Leggere per insegnare

da | Ott 13, 2016

Un dialogo inedito sulla poesia fra Alberto Bertoni e Roberto Galaverni.

La poesia è forse, là dove davvero c’è, il luogo in cui la lingua fa più fatica a essere portata via da se stessa, perché vi è come incarnata in una musica, in immagini, in idee, in pensiero ed è molto facile, frustrante ma perfino bello a volte vedere come – riflettendo sul testo poetico – se ne rimane comunque al di fuori. Lo si fa perché la nota critica è comunque traccia dell’intelligenza di un lettore, di uno che scrive le proprie riflessioni o impressioni: ma sembra sempre di portare via qualcosa di troppo, quando si riflette su una poesia, cioè di mancare e di violare in qualche senso la sua faccia, la sua individualità. Nei tuoi libri di critica, ci sono dei bei commenti introduttivi al poeta attraverso la poesia e poi c’è una parte più generale di riflessione, di argomentazione, di guida anche volutamente didattica. Quindi vorrei chiederti qualcosa sui modi, sui termini e anche sui problemi che hai dovuto affrontare per cercare di dare un’immagine critica di questa cosa che noi chiamiamo poesia contemporanea italiana.

Appartengo a una generazione che si è frammentata in molti rivoli, però di tutte le attività che ho condotto a partire dal 1980, quando ho finito il servizio militare (la mia – come ha magnificamente testimoniato il mio amico Pier Vittorio Tondelli nel suo romanzo Pao Pao – è stata anche l’ultima generazione che ha buttato un anno di vita nel servizio militare obbligatorio), considero di aver meritato un solo titolo, che non è Professore né Poeta ma molto più semplicemente Insegnante di letteratura e soprattutto di poesia. Ho ricevuto moltissimo dalla frequentazione dei poeti e degli artisti, ma devo ammettere che ho ricevuto molto di più dalla loro poesia. E per quello che mi è stato e mi è possibile alla poesia ho cercato e cerco tuttora, ogni giorno, di restituire qualcosa. Il mio libro critico cui ti riferisci, La poesia contemporanea, pubblicato dal Mulino nel 2012, parte proprio con un capitolo intitolato ironicamente “Tutti poeti?”, che è una specie di analisi sulla situazione anche sociologica della poesia oggi. Pare siano circa un milione, gli estensori di versi – cioè coloro che vanno a capo prima che la riga tipografica a loro disposizione sia finita – che espongono i loro sentimenti, il loro vissuto, qualche volta il loro diario, in ogni caso una loro visione della realtà, nonostante che appena duemila di loro (quindi in un rapporto di 1/500, un rapporto peggio che nazista, se ci si pensa) siano disposti ad acquistare (e si presuppone o si spera a leggere) un libro di poesia contemporanea.

Uno dei primi problemi della poesia contemporanea, e mi rivolgo davvero ai giovani invitandoli a lottare contro questa inaccessibilità della poesia contemporanea (l’opera dei blog e dei siti specializzati è in questo senso meritoria), è quello della difficile reperibilità dei libri di poesia. Anche un libro uscito due tre quattro anni fa è difficilissimo, quasi impossibile da trovare in libreria. Adesso, con i sistemi IBS e Amazon, attraverso il web è forse più facile, se proprio si è appassionati, ma si tratta pur sempre di aspettare un postino, pagare in contrassegno, tutte operazioni che non sono francamente immediate. Quindi, se si ha bisogno di poesia, se si vuole – come credo sia doveroso – cercare la poesia, bisogna rivolgersi alle biblioteche pubbliche quando va bene o alle antologie che in qualche modo circolano un po’ più dei singoli libri.

Io sono partito da questa premessa tutta umana: la poesia è qualcosa di cui abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Perché? Perché agisce con il codice naturale, espressivo, di cui disponiamo, il linguaggio. Si tratta di compiere un’operazione quasi di distillazione, di impreziosimento del linguaggio quotidiano che invece negli sms, nelle mail trattiamo con inelegante, imprecisa sufficienza: anche se mail e sms hanno in ogni caso riattivato una pratica costante e quotidiana dell’atto di scrivere dopo un decennio come quello conclusivo del Novecento, in cui ogni rappresentazione simbolica del reale e dell’umano sembrava dominata dall’immagine.

