel venenio
da quella metallica scorza
di prestabilito uranio nel sangue
di cosa fatta
negli eremi chimici
delle composizioni di rame

E infine accade, il bambino meravigliato e stupito da tanto splendore che sembra ‘chimica’, che sembra una composizione di rame, viene punto, così, come può accadere che sia:

Poteva essere una goccia nell’occhio
una volta compiuti i misfatti
fu invece un atomo nel sangue
delle colpe avite
ma quel colore Radames
fu ciò che decise per sempre
la breve vita dell’infante Ableo.

E senza motivo Ableo muore. Muore per essere stato curioso, per la sua sete e per la sua meraviglia irrinunciabile. Di nuovo –altro leitmotive parisiano- ecco la brevità della vita. Parise è un piccolo Ableo, pronto a morire pur di non rinunciare alla sua curiositas e di non sprofondare nella «mestizia» dei pigri.

Dagli imprendibili versi di Parise torna un altro tema a lui molto caro, che preme la sua sensibilità da molti anni, soprattutto negli ultimi di ritiro fecondo. Uno dei testi più interessanti lo fanno emergere: sono i versi dettati il 12 maggio. Parise si rivolge a due nomi, Jack e Wladimir, identificati da Perrella[34] come Kerouac e Majakovskij, l’americano e il russo; li invita ad ‘alzare i fari’ per illuminare «le uniformi/di questi vecchi Papi di pezza»[35], simbolo di «ciò che fu»: è la storia stantìa, è la polvere incatramata, incrostata, è il vecchiume immobile che non si rinnova. E’ anche forse Roma, la città da cui lentamente Parise scivola via. Questi ‘Papi’ si credevano dei re –dice- e invece sono solo stracci («Uff che stracci») coperti da questa polvere immobile. Diverso –continua Parise- era «quel danese vestito tutto di nero/non pareva nemmeno morto»: è Amleto, un Amleto differente dalla «cipria» della storia, da tenere a mente, accanto a sé, in questa piccola rivolta che Parise lancia:

Via via ragazzi
troppa polvere di storia
disinfestiamoci
presto ragazzi

Alleggeriti finalmente da «ciò che fu», liberatisi dall’ossario della storia, guariti come da una malattia fossilizzata, ci si può tuffare nell’uranio, accompagnati dal ricordo di Amleto che vigila. Ecco la chiusa della poesia:

Questo è ciò che fu
tuffiamoci ora nell’uranio
e che l’ombra del nero principe sia con noi.

L’uranio che cos’è? Perrella tenta un’interpretazione che convince: Parise sceglie di abbandonare il mondo romano per abitare un luogo di silenzio e di miniature, per tentare di trasmettersi così «nella nuova specie», nonostante la sua condizione di «pesce destinato all’asfissia», per resistere insomma, nel senso di resistenza attiva e profonda: questo è il suo bisogno, la sua urgenza, questo è il suo ‘uranio’:

Abitare la casetta di Salgareda a un passo dal greto del Piave, la cui scoperta viene raccontata ne L’odore del sangue, e dove scrisse i Sillabari, fu forse per Parise un modo di tuffarsi nell’uranio. Fu forse il suo modo di trasmettersi nella nuova specie.[36]

E’ stato un ritorno alla (sua) terra, nel suo Veneto, non lontano da dove è nato, quindi una scelta di vita intima, ma è stata anche una scelta, compiuta dal Parise scrittore e giornalista, testimone e portatore di una cultura che via via vedeva assottigliarsi davanti ai suoi occhi per lasciar posto all’altra, l’americana (per capirci, per capire insieme a lui: l’American Way of life[37]), la posticcia, la miserabile, quella degli uomini vili:

L’uomo non è che tricot
dove la viltà si addensa
per un minuto di più
di miserabile vita
come non toccasse anche a loro[38]

