La poesia di Elsa Morante

da | Ott 14, 2019

Si presenta di seguito il sesto capitolo di La poesia di Elsa Morante. Una presentazione, il cui autore, Marco Carmello, propone una prima presentazione complessiva dell’opera in versi di Elsa Morante. L’intento è quello di dare alla Morante scrittrice di versi la collocazione che le spetta nel panorama poetico italiano, dimostrando la radicale novità del suo poetare e, allo stesso tempo, l’importanza che questo ricopre entro l’opera complessiva dell’autrice. Due sono le direttive cui l’analisi si è ispirata: la prevalenza del ritmo rispetto alla metrica, argomento espressamente discusso nel capitolo qui presentato, e l’importanza della parola chiara, detta apertamente ed in maniera definita, attraverso la quale Morante ha cercato, in controtendenza col Novecento poetico italiano, di creare uno spazio poetico aperto e non ermetico.

Carattere di una poesia: Morante fra ritmo e contenuto

Parola e cosa: positività della poetica di Morante

Dopo aver discusso le due opere poetiche di Morante, Alibi ed Il mondo salvato dai ragazzini, e dopo aver analizzato la presenza ed il ruolo della poesia nelle opere in prosa, è venuto il momento di definire il carattere e la natura della poesia morantiana tentando di stabilirne il valore di per sé stessa.

Un buon punto di partenza per la discussione che ci accingiamo a fare è una considerazione linguistica avanzata da Pier Vincenzo Mengaldo nel saggio da lui dedicato alla lingua dei romanzi morantiani, in cui scrive:

Come il Mondo [scil. Salvato dai ragazzini] rigetta in modo vivacemente polemico sia la tradizione poetica postermetica che quella neoavanguardista, così La storia si pone in aperto, acerbo contrasto con la civiltà che possiamo dire con amplificazione della prosa d’arte, e ugualmente con quella ancora della neoavanguardia e anzi con tutta la tradizione espressionistico-preziosa che fa capo a Gadda. Entrambe le opere morantiane invece perseguono e attuano (la Storia più radicalmente) un ideale che brevemente definiremo di affabulazione democratica e di sottomissione umile della lingua alla cosa. (Mengaldo 2000 [1994])

La citazione di Mengaldo stabilisce due capisaldi: quello dell’“affabulazione democratica”, con cui non si può che essere d’accordo, e quello del rifiuto, operato proprio grazie alla poesia del Mondo, della tradizione neoavanguardista e post-ermetica, ma si potrebbe anche dire generalmente ermetica, su cui invece dobbiamo spendere alcune parole.

Nel caso del Mondo abbiamo parlato di parodia del moderno, ottenuta grazie all’uso sistematicamente distorto dei mezzi usati dalle avanguardie storiche e dalla post-avanguardia. Si tratta, come dicevamo, di un uso che intende sovvertire quelle poetiche. La nostra posizione è dunque strettamente affine a quella di Mengaldo.

Il Mondo implica l’assunzione di una poetica del reale che subordinando la cosa all’oggetto, come dice acutamente Mengaldo, compie il gesto esattamente opposto a quello delle poetiche del negativo, che mirano ad esprimere il senso di mancanza della cosa, come fa l’ermetismo, oppure puntano alla messa in campo dell’assurdità e dell’insensatezza del reale, come avviene nella post-avanguardia.

Il punto è però come realizzare questa poetica della sottomissione della parola alla cosa senza che essa dia origine ad una forma letteraria inadeguata. Bisogna infatti riconoscere che le poetiche del negativo, sono le uniche che si dimostrano veramente in grado di gestire il cambio di paradigma della modernità, approntando appunto gli strumenti basilari perché possa continuare ad esistere letteratura nonostante i cambiamenti sociopolitici e quelli intervenuti nella struttura economica siano tali da revocare in dubbio persino la definizione stessa del concetto di realtà.