Io per esempio sono abbastanza canzonato dai miei studenti perché ancora metto la maiuscola dopo il punto fermo nelle mail e vado a capo quando è finito un paragrafo. I miei studenti considerano queste operazioni retrò o addirittura arcaiche. Mettere la maiuscola in una mail sembra un assurdo totale. Poesia, invece, è un po’ come mettere la maiuscola quando va messa, perché equivale a trattare il linguaggio in modo non automatizzato, ricco, polisemico. Infatti la poesia è prima di tutto selezione, rispetto, potenziamento del linguaggio che usiamo come strumento di comunicazione quotidiana. Certamente, come in tutti gli sport e in tutti i giochi, per fare poesia, se si pretende di costruirla in quella forma artificiale di linguaggio che è il verso (andando a capo con un segmento linguistico che è potenziato da ragioni musicali e prima che la riga a nostra disposizione sia finita), bisogna osservare certe regole di composizione. Indipendentemente dal fatto che noi scriviamo in metri tradizionali, endecasillabi, settenari, terzine incatenate, quartine, rime obbligate o in versi liberi, una poesia risponde a regole determinate di composizione: prefabbricate per via tradizionale se è una poesia composta in metri chiusi; forgiate e “musicate” per l’occasione dall’autore/autrice, se è poesia in versi liberi.

Uno dei primi problemi è quello dell’educazione alla poesia. Io non posso mettermi a scrivere una poesia in cui dichiaro anche il mio sentimento più puro senza conoscere una minima regola compositiva, senza sapere che disponendo le sillabe e le parole in un certo modo ottengo un effetto musicale, che è importante per attirare l’attenzione e titillare l’orecchio di chi si prenderà l’impegno di leggere quella mia poesia. Se invece non sono di ciò consapevole, se butto lì le sillabe come se scrivessi una mail o un sms, questo effetto non scatta più e chi legge la mia poesia la molla dopo due versi perché si chiede “cos’è questa patacca, cos’è questa noia”. Come tutte le manifestazioni del linguaggio umano, infatti, la poesia non può essere rivolta a chi la scrive né limitarsi semplicemente a una dimensione di sfogo personale, ma può essere usata quasi in chiave terapeutica. Questo va benissimo, purché però si tenga conto che nella vera funzione linguistica è sempre attiva e necessaria la condizione di rivolgersi a qualcuno. Una poesia è sempre un atto linguistico prodotto dall’autore o dall’autrice ma rivolto a un interlocutore che, quando il transfert innescato dal testo funziona, l’autore o l’autrice non conoscono, essendo questo interlocutore dislocato in uno spazio e molto spesso anche in un tempo lontani rispetto al tempo e al luogo geografico che hanno prodotto quel messaggio. La poesia è quindi un messaggio di dislocazione, di trasferimento, di movimento nello spazio e nel tempo. E dev’essere enunciata in un modo originale.

Insegnare poesia è un problema, allora, nella scuola e nella società contemporanee? E se – come pare – lo è, in che modo lo si può o lo si deve risolvere?