E’ da questa vita che Parise si allontana. Più che con sano disgusto, se ne allontana con tristezza, poiché crede che nulla valga fare per cambiare lo stato delle cose; abitare questa ineluttabilità, invece, e portarla con sé nella tomba, senza ferite mortali alle spalle, ma in faccia. Arrivare eroicamente, seppur malinconici, al «cinerario finale»:

Non è più tempo dei più
i meno giocano la partita
fino alla coppia fatale
della scala reale

Dollaro o rublo
annullano il fixing
nel cinerario finale

Vale.[39]

Tanto, la cultura in via di sparizione non tornerà e anche la voce di chi resiste non servirà:

Ma a nulla valse
il testimoniere
tutto rimase com’era
come fu[40]

E’ Parise il testimoniere che porta avanti la ‘vecchia cultura’, fino in fondo, fino al «grado zero» della penna, del pensiero, ma sapendo bene che ogni cosa resta com’è e com’era. E anche il paesaggio, il suo caro paesaggio veneto che straripa dalle pagine dei Sillabari con dolcezza di piante, animali, fiumi, in una delle ultime poesie dettate (datata 21 maggio) diventa aspro, pauroso e oscuro, come a presagio di qualcosa che sta per morire:

Anghebeni pietrito ossame
che snodi la tua curva
fino al tappeto di muschio
del fondo valle

il nord pesa in gole fredde
alle pendici di un Pasubio
tra garze di nubi gelide
nei luoghi ormai
coperti di tempo minerale
e di vipere.[41]

Ma in mezzo a ossami, muschi, gole fredde, garze di nuvole gelide, in mezzo a un tempo fossile e immutabile, e di vipere, ecco che si apre un nuovo guizzo parisiano. Come non aspettarsi una virata, nonostante la malinconia dell’abbandono (della vecchia cultura e della vita stessa che lo sta abbandonando velocemente). E conclude così:

L’ossario è a monte
sul lato Italia
un guardiano
latte condensato mangia
all’alba tra le nevi
ignaro di ciò che fu
di ciò che è.[42]

Il questa chiusa, così sua, viene spontaneo riconoscere il «vecchio di campagna» del sillabario Bellezza: vecchio che ogni mattina

usciva di casa con la falce e un carrettino. In tasca aveva la pipa con la borsa del tabacco, un astuccio fatto con un pezzo di bambù per i fiammiferi e un coltello ricurvo molto tagliente. Appeso alla cintura aveva un corno di bue, immersa nell’acqua dentro il corno la pietra per affilare la falce[43]

Anche lui, come il guardiano, è ‘ignaro’: trascorre la vita da solo, non viaggia, evita gli incontri, addirittura è analfabeta e «superbo di non saper né leggere né scrivere».[44] Tutta la sua vita è concentrata su ‘niente’: falciare, fumare la pipa, progettare cambiamenti da apportare ai suoi vigneti; oppure: l’avvistamento di una volpe, uscire o no anche con la neve, conoscere a memoria tutti i tipi di legname, lavorare un’intera giornata a un solo ramo, per costruire un arnese di lavoro. Non conosce null’altro che le sue cose, non cerca niente. Come il guardiano del Pasubio che nella neve all’alba mangia il latte condensato e lì, in quel luogo, in quel gesto, in quel momento preciso, lì è tutta la sua vita ‘ignara’.

Non può essere questo che un ulteriore monito parisiano a non perdersi nel tanto grande che imbottiglia nel tanto piccolo, ma casomai compiere l’azione inversa: scendere nel tanto piccolo, spostarsi nelle miniature, e aprirsi così al tanto grande: una qualità che vince sulla quantità, l’esatto contrario di quello che avviene nella tanto dilagante American way of life in cui il mercato «ha perduto la qualità […], in compenso ha guadagnato in quantità».[45] E questo, tradotto in una poesia non facile da interpretare (almeno per intero), diventa così:

Partagia Partagia
c’era un tempo
un lessico
di comportamento

Partagia poteva anche essere
un vinaigrette malriuscito
ora non più
ora si ingozza
ora tout se tient

