L’artificio dell’ingenuità: la coscienza poetica di Saba

da | Lug 10, 2018

Da poco uscita l’edizione Poesie scelte di Umberto Saba negli “Oscar” Mondadori, a cura di Niccolò Scaffai. Pubblichiamo una selezione di poesie e il primo paragrafo dell’Introduzione.

Da «Poesie dell’adolescenza e giovanili» (1900-1907)

Ammonizione

Che fai nel ciel sereno
bel nuvolo rosato,
acceso e vagheggiato
dall’aurora del dì?

Cangi tue forme e perdi
quel fuoco veleggiando;
ti spezzi e, dileguando,
ammonisci così:

Tu pure, o baldo giovane,
cui suonan liete l’ore,
cui dolci sogni e amore
nascondono l’avel,

scolorerai, chiudendo
le azzurre luci, un giorno;
mai più vedrai d’intorno
gli amici e il patrio ciel.

*

Da «Casa e campagna» (1909-1910)

La capra

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Città vecchia

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

Il poeta

Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!

L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse; ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!

*

Da «Cose leggere e vaganti» (1920)

Ritratto della mia bambina

La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: «Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te».
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
come alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.

*

Da «Autobiografia» (1924)

3

Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre.»
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.

*

Da «Il piccolo Berto» (1929-1931)

A Edoardo Weiss

Tre poesie alla mia balia

1

Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.

Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!

Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

*

Da «Parole» (1933-1934)

Cinque poesie per il gioco del calcio

2. TRE MOMENTI

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi
che all’altra parte vi volgete, a quella
che più nera s’accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun’offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.

*

Da «1944»

Teatro degli Artigianelli

Falce e martello e la stella d’Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!

Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell’idea
che gli animi affratella; chiude: «E adesso
faccio come i tedeschi. Mi ritiro».
Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l’amico
dell’uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

*

Da «Epigrafe» (1947-1948)

Vecchio e giovane

Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo
– gatto in vista selvatico – temeva
castighi a occulti pensieri. Ora due
cose nel cuore lasciano un’impronta
dolce: la donna che regola il passo
leggero al tuo la prima volta, e il bimbo
che, al fine tu lo salvi, fiducioso
mette la sua manina nella tua.

Giovinetto tiranno, occhi di cielo,
aperti sopra un abisso, pregava
lunga all’amico suo la ninna nanna.
La ninna nanna era una storia, quale
una rara commossa esperienza
filtrava alla sua ingorda adolescenza:
altro bene, altro male. «Adesso basta –
diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo».
E si voltava contro il muro. «T’amo –
dopo un silenzio aggiungeva – tu buono
sempre con me, col tuo bambino». E subito
sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio,
con gli occhi aperti, non dormiva più.
Oblioso, insensibile, parvenza
d’angelo ancora. Nella tua impazienza,
cuore, non accusarlo. Pensa: È solo;
ha un compito difficile; ha la vita
non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta,
se puoi, tua morte. O non pensarci più.

***

L’artificio dell’ingenuità: la coscienza poetica di Saba
di Niccolò Scaffai

Nella poesia di Saba sono spesso compresenti due piani, due situazioni temporali e insieme conoscitive: il presente realistico e il passato immaginato o reinventato in chiave letteraria, mitica o psicologica. È una situazione rappresentata per esempio nel Torrente, uno dei componimenti in cui Saba trova il migliore equilibrio tra la naturalezza dell’immagine e l’espressione della sua poetica. […] La trasfigurazione romantica della natura e il motivo leopardiano della ‘doppia vista’ assumono qui una sfumatura psicologica specificamente sabiana. L’io infatti non si limita, romanticamente, a guardare il paesaggio con gli occhi dell’anima o della memoria, né affronta il dissidio tra realtà e illusione. Il soggetto anzi, consapevole dell’autoinganno (il suo ‘mito’), lo coltiva assumendolo come realtà alternativa che persiste in una sorta di presente assoluto. Che quest’appagamento possa somigliare a una forma di compensazione (non genericamente psicologica, stavolta, ma più propriamente psicoanalitica) lo fa sospettare la memoria di un ammonimento, quello della «madre austera» che ha un ruolo essenziale non solo nella vita ma anche nell’opera di Saba.