Dal 1999 al 2011 ho avuto il privilegio di condividere – in contemporanea allo svolgimento del mio ruolo presso l’Università di Bologna – un insegnamento con Ezio Raimondi a Bressanone, in una neonata facoltà di Scienze della Formazione: la nuova dicitura dell’antico Magistero di cui Raimondi, a Bologna nel ’55, era stato uno dei fondatori. I pedagogisti puntavano molto in alto sul piano della qualità, tanto da chiamare un maestro come Raimondi (che mi affidò 20 delle sue 30 ore curricolari), ma non avevano alcuna intenzione di introdurre un insegnamento “ufficiale” di Letteratura: perciò ci affidarono questo modulo con l’ambigua dizione “Lingua madre (Italiano)”. I nostri molti studenti, dentro un’università a pieno titolo trilingue, Tedesco Italiano Ladino, erano gli italofoni che provenivano da Bolzano o dal Trentino. E il nostro target era dunque formato da maestri e (soprattutto) maestre elementari e delle materne, già in servizio o in fase di formazione pedagogica: io parlavo soprattutto di poesia e fin dal primo anno mi colpì la radicale discrepanza tra l’assenza di cognizioni poetiche anche ovvie tra i miei studenti; e la qualità delle risposte che – in merito alla poesia – davano i loro piccolissimi discenti. Quasi a ogni lezione, i nostri studenti mi portavano esercizi e fogli in cui si congiungevano armoniosamente scrittura in versi (spesso bilingue) e coloratissimi disegni, a testimonianza di una pulsione quasi automatica dei bambini loro affidati verso la poesia, i giochi di parole, le filastrocche, le rime, i bla bla, i ron ron, le canzonette, con il corredo di una sorprendente (perché espressa con naturale nonchalance) delicatezza, eufonia, disponibilità a giocare con le sillabe e con le lettere.

I loro insegnanti presenti e futuri (cioè gli allievi miei e di Ezio Raimondi), invece, erano completamente sordi e digiuni di poesia contemporanea, perché – a un certo punto – quando gli studenti arrivano alla scuola media inferiore o superiore, la poesia diventa di colpo una materia noiosa e “minore”, con il corollario di un’interrogazione somigliante a un calvario. Infatti, nessun estensore di programmi scolastici (non oso dire “riformatore”, in quanto dopo Giovanni Gentile, sulla soglia del Fascismo dominante, non c’è stato nessun autentico riformatore della scuola italiana) ha superato lo scoglio di una cognizione per cui poesia equivale a lingua arcaica (ancora oggi speme è più “poetico” di speranza, secondo molti), a sintassi ampollosa e distorta, a un parlato allusivo e oscuro.

Un legislatore serio dovrebbe in primo luogo chiedersi: la poesia e la letteratura in genere sono necessarie alla formazione di uno studente “medio”? Se sì, a parte Dante, Petrarca, Tasso e Leopardi (per antonomasia imperdibili), perché non far leggere e studiare – nelle nostre scuole di ogni ordine e grado – la tradizione del nuovo, quella che prende le mosse da Pascoli e d’Annunzio e arriva fino all’oggi dei poeti viventi adesso, nel nostro ora e qui? L’ignoranza della poesia contemporanea non è mai colpa degli studenti, ma di chi decide le sorti del loro processo di acculturazione e di formazione.

Ho sempre lottato per insegnare poesia e ritengo che sia assolutamente possibile, necessario, obbligatorio. A patto però che si lavori su una poesia confrontabile con il linguaggio scorciato di oggi; con le quotidianità polverizzate e immediatamente autobiografiche che corrispondono all’autentico tessuto culturale della società contemporanea; con le visioni del mondo che nutrono la nostra humus di cittadini europei immersi nell’attuale contingenza storica; e – last but not least – con la necessità di ripristinare nella scuola un’idea attiva e vitale di storia e di geografia, al di là di ogni inutile nostalgia storicistica o di ogni nozionismo spicciolo.

Per mio abito mentale derivatomi appunto dal magistero straordinario di Ezio Raimondi, io non incolpo mai gli studenti o le generazioni che vengono dopo rispetto a quelle che sono venute prima. Nemmeno i miei studenti bolognesi del primo triennio (una sorta di propaggine liceale) di Lettere sanno qualcosa di poesia contemporanea, quando arrivano all’inizio dei corsi. Però sono ragazzi e ragazze di notevole intelligenza, acutezza, impegno anche nel lavoro sulla poesia (io sono molto più darwiniano che creazionista, va da sé): e noi che insegnanti saremmo se non partissimo dal presupposto che siamo al nostro posto per insegnare ciò che i nostri interlocutori non sanno? Certo, il livello di conoscenze acquisite oggi è bassissimo, soprattutto – nel campo umanistico – gli antichi bastioni delle conoscenze minime di Letteratura, Storia e Geografia sono completamente crollati. Ma la poesia non è solo una questione di basi storico-letterarie da cui partire, piuttosto è prima di tutto un fatto di passione e di metodo. Il bambino fino a 10/11 anni fa poesia quasi naturalmente, si diverte con il linguaggio, lo manipola, gioca con le rime… poi a 12 anni quando deve studiare a memoria un pezzo di poesia composto magari ancora nell’Ottocento, giustamente – provoco in chiave paradossale – dice “oddio, aiuto, no!”.