Morante, come altri autori, rifiuta integralmente il portato teorico di quei mezzi, ma ha la lungimiranza di riconoscerne l’adeguatezza nella situazione attuale. Per Morante la letteratura è poesia del fatto presente, come tale è attiva nel mondo, dicendo la sua parola con voce chiara, definita, estranea ai giochi messi in atto dal negativo di fronte alla crisi del moderno. In questo senso il Mondo è veramente radicale nel respingere ogni poetica della negatività.

La portata della parodia

La continuità fra Il mondo salvato dai ragazzini e tutta la produzione successiva, tanto La storia quanto Aracoeli, è evidente. Se seguissimo la traccia indicata da Mengaldo potremmo avanzare alcune considerazioni linguistiche interessanti, che però rimandiamo ad altra sede, poiché qui siamo piuttosto interessati a definire un punto di discrimine e rottura fra verso e prosa, così da comprendere correttamente il valore specifico della poesia di Morante.

A differenza di quanto avviene nel Mondo, per i due romanzi Morante sceglie una testualità che si mantiene lontana da ogni uso esplicito, in chiaro di mezzi riconducibili al campo della sperimentalità avangiardista e post-avanguardista.

Sebbene un’attenta lettura degli ultimi due romanzi riveli che l’impianto classico della narrazione non è così solido come pare – penso soprattutto al vero e proprio lavoro di devastazione del cronotopo romanzesco fatto in Aracoeli, dove i piani temporali si confondono continuamente grazie alla funzione distopica della voce narrante – resta però il fatto che nella prosa Morante non azznulla di simile a ciò che fa col Mondo.

La differenza ha a che vedere più con la diversa funzione parodica della poesia che con l’inevitabile diversità tecnica che passa fra prosa e verso.

Che tutta l’opera di Morante sia da porsi sotto la luce ermeneutica del parodico e della parodia è indubbio; è Morante stessa a dfornire questa chiave di lettura per i suoi lavori – evidente il caso de L’isola di Arturo –, ma i mezzi della parodia cambiano in relazione alla posta in gioco.

Usando la teoria dell parodia di Tynjanov, già richiamata da D’Angeli (2003) a proposito della Serata a Colono, e richiamandoci in questa sede non all’opera del 1922 sulla parodia in Gogol e Dostoevski, ma a quella del 1924 sulla natura del verso poetico, in cui la parodia è definita come uso simultaneo di due differenti serie poetiche, possiamo ricavare una buona chiave di interpretazione per tutta la poesia morantiana.

Scive Tynjanov «entrent en interaction le mètre et la syntaxe d’une série (que est, de plus, déterminée) avec le lexique et le sématique d’une autre» [entrano in interazione il metro e la sintassi di una serie (che, per di più, è determinata) con il lessico e la semantica di un’altra] (Tynjanov 1977: usiamo la traduzione francese dell’originale russo).

La doppiezza della serie, evidente nel Mondo ma nascostamente presente anche in Alibi, caratterizza le possibilità espressive proprie del verso, che risulta costitutivamente formato da uno spazio divergente, in cui possono confliggere moventi ispirativi e mezzi espressivi addirittura opposti. È questa discrazia ad essere ricercata da Morante come unica possibilità per gettare lo scandaglio linguistico in regioni precluse alla convergenza monodirezionale della prosa.

L’opposizione fra convergenza monodirezionale della prosa e divergenza parodica della poesia ha però un esito paradossale. La duplicità poetica infatti si apre ad uno spazio non direttamente referenziale, che permette alla poesia di rimanere accanto al mondo, di essere un controcanto del mondo. Spette invece alla monodirezionalità della prosa, con la sua durezza compattamente referenziale, descrivere il malessere, l’inganno, l’assenza, in una parola l’irrealtà del modo.

Su quest’esito paradossale fa aggio la poesia di Morante potenziando l’assolutezza della parodia poetica che può veramente costruire un altro mondo semplicemente perché può scrivere dal di fuori, senza considerare il legame referenziale fra parola e realtà.

Si inizia così anche a chiarire il percorso che porta da Alibi al Mondo: nell’opera dell’sordio poetico si trattava ancora di scoprire e sondare la dimensione altra aperta dalla duplicità della parodia poetica, nel Mondo quella dimensione ormasi nota viene usata pragmaticamente per porre in essere ed affermare la dimensione reale del contro-canto poetico opposto all’irrealtà del mondo fattuale.

