La geometria ha i suoi sogni e la sua fame

da | Ott 27, 2015

Nikolaj Lobačevskij fu un matematico russo dell’Ottocento che dedicò i suoi studi alla geometria non euclidea – una geometria nella quale non valgono i cinque postulati di Euclide che, fin dalle elementari, ogni studente italiano studia a memoria: “se una retta taglia altre due rette determinando dallo stesso lato angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, prolungando indefinitamente le due rette, esse si incontreranno dalla parte dove la somma dei due angoli è minore di due angoli retti”, recita il quinto postulato euclideo, che Lobačevskij negò.

Non sono un matematico, cosa che invece è il poeta Galluccio, quindi non mi addentro ulteriormente in questo campo. Tuttavia, questo brevissimo paragrafo introduttivo credo che sia importante per comprendere la novità della poetica di Galluccio, la cui Misura dello zero (Einaudi, 2015) si apre proprio in nome di Lobačevskij:

la geometria ha i suoi sogni e la sua fame
la matematica di altri mondi germinata
nel recinto della meditazione umana
come quando Lobačevskij si mosse
verso un rigore visionario
e rifondò l’assioma di rette parallele
creò per noi orocicli e orosfere
dal confine finito e irraggiungibile

Le Misure della poesia di Galluccio seguono un principio geometrico: come Lobačevskij rifondò il sistema euclideo attraverso nuove teorie e modelli, così Galluccio procede nei confronti della parola poetica, la cui consistenza matematica mina la pluralità semantica della tradizione letteraria, quel «confine finito e irraggiungibile», e produce nuovi orizzonti epistemologici attraverso la dialettica tra linguaggio poetico e linguaggio scientifico.

Se prendiamo la seconda poesia della raccolta, la prospettiva visionaria del soggetto conoscente apparirà decisamente più chiara:

il vuoto sempre un enigma e un mito
abitante con orrore delle prime
domande infantili sull’universo
quando uscire dalla casa è pensiero
e l’oltre era segnato dall’incubo dell’abbandono

e quel vuoto sembrava proprio
lì fuori di casa in agguato
un agguato lontano e incombente
un allontanarsi da cieco
o muoversi senza ragione
abbandonando i punti cardinali

oggi sappiamo che il vuoto non esiste
ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche
ovunque perturbazioni di campo
che fanno apparire fotoni o materia
perché anche qui lo zero
è una funzione fantasma
un valore esatto che non si può raggiungere

tutta la notte è stanza
tutto il nostro discorso è andare a capo
fra poco arriva l’universo dei vivi

gesti di silenzio nella tristezza di ottobre
fango che prende le ossa
per essere stati così ampi adesso scontiamo

rientrare nella nostra narrazione
guardare quel verde sfrontatamente luminoso
l’accecante rivo sui ciottoli
il cieco rimbalzare dell’acqua

la narrazione procede sul tocco
delle nostre bocche semichiuse
volumi di situazioni da scartare
siamo una parentesi aperta di espiazione

ci assalgono luoghi innocui e comuni
quando tra gli intervalli
ne cogliamo la buona geografia
ne cerchiamo la densità le capitali
il perimetro di un possibile viaggio

Filosoficamente e scientificamente, il Novecento è stato il secolo del vuoto. Punto di arrivo di una ricca tradizione, il vuoto nel ‘secolo breve’ è stato oggetto di studi e fonte poetica di inestimabile valore, un «enigma e un mito» che da sempre accompagna la storia dell’uomo. Eppure, proprio quel vuoto, la cui inconsistenza materica e pesantezza esistenziale avevano gettato l’uomo in una condizione di ansia perpetua e di angoscia, oggi ha perso predicato di esistenza: «oggi sappiamo che il vuoto non esiste» (p. 6). In tre stanze, non solo Galluccio demitizza questo mito novecentesco, ma si confronta altresì con il nuovo mito del ventunesimo secolo, la meccanica quantistica (sebbene già nota nel ventesimo), la cui indeterminatezza diventa cifra della condizione dell’uomo. La risposta a questo ennesimo scacco risiede nello «zero», una «funzione fantasma» che non ha un «valore esatto»; in questo senso, lo studio di una funzione matematica diventa studio della realtà: il poeta si accinge a misurare attraverso i propri strumenti, linguistici ed epistemologici, un mondo indeterminato, che trova nell’esattezza di un valore irraggiungibile il proprio significato.