Prima di tutto, sussiste un problema di “quale linguaggio per la poesia?”. Io ho sempre difeso il presupposto per cui la poesia debba essere trasmessa e agìta prima di tutto attraverso la lingua, gli scenari, i valori e i modi della contemporaneità. Una delle cose che mi colpiscono e che mi hanno colpito è che gli insegnanti, negli ultimi anni di scuola secondaria superiore, arrivano al massimo a leggere qualcosa del primo Ungaretti e del primo Montale, “M’illumino d’immenso” e “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Peccato che Ungaretti e Montale abbiano avuto due carriere, due storie, soprattutto Montale, molto lunghe, che sono arrivate fino agli anni Settanta del Novecento, con profonde rivoluzioni – prima di tutto linguistiche – nel loro modo di scrivere.

Dopo di loro, poi, si sono succedute alcune generazioni, quella dei nati negli anni ’10 di Sereni Bertolucci Luzi e Caproni; quella dei nati negli anni ’20 di Zanzotto Giudici Pasolini, e poi via via senza soluzione di continuità, fino ai trentenni di oggi, rappresentati da ottimi poeti e poetesse, che hanno parlato una lingua poetica legata allo spirito del loro e del nostro tempo: ebbene, è mai possibile che tutte queste voci (spesso di qualità altissima) siano rimosse in blocco dall’insegnamento scolastico ed entrino solo molto lateralmente – quando va bene – nelle antologie destinate agli studenti? Con la conseguenza che, se capita poi alla maturità una poesia di Saba, gli insegnanti entrano nel dramma del “non averlo mai neanche nominato”, a favore magari di qualche insopportabile autore neoclassico?

Si continua tanto a parlare di riforma della “buona scuola”, ma l’impressione è che non ci si stia scostando nemmeno oggi dal diktat esposto da Berlusconi all’inizio della sua esperienza di premier, Informatica Inglese Impresa, senza poi considerare che ogni riforma richiede investimenti ingenti (e non ingenti tagli o razionalizzazioni o farneticazioni sul Preside Manager) nel capitale umano della scuola, nel suo reclutamento e nella sua formazione. Inoltre, la prima tappa di ogni vera riforma risponderà ai quesiti: che ruolo assegnare alla Tradizione culturale di un Paese e della sua lingua? Che valore va riconosciuto, sul piano sociale, alle culture cosiddette umanistiche, alla loro temporalità, al loro destino, alla complessità delle loro espressioni contemporanee? Se le risposte a simili quesiti saranno positive, come – a parer mio – devono essere, allora una didattica seria e davvero attuale della Poesia, del Romanzo, della Musica, delle Arti figurative, del Cinema e delle attività performative dovrà essere reinventata, perseguita, organizzata su basi radicalmente nuove e disseminata nei diversi ordinamenti di studio, dalle Scuole Materne fino all’Università.