Ma partagia è anche
un dito puntato
sui sistemi dell’universo.[46]

Partagia è a mio avviso la resa nominale e l’italianizzazione del verbo francese partager, ovvero ‘condividere’. Parise infatti ci dice che un tempo, prima dell’avvento americano sulla ‘vecchia cultura europea’, esisteva un ‘lessico di comportamento’: era appunto la condivisione, anzi la qualità della condivisione (parla di lessico, non di regole). Lo stare con gli altri senza fretta e senza affanni. Ci si com-portava con misura. Riprende il francese (che conosceva bene) quando dice che ‘partagia’, questa condivisione, ‘poteva anche essere / un vinaigrette malriuscito’. Fatto in casa, quindi, con olio sale aceto senape, ma magari non dosati correttamente. Però si condiva lo stesso, non era importante, anzi: era tutto buonissimo poiché si era ‘partagia’. Ma ogni cosa è cambiata: la quantità sulla qualità, la frenesia, l’accumulo di oggetti, di cose, di cibo: ‘ora si ingozza’. Anche la compagnia, anche la condivisione è un riempirsi la bocca, un non sentire più nulla, è quando tutto è identico e non si distingue più, allora ci si ingozza senza avvertire i sapori: ‘tout se tient’. Altra espressione francese, che può giustificare la ricostruzione ‘partagia’ < ‘partager’. Tout se tient poiché riempito di abbondanza, senza più ‘spazio critico’. Ma ‘partagia’ –ci dice Parise- (e questa volta la P è minuscola: ormai non ci sono valori, se non l’American way of life) è anche un monito per ‘i sistemi dell’universo’: questo riporta alla teoria evoluzionistica di Darwin e alla selezione naturale, spietata nella sua spinta di autoconservazione, che trova un freno solamente nella riuscita della condivisione umana, la quale non ha paura del caos, del caso, della morte stessa. Parise sembra dire che di fronte all’universo che incalza senza freni ci sono gli affetti, seppur a lettere minuscole. Quella vaga ‘idea di famiglia’ maturata in lui negli anni trascorsi a Ponte di Piave, nella sua vera prima home.

«Un dito puntato/sui sistemi dell’universo», scrive: non si riesce certo a comprendere i versi parisiani puntando un dito e facendo ordine magicamente, ma abbiamo visto che non è difficile estrapolare dalle oscurità che ci regala alcuni temi cari che già emergono nell’intera sua opera e/o tentare interpretazioni.

Resta da domandarsi cosa mai Parise cercasse nel verso, verso inteso come struttura. Senza dubbio la sua scrittura era da sempre immersa in quell’«idea di poesia» sfociata nei Sillabari. Ma perché questo bisogno di versificare, di versificarsi, proprio alla fine della vita? Forse che la poesia in versi viene ad assumere vesti di verità, una verità che Parise vuole suggere e ri-depositare in modo puro e cristallino? Uno scavo in profondità che solamente il verso riesce a compiere e a riproporre?

O non si tratta semmai di un occhiolino che Parise ci fa, l’ultimo suo ‘scherzo’? Le sue trenta poesie, benché ricche di significati, come abbiamo scoperto, paiono maschere di se stesse. Un po’ come l’ultimo Montale che fa il verso alla sua propria poesia, alla poesia in generale, poiché riconosce la sua fine «come presa sul reale, come tentativo di agire su di esso, e il suo innalzamento a seconda potenza, come poesia della poesia».[47] Dalla pubblicazione di Satura (e siamo proprio nel 1972, anno di uscita del primo Sillabario) cambiano i colori montaliani, cambia la struttura e cambia la fede nei confronti del verso. Una poesia che un tempo era misura di verità ora non è altro che parodia di se stessa. «E’ un’abdicazione della forma, una rinuncia agli incanti della poesia?»[48]