La misura dello zero si presenta fin dall’inizio come uno stato di ricerca, che, se spostato sul piano poetico, cioè di differente registro linguistico, può dare forma concreta allo zero. Come già in Verticali, libro d’esordio del poeta (Einaudi 2009), anche in questa seconda raccolta Galluccio fonde il mondo della poesia e il mondo della scienza, tentando di «comunicare tra i vivi» la «via fondante verso la chiarezza» (p. 9) in un mondo dove le fluttuazioni quantistiche, i bosoni, le forze deboli e forti hanno stravolto la curvatura del «tempo / e dello spazio» (p. 8): sebbene permanga una «strana nostalgia / di un ambiente pienamente euclideo», quell’«insofferenza di non potere muoverci / avanti e indietro come per gli spazi / quella baia di possibilità perdute» (p. 10), l’io è costretto a sottostare alle leggi fisiche del «sistema standard» e a vivere «nei tempi illuminati dall’incertezza» (p. 19).

Se nella prima sezione il poeta delinea l’uscita dai «tempi oscuri», quando «Newton poteva prevedere le orbite / di tutti i pianeti per un tempo indefinito», nella seconda, Sfondi, l’io disegna dei quadri di vita, dove la condizione dell’incertezza è esperita dagli uomini senza che questi abbiano una totale percezione della metamorfosi esistenziale che la meccanica quantistica ha provocato nelle loro vite: «le nostre ombre che non esistono / le nostre riflessioni separate / ritorna sopra immagini di ritorni / piccoli laghi il nostro sereno terribile» (p. 40).

Indeterminatezza e non-esistenza sono i poli attorno i quali ruota la ricerca dell’io. Gli sfondi diventano quadri sbiaditi, approssimazioni di una vita mancata, il cui sistema di riferimento «porta il soggetto» sull’«asse x» e il «verbo» su «quello discendente» (p. 49): l’esistenza diviene così uno studio di funzione, rappresentato attraverso un modello cartesiano a partire dal quale Galluccio sviluppa le proprie misure intorno allo zero. Tuttavia, non sarà l’io a procedere all’analisi, bensì i Matematici Pitagora, Evariste Galois e Kurt Gödel –, le cui parole, nei ritratti della terza sezione, diventano manifesto della poetica matematica dell’autore: «C’è il quadrato costruito sull’ipotenusa / e ci sono i quadrati costruiti sui cateti. / Generare collegamenti è la natura umana più alta. Dimostrare è possedere / una parte di mondo dopo averla osservata / condividere una regione del linguaggio. Frase genera frase e il buio si dirada» (p. 54). L’interpretazione della realtà deve passare necessariamente attraverso la costruzione, o meglio, una rivisitazione del linguaggio poetico che possa adattarsi alla nuova configurazione del mondo: «associare ad ogni proposizione un numero / questa è un passo ulteriore della specie / trattare una frase che dica qualcosa di se stessa / come un’elica che in sé si richiusa» (p. 58).

Transizioni, quarta stazione della silloge, segue l’orizzonte comunicativo di Gödel: «quando sei lontano segni tutte le ore / qui i soffitti si inarcano / per timore della luce qui hai portato la tua lingua sdentata». Il passaggio, linguistico ed esistenziale, dell’io da una condizione di fuga dell’io da quel vuoto che, come nella prima sezione, diventa metro e misura della condizione dell’uomo («e trovi il vuoto / i frantumi che si radunano», «e nella stanza più piccola / il vuoto», p. 63), è specchio delle riflessione dell’autore intorno ai frammenti di vita materica che si oppongono all’«immagine del mondo che svanisce / il significato delle pagine e della sabbia / e quello che i giornali ci dicevano dell’esistenza / ha un peso differente incerto» (p. 68).

Ancora una volta, questo claudicare tra le «infinità dei mondi» (p. 68) si sviluppa lungo un piano squisitamente linguistico: «il sistema di prospezione dell’interezza è sempre fatto di tesori e linguaggi» (p. 69), il cui segreto potrebbe svelare «lo spettro dei significati», quella «forma d’onda / che si attenua agli estremi / a volte l’altura è forte ma il messaggio arriva / effetto tunnel della mente»; «ci sono i malintesi», rimarca Galluccio, ma la ricerca dell’io non può e non deve esistere:

tutta la notte è stanza
tutto il nostro discorso è andare a capo
fra poco arriva l’universo dei vivi

gesti di silenzio nella tristezza di ottobre
fango che prende le ossa
per essere stati così ampi adesso scontiamo

rientrare nella nostra narrazione
guardare quel verde sfrontatamente luminoso
l’accecante rivo sui ciottoli
il cieco rimbalzare dell’acqua

la narrazione procede sul tocco
delle nostre bocche semichiuse
volumi di situazioni da scartare
siamo una parentesi aperta di espiazione

ci assalgono luoghi innocui e comuni
quando tra gli intervalli
ne cogliamo la buona geografia
ne cerchiamo la densità le capitali
il perimetro di un possibile viaggio