Parodia, parola, levità

Quando diciamo che siamo d’accordo con Mengaldo riguardo alla «sottomissione umile della parola alla cosa» (2000) non intendiamo riferirci all’interpretazione banale che si potrebbe dare di tale sottomissione.

In poesia, lievenmente diverso è il discorsao per la prosa, Morante realizza questa sottomissione non riconoscendo l’autonomia della dimensione linguistica. Per Morante sembra non esistere una lingua come luogo dei simulacri in cui emerge il negativo attraverso il compolesso gioco dei significanti e dei significati (Derrida 1967; Lacan 1975). La parola di Morante è compatta, inscindibile, è, sulla scia della lettura di Weil e della mistica ebraica, parola veratitativa.

Nel campo parodico del verso, dove a venir meno è il legame referenziale al mondo, sottomissione della parola alla cosa significa dunque sottomissione della parola alla verità, vissuta da Morante come cosa prima e reale.

Analizzando Alibi avevamo parlato di “parola chiara” definendo il poetare di Morante una sorta di trobar leu, che in occitanico medioevale indica il poetare aperto, chiaro, lieve (leu). La levità morantiana però non ha nulla a che spartire con la leggerezza calviniana. Lieve, nella rete semantica dell’opposizione weilliana fra grâce e pesanteur, è contrapposto a pesante, dunque il suo significato trasmigra verso quello di “reale”, di un reale definito dalla contrapposizione fra realtà ed irrealtà espressa nel Mondo.

Il doppio ordine parodico che Morante istituisce in tutta la sua opera in versi esprime pienamente questa levità.

Alibi, la parodia e la continuità con Il mondo salvato dai ragazzini

Possiamo così capire perché tanto il Mondo quanto Alibi, pur essendo fra loro così diversi, obbediscano alla stessa dinamica creativa.

Quel che Morante fa nel Mondo col materiale metrico-stilistico dello sperimentalismo neo-avnguardista, in Alibi viene fatto recuperando quel quel linguaggio lirico “tradizionale” che era stato esaurito all’esperienza poetica della prima metà del Novecento.

La situazione di Alibi è, dal punto di vista linguistico, più sfuggente rispetto a quella del Mondo.

L’opera più recente esige una polemica diretta, dettata dalla maggiore urgenza di un’implicazione etica della scrittrice rispetto alla dimensione storica, secondo quanto ci dice la conferenza del 1965 Pro e contro la bomba atomica. La polemica è facilitata anche dall’apertura delle forme neo-avanguardiste che si prestano spontaneamente al riuso, e quindi anche alla parodia.

Alibi, al contrario, si scontra con forme poetiche come quelle eremetiche che tendono a sfuggire al riuso, e quindi anche al riuso radicale della parodia.

Con Alibi quindi Morante deve compiere un’operazione di stilizzazione previa alla scrittura che è in tutto simile a quella di Menzogna e sortilegio. Nel caso dell’opera in prosa si trattava di stabilire una tassonomia strutturale del romanzo fiume ottocentesco per poi operare non direttamente  sull’architettura del feulleton ma sul suo modello ideale, depurato, che Murante usa come sinopia del suo disegno romanzesco.

La tassonomia di Alibi è, evidentemente, di tipo differente: si tratta di recuperare quel che la negatività ermetica aveva escluso dal canone poetico, per riattivarlo nella scrittura lirica.

L’operazione compiuta da Morante con di Alibi è profondamente diversa da operazionio di stampo letterariamente conservatore, come potrebbe essere la lirica di Cardarelli, autore che tuttavia paree essere tenuto presente in Alibi. Rispetto ad una resistenza di retroguardia di questo tipo, col conseguente rifiuto di tutto ciò che possa spezzare il canone, Morante assume come data la rottura ermetica ed il conseguente cambio del panorama poetico.