Parise con i Sillabari chiude un suo percorso artistico e di vita. Le sue trenta code in versi ci vogliono forse confidare che la poesia non può più dire. Esiste, si può scrivere, ma è bloccata in gabbie di inadeguatezza che non permettono di andare a fondo, si resta sempre in superficie, sempre intra-vedendo, mai prendendo. E allora si inventano parole, si è oscuri, si parla di letteratura o del proprio cane, ma non si deposita mai niente, è come un cantare a filastrocche sui propri dolori o un parlare di qualcosa sempre glissando, a piccoli morsi e fughe. Parise, il poeta che scrive in prosa, come lo definì Calvino, sceglie di ‘farsi il verso’ e di lasciarci in tono beffardo e provocatorio, come soleva fare ed essere sempre. E’ questa un’ulteriore riprova del suo sguardo che non si accontenta mai e cerca sempre il di più, l’altro, gli altri, gli altri modi per non sedersi mai e continuare a cercare, a tentare, a lasciar tracce di sé che siano sempre nuove e sempre aperte. Uno sguardo prensile, come è stato definito, prensile ma anche di più: tentacolare, con tante ‘mani’ da lanciare nelle cose. L’occhio del polipo: è sicuramente il suo.

Chi lo vide Ulisse?
Forse l’occhio del polipo
attratto dalla luna
Ma fauna d’acqua
ne udì la chiglia
per sentito dire.[49]

Chi è Ulisse? Ulisse è il viaggio, l’incarnazione artistica del viaggio. E della curiosità. La resa dantesca ne è l’esplicitazione più bella, con il racconto della violazione del ‘non plus ultra’ alle Colonne d’Ercole: “fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza.”[50]

E chi lo vede Ulisse, chi può aspirare a veder passare proprio lui, l’uomo che si spinge ‘oltre-il-lontano’ per ‘guardare/toccare le cose’ e che racconta di luoghi incantati, magici, pericolosi, estremi, incredibili? L’occhio del polipo che già è rivolto fuori dall’acqua, per guardare la luna. Già era curioso di qualcosa che non è acqueo, non è nemmeno terreno, è la luna, oggetto da sempre di poesie e di prose e di sogni e immaginazioni. Il polipo con il suo occhio spalancato vede passare l’uomo ‘dal multiforme ingegno’, nella sua nave che chissà da dove arriva e chissà dove finirà. La fauna d’acqua invece, ancorata alla melma dei fondali, al buio assoluto, non vede niente («dove non è piacere/è mestizia»); ma solamente sente passare la chiglia: l’unica parte visibile della nave da sott’acqua. Un resto, l’apparenza, la facciata. Ma non ode nemmeno, bensì ode «per sentito dire». Chi resta nei fondali e non mette mai la testa fuori dall’acqua non vedrà mai nulla, ci dice Parise. Ha cinquantasei anni e sa che a breve lascerà la vita.

Lui no, Parise va a vedere. L’occhio del polipo.

 


[1] A. Moravia, L’ultima volta, nel suo Veneto, «L’Espresso», 14 settembre 1986.

[2] Mi riferisco a G. Parise, I movimenti remoti, Roma, Fandango, 2007.

[3] S. Perrella, Introduzione, in G. Parise, Poesie, Milano, Rizzoli, 1998, p. 8.

[4] Id., Poesie, cit., p. 8.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ivi, p. 19. La data in calce alla pagina è del 30.3.86.

[8] S. Perrella, Introduzione, in ivi, p. 9.

[9]  G. Parise, in ivi, p. 29.

[10] Ivi, p. 41.

[11] Ivi, p. 77.

[12] Ivi, p. 39.

[13] S. Perrella, Introduzione, in ivi, p. 9.

[14] G. Parise, in ivi.

[15] Ricordo quanto gli animali siano presenti anche nei Sillabari; sarebbe interessante approfondire il confronto.

[16] Ivi, p. 41. La data è del 23.4.86.

[17]  Si tratta di appunti miei, dal convegno Sono nato a Venezia, svoltosi tra Venezia (nella sede dell’Ateneo Veneto) e Ponte di Piave tra il 12 e il 15 ottobre 2006. Non sono ancora stati redatti gli atti.