Questi aspetti avvicinano la poesia sabiana alla letteratura modernista (da cui pure, per altri elementi, si allontana: di ‘modernismo’ sabiano si potrà parlare solo nella fase del classicismo sperimentale degli anni Venti) caratterizzata proprio dalla costruzione di una temporalità soggettiva: oltre ai grandi romanzi di Joyce e Woolf, si pensi all’esempio di un altro geniale scrittore triestino quale Italo Svevo. I tratti che accomunano Saba alla letteratura europea del Novecento valgono anche per distinguere chiaramente la poesia del Canzoniere dalla tradizione antica e moderna, cui pure Saba continuamente allude: da Petrarca a Leopardi, dalle forme classiche a quelle della melica settecentesca, i modelli a cui il Canzoniere sabiano attinge e aderisce sono numerosi, e per lo più espliciti e canonici. Ma quest’adesione, che ha spesso un’evidenza allusiva, non è la conseguenza di un ripiegamento verso il passato, né dipende da un sentimento di sfiducia nella poesia come risorsa per l’interpretazione della realtà, storica o emotiva. Per Saba, l’esibizione del convenzionale non è uno strumento ironico e straniante, come per i crepuscolari suoi contemporanei; il primo a cogliere le differenze tra Saba e i crepuscolari, cui all’inizio veniva assimilato, è stato Giacomo Debenedetti nel saggio, rimasto famoso, su La poesia di Saba (1923)[1]. In questo senso, è esemplare il confronto tra le «buone cose di pessimo gusto», evocate con malinconica ironia da Gozzano nei versi celeberrimi dell’Amica di nonna Speranza, e le ottocentesche «pinte tazzine» della Vetrina (nella sezione «Cuor morituro»), che Saba promuove, senza alcuna ironia, a emblema di un passato presente nell’immaginazione, facendone quasi l’oggetto mediatore di quella fantasticheria antiquaria che attraversa gran parte della sua opera.

[…]

Saba dunque assume i codici della tradizione, formali e tematici, in maniera cosciente ma non per demolirli o corroderli, né per superarli alla ricerca del nuovo a tutti i costi (in questo, appunto, la sua poesia non è modernista: pur non rinunciando a elaborazioni sperimentali – come in Preludi e fughe, ad esempio – la poetica di Saba non è facilmente conciliabile con la logica culturale del modernismo e con la sua continua tensione al superamento e alla trasgressione dei modelli). Come ha osservato Giovanni Giudici, nel saggio che introduceva la prima edizione di queste Poesie scelte (1976) e ora qui riproposto, Saba «fa propri non solo i modi convenzionali dello scrivere versi, ma anche le occasioni e gli argomenti più fondamentalmente convenzionali che ci riportano ai grandi temi di nascita, amore e morte»; quei temi e le «occasioni logore» che vi corrispondono, prosegue Giudici, funzionano però come «vettori di minima resistenza, lasciano passare la corrente elettrica della poesia con un’intensità (un amperaggio) struggente e divorante». La metafora elettrica usata da Giudici (autore che, come Saba, ha fatto reagire poesia e biografia componendo una «vita in versi»[2]) illustra bene come al piano della convenzionalità, da cui Saba parte per rappresentare sentimenti, oggetti e situazioni, si affianchi il piano dell’invenzione. L’uno ha bisogno e acquista senso alla luce dell’altro. I due piani, cioè, non confliggono né si escludono; per esprimersi, la poesia di Saba deve poggiare e svolgersi su entrambi, assumendo spesso per questo un andamento descrittivo, dichiarativo e, conseguentemente, metapoetico (nonché, a volte, autocelebrativo come in Forse un giorno diranno, nella sezione «Cose leggere e vaganti»: «Forse un giorno diranno: “Ma chi era / questa Paolina, che le scrisse Saba / versi d’amore?”»). È diventata quasi proverbiale la frase con cui Saba apriva il saggio Quello che resta da fare ai poeti (1911): «Ai poeti resta da fare la poesia onesta». Ma se la poesia onesta è l’emblema più celebre della poetica sabiana, non meno importante dovrebbe essere il concetto di poesia cosciente: una poesia, cioè, che ostenti il proprio statuto con piena intenzione e saldo possesso delle risorse tecniche e tematiche che le competono. Anche in questo la poetica di Saba appare molto diversa da quella in tono minore dei crepuscolari, senza però ripetere i trionfalismi carducciani o dannunziani.