Nonostante tra la «connessione di eventi» (p. 83), tra la moltitudine di situazioni che il mondo, macro e microscopico, mostra agli uomini e che questi devono imparare a leggere e «scartare» (p. 82), si sia «creato un vuoto» (p. 83), la narrazione dell’io può suggerire «il perimetro di un possibile viaggio» (p. 82), dove il «passaggio tra sonno e veglia e sonno / ha risoluzione corpuscolare / il transito in una fascia di indefinito / per andare dall’altra parte / ridiscendere dopo il ponte su di un ruscello / e ritrovare la pista ciclabile / e una casa che si vede tra i campi / lungo la pista dove qualcuno aspetta» (p. 91).

La «geografia dell’esistenza» corpuscolare sottende un mondo che nasconde un principio di salvezza nella «penombra / di un qualche livello di cambiamento» (p. 95). Questo spazio, che il «cielo ha dissolto» e «invalidato», è quello delle Curvature. Nell’ultima sezione del libro, Galluccio descrive quei momenti dove la misura di un oggetto, nel nostro caso «gli uomini che entrano e portano ceri / che li conducono nell’ostacolo delle inferriate / nella foresta dei banchi e dei legni» (p.  99), si discosta dall’essere piatto, cioè dai piani dell’esistenza dove si cammina «in un dominio / che proviene dall’oscurità» (p. 99) e l’occhio «si piega», «inciampa», come il «piede che raccoglie le orme già offerte» (p. 100).

Alla difficoltà iniziale di misurare i confini della curvatura dell’esistenza – i livelli di soggettività dell’io e la sua capacità, cognitiva e gnoseologica, di mutare «l’attendere» in «esistere» e ridare significato all’attesa («non so più dirti quale sia lo scenario / che ti possa attendere / né cosa sia l’attesa», p. 100) –, segue l’epifania di un tu interlocutore, grazie al quale quello scenario che sembrava oramai perduto, simile al terrore e alla meraviglia del vuoto, potrebbe essere ricostruito: «si può ricostruire / il guardarti le labbra / dovremmo stare l’uno / nella voce dell’altro / senza le scorie / come dopo la forza /dell’avere taciuto» (p. 104).

Se la curvatura rappresenta questa deviazione rispetto a un piano dell’esistenza, il piano intersoggettivo, la correlazione tra io e tu, diventa cifra e misura di questa struttura geometrica: «qui dove si è sparsa la voce / ed è rimasta sul pavimento / i domani vanno ripresi e smontanti / il timore rinchiuso in due» (p. 107). La dimensione duale sembra essere l’unica risposta alla «forza attrattiva» del «vuoto», la cui presenza minaccia continuamente «l’innocenza di noi della scena» (p. 108); accanto ad essa, permane il potere veritativo della parola, i cui «strati multipli» e le «voci / che nell’emergenza cambiano torsioni» permette al soggetto conoscente di conquistare «nuove geometrie» (p. 111). Tuttavia, questa tensione orizzontale non sembra sufficiente a percorrere e riconoscere «per sicurezza i militi dello spazio: «nel procedere ampio la tua sagoma / prende sembianze di ghiaccio», statiche, dotate di una stabilità intrinsecamente labile, e i «pericoli vengono trasportati lungo le strade / per le grandi rotatorie / fino al nero dei canali» (p. 121), dove «il cielo declina» e la «gravità», misura del movimento dell’io e del tu, provoca «due diverse cadute nell’acqua terrestre». Ciò che permane in questa inconsistenza spaziale è la «capacità di riflettere nello spazio / la nostra albedo» (p. 122), una frazione di luce che viene riflessa in tutte le direzioni.

L’io, la poesia, la lingua e la misura dello zero di Galluccio sono ridotti allo statuto di un frammento, dotato di un potere riflettente di una superficie. La molteplicità del reale e l’infinitezza dei mondi possibili impediscono ogni tentativo di mappatura del reale. Al poeta non resta che affidarsi al dualismo onda-corpuscolo della luce, il cui moto perpetuo gli permetterà di attraversare le «viscere storia» del «mito» (p. 123), riflettendosi, come un albedo, nelle curvature dello spazio.

 

Immagine: Lev Kryukov, Ritratto di Nikolaj Lobačevskij (c. 1843).

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).