[18] G. Parise, New York, cit., pp. 81-2.

[19] Idem, Poesie, cit., p. 26. La data risale al 2.4.86.

[20] Ivi, p. 61. La data è del «10.5.86».

[21] Ibid.

[22] Ibid.

[23] Idem, New York, cit., pp. 4-5.

[24] Ivi, pp. 5-6. Scrive Belpoliti: «Davvero il mondo di Parise, come spiega con grande chiarezza nella prefazione al libro del reportage americano, è finito», M. Belpoliti, La pietra e il cuore, in Settanta, cit., p. 214.

[25] G. Parise, New York, cit., p. 6.

[26] Idem, Poesie, cit., p. 27. La poesia è datata 2.4.86.

[27] Ibid.

[28] Ivi, p. 31. Poesia datata 4.4.86. Si noti il ritmo da ballata, cantato e canzonante, o da motto popolare, da filastrocca da imparare a memoria. Quasi Parise si sia divertito nell’invenzione di una apologia di se stesso.

[29] Ivi, p. 43.

[30] Ivi, p. 69. E la chiusa è da segnalare, come ulteriore marchio di frenesia: «Eppur era una villetta/Liberty/il sogno che fu di un borghese/con orologio a panciotto»; ibid..

[31] Idem, Lettere americane, in New York, cit., p. 89. Le lettere, scritte nel 1961 durante il primo soggiorno americano di Parise e pubblicate postume, sono indirizzate all’amico Vittorio Bonicelli, giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore e produttore. Vengono in mente i celebri versi di Baudelaire a proposito della noia: «Le monde, monotone et petit, aujourd’hui,/Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image:/Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!», Ch. Baudelaire, Les fleures du mal, in Oeuvres Complètes, Paris, éditions Robert Laffont, 1980. (Paris, 1853).

[32]  G. Parise, L’odore del sangue, cit., p. 28. «La noia è nemica dell’eros, della fecondità, cioè della vita, anzi è il contrario della vita», ivi, p. 139.

[33] Finché non specificato altrimenti, si cita dalla poesia alle pp. 57-8 di Id., Poesie, cit.

[34] Perrella a sua volta ammette di far tesoro di un suggerimento di Pier Vincenzo Mengaldo per la ricostruzione identificativa dei due personaggi citati. Ivi, p. 11.

[35] Per il commento a questa poesie, se non viene specificato altrimenti, si cita da ivi, p. 67.

[36] S. Perrella, ivi, p. 13.

[37] «al vertice di questa spirale sta l’America o per meglio dire il way of life e tutto ciò che l’industria americana produce: è importante l’industria leggera americana perché invade il cuore e le menti degli uomini in tutte le parti del mondo con la sua filosofia dell’utilità e della pratica, cioè della materia. […] molte parti del mondo sono colonie dell’America, altre lo stanno diventando e quelle che non lo sono ancora muoiono dal desiderio di diventarlo: non diversi erano quei pellirossa, quei “buoni selvaggi” pronti a pagare un pugno d’oro all’esploratore bianco per quattro perline colorate», G. Parise, New York, in Opere, vol. II, cit., p. 1004.

[38] Idem, Poesie, cit., p. 51.

[39] Ivi, pp. 51-2.

[40] Ivi, pp. 39-40.

[41] Ivi, p. 71. Da rilevare la corrispondenza di questi versi con quelli di Zanzotto: il legame al paesaggio, spesso descritto duro e rivelatore.

[42] Ibid.

[43] Id., Sillabario n.1, cit., p. 76

[44] Ivi, p. 78.

[45] Idem, New York, in Opere, vol. II, cit., p. 1035.

[46] Idem, Poesie, cit., p. 49. Corsivi miei. La poesia è datata 7 maggio.

[47] Giorgio Zampa, Introduzione in E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. XLV.

[48] Ivi, p. XLIX.

[49] G. Parise, Poesie, cit., p.

[50] Dante, XXVI, 118-120.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).