Le pause della serie evolutiva

da | Apr 25, 2016

Sei poesie da Le pause della serie evolutiva di Vincenzo Frungillo, da poco uscito per per Oèdipus nella nuova collana Croma k a cura di Ivan Schiavone.

da Meccanica pesante

Ma tentare, bisogna tentare,
perché il vuoto valga per ciò che vale,
resti una variante, sia lo sguardo pulsante,
ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,
ci porti a trasformare il tempo in spazio,
in camere e strofe, ci ricordi le parole,
la nostra scommessa finale. Una volta Celan
chiese al maestro l’ultima parola.

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza.
Ripeto la formula, una semplice equazione:
……………………non si afferra ciò che ci precede.
E allora si pone sulla bilancia la propria vita,
e la propria morte, chi tenga in equilibrio il tutto
non si conosce. La chiamo meccanica pesante
questo stare fermi a guardare il sistema di leve
in cui siamo entrati senza far rumore.

***

da Terre straniere

3.

Adesso c’è qualcosa che dura,
ora che la storia ritrova la sua natura,
che ogni scelta la vista rinserra
sotto un diverso strato di terra,

che per una strana carestia
una vita non salva un’altra vita.
Così chi aveva promesso
che non avrebbe più tinto i capelli,

se il suo amore non avesse sofferto,
adesso imbianca, esposta
sulla superficie della terra,

come se fosse sgranata
dagli occhi affamati
di chi non resta.

*

5.

Due pareti chiudono lo stesso letto,
il rumore esterno copre quello interno.
Ci sono voci che disturbano il sonno,
le sento poggiarsi sul tuo volto,

posso vederle nel cavo dell’orecchio,
cercare lo spazio che meritano.
Potessero trovarlo nella mano che ti tendo,
potessero legarmi come passiflora

al filo d’ombra che carezzo,
potessero trattenermi alla parte che ho scelto.
Eppure so, eppure dimentico,

che sono io stesso a fare questo,
che proietto sul tuo volto
le radici antiche dei senza sonno.

*

7.

Oggi mi sveglio più tardi del solito
e mi chiedo se tutto questo sia vero,
se esista ancora lo stato presente,
se ci sia posto per il suo regno,

per le voci dei muratori
che alzano ponteggi al cielo,
se ogni loro gesto non sia un modo
per zittire i cani che ho sognato,

e mi chiedo se gli animali
se è vero che i cani
non abbiano memoria,

se è vero che non soffrano,
non provino dolore,
come chi non ricorda i propri sogni.

*

10.

Ora vivo dove riposano gli elefanti.
Lì, dietro le ciminiere, tra le balle di ferro,
puoi trovare il loro cimitero;
hanno la gabbia toracica ancora gonfia nel fiato.

Ci sono carrelli che salgono piano,
portano carbon fossile al cielo,
dal loro odore si sente quant’è nero.
Un operaio mi viene incontro, mi stringe la mano,

dice che è caduto lavorando-
i fantasmi hanno le dita molli del dubbio
come di chi saluta senza volerlo-

lui di questo posto è il guardiano,
controlla che nessuno tocchi l’avorio,
dice che adesso solo io posso vederlo.

*

12.

Ora che le mattine sono imbiancate,
lasciano il morso della notte,
ora che potremmo dilatare l’ombra,
torniamo al patto di sempre.

Era Rilke che diceva:
“Non m’interessa per niente avere ragione”.
Queste perle la realtà non le raccoglie,
restano illibate come sassi sulle tombe.

“Bruciate ciò che resta”,
qualcuno rispondeva,
“bruciate anche la muraglia cinese”.

Perché un giorno non ci sarà confine
tra chi assedia e chi si difende.
La preistoria ci comprende.

Immagine: Richard Deacon, Flat Hearth.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).