Il linguaggio poetico verso cui punta Alibi è dunque proprio quel linguaggio esausto che corrisponde, in maniera quasi scolastica, all’opposto della nota forma montaliana. Così facendo Morante sceglie per la sua opera un linguaggio apparentemente impossibile, escluso dalla linea conservativa espressamente destituito di valore da quella innovatrice, ed a partire da questo linguaggio scrive la poesia solo superficialmente semplice di Alibi.

Il lessico e la sintassi “tradizionali”, “lirici”, “medi” di Alibi sono parodizzati dalla semantica di un discorso poetico che più altro, estraneo non potrebbe essere. L’altrove morantiano infatti altro non è se non l’atto con cui Morante volta al positivo la formula montaliana e riprende la parola poetica per dire chi siamo e cosa vogliamo. In estrema sintesi possiamo dire che al negativo degli Ossi di seppia si oppone il positivo di Alibi.

La positività di Alibi è la premessa necessaria senza cui Il mondo salvato dai ragazzini, e quindi tutto la seconda fase della produzione morantiana, sarebbe impensabile.

Nelle due opere in verso è dunque all’opera lo stesso meccanismo della parodia, che piega lingue poetiche diverse, ma ugualmente lontane dal linguaggio morantiano, all’espressione di una volontà autoriale capace di aprire alla scrittura nuove vie.

Il ritmo

Alibi ed Il mondo salvato dai ragazzini scaturiscono da un’unica fonte, che permette di vedere come la diversità fra le due opere sia l’effetto proprio dell’unità di ispirazione che contraddistingue la poesia di Morante.

Verso quale direzione si muove però la poesia morantiana? Qual è la sua importanza? Cosa esprime?

Sicuramente, se guardiamo le diverse forme metriche che Morante usa, ma soprattutto se osserviamo la sua relazione con la strutturazione del discorso metrico, con l’architettura strofica e con la realizzazione che in essa viene data del discorso lirico, non possiamo fare a meno di concludere che l’intero impasto poetico morantiano tende al ritmo, intendendo questo concetto nei termini in cui lo definisce Henri Meschonnic (1982/2009).

Il ritmo morantiano, così come esso traspare da una metrica marcata da forti scarti fra la tendenza al verso ipermero, iperlungo, che nel Mondo tende quasi a trasformarsi in linea isolata di prosa ritmata (Giovannetti/Lavezzi 2010), forse sull’esempio della poesia nord-americana dalla Dickinson ai beatnik, e quella invece a concentrare immagini e momenti di passaggio fondamentali in forme ipercorte, talora in metri di non più di quattro, cinque sillabe, come accade in Alibi specialmente, ma esempi ce ne sono anche nel Mondo, rivela infatti un andamento tutto concentrato sulla voce interna, sul suono linguistico.

Morante non è un poeta della metrica perché non è un poeta del segno. La sua poesia non ricerca l’espressione della soggettività come costrutto teorico e semiotico, ma del soggetto puro in unità col suo linguaggio.

In questo senso la concezione, elaborata da Meschonnic (1982/2009), del ritmo come liberazione dal linguaggio della semiotica, dalla struttura delle reti concettuali, dalla sintassi in favore dell’espressione del soggetto che si pone nel mondo, affermando con un atto “politico” la sua vita, sembra essere particolarmente affine alla poesia morantiana.

In questa poesia infatti l’intento parodico ha anche una funzione di sganciamento da tutte le strutture linguistiche marcate dalla letteratura, così che il poeta diventa libero di costituire il suo proprio discorso.

Seguendo il ritmo, ascoltando il ritmo, scendendo cioè in quel luogo intimo e primordiale del linguaggio si apre finalmente una regione in cui è possibile parlare, anche se l’argomento del parlare dovesse essere il mondo inteso come causa stessa del male.

L’opposizione fra grâce e pesanteur marca l’aspetto forse più radicalmente rimbaudiano dell’opera poetica di Morante, che vive nella costante coscienza dell’impossibilità della poesia in questo mondo. Per risolvere quest’impossibilità Morante non vede altra via che non sia quella di parlare dell’irreale, come si fa esplicitamente nel Mondo ed implicitamente in Alibi. Parlare dell’rreale significa infatti eliminarlo, perché una volta che l’irrealtà sia indicata viene revocata in luce e restituita alla verità: costretta così a dire il suo nome, l’irrealtà inevitabilmente deve confessare di non essere.