Ma la peculiarità della posizione di Saba non si apprezza solo rispetto agli autori precedenti; anche nei confronti di Montale la distanza è netta. La poesia di Saba segue infatti altre strade, e apre altre linee ‘antinovecentiste,’ rispetto alla poesia ‘epifanica’ dominante nel modernismo e nella tradizione del novecento italiano di cui Montale è il maggiore esponente. Come figura o procedimento tipico della poesia lirica, l’epifania consiste nella manifestazione di un evento che si realizza in un istante, facendo emergere o lasciando intravedere significati e valori che balenano nella coscienza dell’io. La poesia romantica e quella modernista hanno espresso in vario modo questa forma di percezione istantanea e privilegiata: gli spots of time di Wordsworth, il moment di Shelley, che diventa infinit moment e great moment rispettivamente in Browning e Yeats, fino al timeless moment di Eliot, all’Image di Pound, al moment of awakening di Wallace Stevens e alla revelation di Heaney (e, nel romanzo, si pensi ai moments of being di Virginia Woolf)[3]. Nella poesia italiana del Novecento, l’attuazione esemplare del procedimento è l’occasione montaliana. Anticipato dalle manifestazioni euforiche di elementi naturali già presenti negli Ossi di seppia (i limoni dell’omonima poesia, o i girasoli), il procedimento epifanico precisa il suo valore nella seconda raccolta di Montale, che attraverso il suo titolo – appunto Le occasioni (1939) – sancisce l’emblema di quella poetica. Nelle Occasioni, la manifestazione di un elemento per lo più naturale si carica di un valore psichico e lascia intravedere una prospettiva conoscitiva. La forma del contenuto, attraverso cui l’occasione si esprime nel testo, coincide spesso con una figura sintattica (come l’enumerazione) e una figura grafico-metrica (la disposizione a gradino, che spezza il verso segnalando lo scatto conoscitivo). È dunque una configurazione orientata verso quel momento testuale e, in un certo senso, ha uno sviluppo verticale e teleologico, perché gli oggetti che si accumulano tendono tutti verso un fine significativo. L’epifania si attua perciò spezzando la continuità insignificante della vita comune, per dare valore all’attimo privilegiato in cui si addensa l’esperienza dell’io, capace di una percezione assoluta o condivisibile solo da un ‘tu’ altrettanto ideale ed elevato.

Al contrario, la poesia di Saba cerca quella continuità e la rende significativa, dando più valore alla convenzione (non solo sul piano tematico, come osservato da Giudici, ma anche su quello metrico e in generale al livello dei codici della poesia) che all’eccezione. Per questo, Saba non è poeta di correlativi ma di similitudini. Le situazioni e gli oggetti della sua poesia cioè, diversamente da quanto accade in Eliot (a cui si riconduce la formula del «correlativo oggettivo») o in Montale, non esprimono o richiamano condizioni esistenziali attraverso analogie da decifrare o interpretare; in Saba il confronto è per lo più diretto, esplicito, sviluppato linearmente tra il piano del comparante e quello del comparato. Non è un caso allora che, per quanto riguarda, la forma del contenuto, in Saba prevalgano le enumerazioni che non si orientano verso un momento significativo, che non tendono a mettere in valore lo scarto ma piuttosto a ribadire la continuità immobile di un reale che l’io contempla mantenendo una posizione sempre esterna, sempre raccolta – come scrive in Trieste – «in un cantuccio in cui solo siede». A questo in fondo servono la città di Trieste e gli altri luoghi o scenari della poesia di Saba, a offrire cioè un punto di osservazione, una prospettiva.

[…]

Sennonché, tale linearità è spesso un effetto del classicismo retorico di Saba, a cui non corrisponde sempre e necessariamente una prevedibilità nella scelta di motivi e immagini. Si pensi alla celebre poesia A mia moglie (nella sezione «Casa e campagna»), in cui la donna è paragonata, in una lunga sequenza che ha i tratti quasi liturgici di un moderno e sentimentale ‘cantico delle creature’, a «tutte le femmine di tutti i sereni animali».

[…]

A un livello puramente retorico, la similitudine ha uno sviluppo piano e convenzionale («Tu sei come…»), senza le folgoranti ellissi dei correlativi eliotiani e montaliani; tuttavia, al livello dei significati, l’accostamento tra la moglie e una «pollastra», una «giovenca», una «cagna» o una «coniglia» hanno poco di convenzionale o ragionevolmente spiegabile. Si tratta, cioè, di accostamenti soggettivi e idiosincratici; la semplicità creaturale dei soggetti – gli animali comuni, evocati nel testo – non deve perciò far pensare che Saba sia un poeta dall’ingenuo e spontaneo realismo; il suo è semmai un artificio dell’ingenuità, che consiste spesso nel rendere palesi i procedimenti, nel dare un’impressione di domesticità scoprendo subito le carte del gioco mitopoietico.