Riguardo alla poesia contemporanea, cioè alla poesia che si fa, che si scrive oggi, ho parafrasato il titolo del tuo libro precedente, “La poesia come si legge e come si scrive” (2006). In che senso? Ovviamente i grandi classici della storia della nostra letteratura voi studenti più giovani li incontrate o siete costretti a incontrarli a scuola e per fortuna spesso si tratta di autori grandissimi, anche se poi questa grandezza non è possibile percepirla appieno mentre li si studia. Infatti in sede scolastica si è costretti dentro certi vincoli e poi accade questa strana cosa che spesso col programma si parte dai più lontani, cioè da quelli appartenenti a orizzonti culturali che sono appunto i più lontani dal presente e che perciò hanno bisogno di mediazioni sempre molto articolate. Anche se poi è vero che il testo arriva con una sua capacità diretta, a proposito della poesia contemporanea ci vuole un po’ di iniziativa, di curiosità. La poesia offre tutto, ovviamente parlando di grandi poeti, intensificato: soprattutto l’esperienza della lingua nella poesia è intensificata al massimo grado. La poesia è strana, per certi versi anacronistica nel mondo attuale in cui c’è un’accelerazione della comunicazione incredibile rispetto alle generazioni e ai tempi che hanno preceduto gli ultimi anni. Però è anche vero che forse la poesia è ancora la più veloce di tutti gli altri strumenti umani che passano attraverso il linguaggio, funziona con la metafora che accosta concetti, idee e possibilità altrimenti inaccostabili. Un’altra cosa volevo dire e concludo. I poeti sono nostri contemporanei: fra loro, per esempio c’è Seamus Heaney, che quando ricevette il Premio Nobel intitolò il suo discorso di accettazione all’Accademia di Svezia “Sia dato credito alla poesia”. Ecco quella parola lì, “credito”, è fondamentale: e lui affermava che della poesia ne possiamo chiacchierare finché vogliamo, però se una persona nella propria esistenza non le dà credito, la poesia non l’incontrerà mai. Ma qual è la specificità della poesia? Se lo chiedeva prima Alberto: perché sono milioni le persone che scrivono poesia in Italia? Ecco, la vera poesia probabilmente ha qualcosa che nega la mortificazione della lingua e che ne esalta invece le potenzialità. Io credo che in una poesia che davvero funzioni, il circuito tra la realtà, quale essa sia, interiore o esteriore (ogni poeta vede il mondo a suo modo, vede le cose, non importa di cosa parli o come veda), e la lingua si rimette in moto, si apre. La lingua non è qualcosa che si sovrappone, come qualcosa di già dato, già scritto, prescritto, rispetto alla realtà e la realtà non è definita una volta per sempre. La realtà non è già pregiudicata, non è già scritta: e guardate che questa proprietà della poesia è un piccolo prodigio.

Soltanto qualche piccola aggiunta alle parole, che condivido pienamente, di Roberto Galaverni. Un’aggiunta rivolta più agli insegnanti questa volta che agli studenti, perché il mio pensiero di pedagogia poetica è anche in qualche modo polemico con gli insegnanti che hanno spesso paura di affrontare la poesia del ‘900, tanto che quando vado in qualche scuola e parlo con qualche collega, spesso mi sento rispondere “Eh sì, ma la poesia del ‘900 è oscura rispetto ad altre poesie precedenti”. Il che, in non pochi casi, può essere anche vero, però il ’900 è il secolo più tragico e oscuro dell’era cristiana; e poi i poeti veri i nodi di oscurità sanno sempre illuminarli, non sono mai oscuri in modo gratuito, e questo è anche il presupposto più sicuro per distinguere un poeta autentico, un poeta forte da un orecchiante, da un imitatore, da un poeta minore. Il secondo elemento è che il ‘900 è un secolo aperto da quella straordinaria scoperta umana che è la psicanalisi, da parte di Sigmund Freud: da cui derivano la cognizione dell’inconscio (nostro e altrui, individuale e sociale), la consistenza linguistica dell’inconscio in rapporto alla vita quotidiana e quindi il fatto che noi viviamo un terzo della nostra vita sognando, da irresponsabili dei nostri atti, dei nostri gesti, del nostro armamentario simbolico, perché nel sogno compiamo atti, pronunciamo parole, ci poniamo in situazioni – poste oltre il limite dei tabù – di cui ci vergogneremmo profondamente se dovessimo metabolizzarle o somatizzarle come eventi reali della nostra vita conscia. Non poche volte commetteremmo anche veri e propri reati se materializzassimo da svegli, nella vita sociale, il nostro inconscio. La poesia naturalmente ha dovuto farsi carico di questo elemento, la poesia è anche il luogo dove ha sviluppo linguistico, creativo, narrativo, evocativo, il sogno; e dove il nostro inconscio tesse le sue trame di verità solo desiderata o rimossa, mai davvero esperita.