Per ottenere questa confessione però c’è bisogno di ritmo, perché solo attraverso il ritmo si può realizzare quella sottomissione umile della lingua alla cosa che è il tratto essenziale della poesia morantiana.

Dal come al perché

Cosa esprime la poesia poesia ritmica di Morante? Certo non la cosalità del mondo; non si tratta di una poesia oggettuale. Morante è uno dei pochissimi poeti del Novecento italiano, forse l’unico, i cui versi siano privi di oggetti; né il lirismo di Alibi né lo scandito proclama del Mondo passano attraverso la simbolica dell’oggettualità.

Non è un caso: cosa e oggetto infatti suscitano la prima e più fondamentale di tutte le divisioni, quella che viviamo noi in quanto soggetto rispetto all’altro in quanto oggetto della nostra percezione. L’oggetto ha a che fare con la dialettica, con la distinzione io/altro, in realtà anzi l’oggetto è il segno proprio di quella distinzione, dunque una poesia che ancora riconoscesse l’oggetto, la cosa, si fermerebbe al come senza trasformarlo, come ci viene detto nella terza parte della Canzone degli F.P. e degli I.M., nel perché (Morante 1990).

Bisogna dunque, a rigore, trasformare quest’umile sottomissione della lingua alla cosa in umile sottomissione della poesia all’indifferenza fra soggetto ed oggetto, fra oggetto e mondo. I ragazzini, ed il più ragazzino di tutti i ragazzini, il poeta, salvano il mondo perché sono il mondo.

Quello che ancora tratteneva Alibi da un pieno sviluppo di tutta la potenzialità poetica di Morante era il lirismo della raccolta, perché nel lirismo resta inevitabilmente una traccia dell’opposizione di un soggetto che vive una sensazione rispetto ad un oggetto che la suscita. Questa riduzione del sentimento lirico al grado zero del lirismo è la base di Alibi, raccolta in cui si analizza lo struggimento di voler essere io, un altro rispetto al mondo, capace di amare il mondo come me stesso ma non perché me stesso.

Questo è il lirismo che ispira la prima parte della produzione morantiana, è il lirismo di Menzogna e sortilegio, de L’isola di Arturo, il lirismo che cerca ancora di salvarsi, dopo la plaquette del 1958, ne Lo scialle andaluso; ma è è anche il lirismo che viene congedato da Alibi.

Nella poesia dopo il lirismo, nella poesia che ha reso impossibile la lirica, e con essa ha fatto cadere anche tutti i possibili giochi con cui la lingua intende mantenere il distacco fra io e mondo, il ritmo è pienamente dispiegato, e il verso diventa mondo perché semplicemente non riconosce più alcuna differenza fra il poeta e l’altro.

In Morante non c’è misticismo perché la negazione della differenza fra io e mondo è anche una negazione della dialettica parte/tutto, e quindi dell’idea che fuori dal mondo ci sia qualcosa di più ampio, capace di contenere il mondo stesso; non a caso in testa alla croce dei felici pochi c’è il nome di Baruch Spinoza (Morante 1990). Dalla prospettiva del Mondo, non si può eliminare la differenza fra soggetto ed essere superiore, e trascendente, semplicemente perché non esiste alcuna differenza.

Invece di mistica, quindi, si dovrebbe, seguendo un’indicazione di Bataille (1973) piuttosto parlare di estasi. Se per estasi si intende l’assunzione di un mondo senza differenza, in cui non esiste la dimensione del negativo – ancora una volta, non a caso nella croce dei felici pochi c’è anche il nome di Platone (Morante 1990) – allora sì quella di Morante è un’estasi laica, universale e radicalmente volta a rendere impossibile qualunque discorso di subordinazione gerarchica, sia esso teologico, filosofico o politico.