[…]

Ma non si creda però che quest’affermazione riduca il ruolo del soggetto a quello di un semplice e quasi passivo ricettore di sensazioni. Come si diceva all’inizio, la rappresentazione della realtà, con i suoi elementi quotidiani e realistici, è sempre affiancata da un’attiva trasposizione di quegli elementi su un piano tutto soggettivo. Così, ad esempio, le figure di anonimi ‘altri’ che abitano la città, per lo sguardo del poeta non sono individui realisticamente rappresentati ma tipi funzionali all’espressione dell’io e del suo sentimento. Si pensi ai versi di Città vecchia (in «Trieste e una donna»):

[…]

Per comprendere meglio la portata della questione, nel contesto della poetica di Saba e della costruzione della sua opera, torniamo ai versi di A mia moglie. Saba ha commentato quella poesia (come gran parte del Canzoniere, del resto) nello straordinario saggio di autointerpretazione in terza persona, apologetico e mistificatorio, a cui ha dato il titolo di Storia e cronistoria del Canzoniere (1948):

Un pomeriggio d’estate […] mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo, sedetti, ad attenderne il ritorno, sui gradini della scala che conduceva al solaio. Non avevo voglia di leggere; a tutto pensavo fuori che a scrivere una poesia. Ma una cagna, la «lunga cagna» della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tanta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fatta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, poco ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi. S’intende che, appena ritornata la Lina, stanca della lunga salita (si abitava a Montebello, una collina sopra Trieste) e carica di pacchi e pacchetti, io pretesi subito che, senza nemmeno riposarsi, ascoltasse la poesia che avevo composta durante la sua assenza. Mi aspettavo un ringraziamento ed un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né una cosa né l’altra. Era invece rimasta male, molto male; mancò poco litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era «la mia più bella poesia», e che «la dovevo a lei»[4].

Per quanto stretta possa essere l’aderenza del racconto al dato reale, è certo che il brano (come spesso avviene in Storia e cronistoria) assume anche il valore di un apologo sulla poesia. Lina e il poeta vi appaiono quali figure esemplari per la radicale diversità con cui percepiscono il mondo e l’arte; la possibilità di conciliazione è precaria, frutto di un compromesso che lascia entrambi convinti della reciproca diversità.[5] Il poeta non spiega la sua opera ma si affretta soltanto a rimediare ai danni superficiali dell’incomprensione, persuadendo la donna «che nessuna offesa ne veniva alla sua persona». In assenza della moglie (che rappresenta il versante del «vero»: ne è un indizio la rappresentazione realistica di Lina che rientra goffamente oberata di «pacchi e pacchetti»), il poeta può dare libero sfogo alla lettura analogica della realtà; non appena ritorna in contatto con Lina, questa lettura non solo deve essere interrotta ma anche giustificata e difesa da un’aperta condanna. Il poeta e la donna, anziché ridursi a personaggi di un «romanzetto», si contrappongono come rappresentanti di due diversi «stili» o «incarnazioni» di forze contrapposte[6] : la figura di Lina (lo si vede bene soprattutto nella sezione «Trieste e una donna») è portatrice di una visione oggettiva e concreta del mondo, che fronteggia quella del poeta, detentore di uno sguardo analogico, immaginario e creativo (oltre che, evidentemente, misogino e prossimo in questo alle teorie sostenute dal filosofo austriaco Otto Weininger in un suo testo molto influente nella cultura del primo Novecento e noto a Saba: Sesso e carattere, pubblicato nel 1903 e tradotto in italiano nel 1912). L’interpretazione soggettiva della realtà elaborata da Saba-personaggio non è fine a sé stessa, ma è lo strumento che consente a Saba-autore di attuare un’operazione distintiva: addensare, senza confondere, nello stesso insieme testuale un piano autobiografico-narrativo (sul quale si colloca la storia d’amore con Lina) e uno semantico (orientato verso la dimensione poetico-artistica).

Così, anche lo svolgimento del Canzoniere, in cui la giustapposizione di testi e sezioni crea una sequenza cronologica che sembra spontaneamente ricalcare la vicenda biografica dell’autore, rivela – come si dirà nel paragrafo seguente – le tracce di una costruzione studiata.

 


[1] Giacomo Debenedetti, La poesia di Saba (1923) e Per Saba ancora (1925), in Id., Saggi, a cura di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999, pp. 193-261.

[2] Giovanni Giudici, La vita in versi (1965), ora in Id., I versi della vita, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2000, pp. 3-125.

[3] Cfr. A. Nichols, The Poetics of Epiphany. Nineteenth-Century Origins of the Modern Literary Movement, Tuscaloosa-London, University of Alabama Press, 1987; Moments of Moment. Aspects of the Literary Epiphany, a cura di W. Tigges Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1999.

 

[4] U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, con l’introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, pp. 140-41.

[5] Riprendo qui i termini della questione che ho affrontato più estesamente nel capitolo La vita in versi. «Trieste e una donna» di Umberto Saba, in N. Scaffai, Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 171-99.

[6] Cfr. G. Castellani, Trieste nella poesia di Saba: da «Trieste e una donna» a «Coi miei occhi», in Umberto Saba Trieste e la cultura mitteleuropea (Atti del convegno, Roma 29 e 30 marzo 1984), a cura di R. Tordi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1986, pp. 49-62.

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).