L’elemento su cui voglio insistere è che la lettura non è un’optional, ma è un atto consustanziale alla vita stessa della poesia. Se non viene letta (e non superficialmente, per scambio di reciprocità elogiativa), la poesia non esiste. Lo aveva capito perfettamente anche uno dei maggiori poeti inglesi del ‘900, Philip Larkin, quando – nel 1957 – parlò dello scrivere una poesia. E disse: “Il processo prevede tre passaggi: il primo, quando si è così profondamente presi da un’idea emozionale da dover fare qualcosa al riguardo. Ciò avviene nel secondo stadio, quando cioè si elabora uno strumento verbale che riprodurrà tale situazione emotiva in chiunque si prenda la briga di leggerlo, ovunque e in qualsiasi momento. Il terzo stadio consiste nella situazione ricorrente di coloro che, in tempi e luoghi diversi, azionano lo strumento verbale e ri-creano in se stessi ciò che il poeta ha provato quando lo ha scritto.”

Ed è proprio così: si diventa bravi lettori quando si trasforma in esperienza concreta di vita quello che si è letto, quello che si è percepito. Da questo punto di vista, fa fede l’assoluta libertà di temi della poesia: quando la poesia vuole a priori e a tutti i costi “dire” qualcosa di nobile o di eticamente/sessualmente/politicamente corretto entra in una palude dalla quale è molto difficile riemergere. Pochissimi poeti hanno saputo scrivere poesie belle dopo l’11 settembre 2001 o – si può aggiungere oggi – dopo la strage di Charlie Hebdo.

Concludo con la raccomandazione che è importante andare ai festival, sentire i poeti e le poetesse dalla loro voce in carne ed ossa. Però sappiate che la ricezione della poesia è sempre il dialogo silenzioso e spesso solitario con le parole scritte. La poesia è anche una specie di corpo a corpo, è bello ricevere il primo stimolo attraverso l’oralità, la performance, la musica, la spettacolarizzazione, perché oggi la poesia fa parte di un mondo spettacolarizzato, però alla fine la ricezione vera coincide con l’impararla a memoria perché l’imparare a memoria le poesie è un esercizio preziosissimo, per la memoria, per l’allenamento, e per crearsi una archivio di parole dette bene, musicali, imprimendosele a fondo nell’orecchio e nella mente. La poesia diventa così una specie di arsenale che abbiamo sempre a nostra disposizione, quindi nutritelo finché avete una memoria ancora attiva e mi rivolgo ovviamente agli studenti. Però la vera ricezione è quella nel silenzio e nella solitudine. La parola silenziosa, muta, sul foglio, con tutti gli strumenti verbali e inventivi della poesia che aspettano il nostro orecchio interiore, la nostra libera immaginazione e la nostra voce più intima per essere innescati nella loro musicalità, energia, carica metaforica, fantasia, novità, infine originalità. Quasi è un esercizio di cannibalismo (il più inviolabile e forse anche oggi inviolato dei nostri tabù), è come se quella parola noi la mangiassimo, la digerissimo e la facessimo nostra, sovrapponendole il nostro ritmo e il timbro del nostro “parlar materno”, la nostra competenza, la nostra percezione, la nostra capacità, ma soprattutto la nostra umanità. A quel punto state sicuri che ci ritroveremo con un bel po’ di esperienza maggiorata in più e non avremo bisogno di drogarci in prima persona o di sentirci carnefici. Se uno legge un romanzo di Céline, che da un punto di vista saggistico ha scritto alcune delle cose più atroci che mente umana possa concepire contro gli ebrei, imparerà anche il punto di vista del carnefice. E l’essere umani passa anche dal sapersi qualche volta carnefici e qualche volta traditori e qualche volta inerti per poi recuperare la propria originalità e la propria vitalità. Vi assicuro che alla fine la poesia ci permette una trasformazione di questo tipo e questo suo dono è straordinario, al fine di arricchire il nostro patrimonio di emozione e conoscenza.

Immagine: Jorinde Voigt, Synchronicity I-XIV, 2015.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).