La fatica e la forza della poesia: l’esempio di Seamus Heaney

da | Ago 31, 2016

Esce in questi giorni il Meridiano delle poesie di Seamus Heaney (Mondadori, 2016). Proponiamo una nota inedita del curatore Marco Sonzogni sulla traduzione e una mini-antologia di dodici poesie da lui scelte, che ripercorrono l’opera di Heaney.

***

When I have fears that I may cease to
Before my pen has gleaned my teeming brain…
John Keats

Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I’ll dig with it.
Seamus Heaney

In mezzo secolo di scrittura il poeta nordirlandese Seamus Heaney (1939-2013) ha pubblicato dodici libri di poesie—the twelve lebours, le dodici fatiche, come li chiamava—tre volumi di saggi, numerose traduzioni (da quindici lingue diverse, tra cui l’italiano di Dante e Pascoli), interventi critici (recensioni, prefazioni, risvolti di copertina) nonché antologie e registrazioni delle sue poesie. La bibliografia critica continua a crescere, segno che siamo di fronte a uno dei poeti più importanti e influenti della storia della poesia mondiale.

Poesie (1966-2013)—che Heaney ha seguito con grande interesse e partecipazione—unisce per la prima volta, e senza soluzione di continuità, le due principali antologie d’autore: New Selected Poems 1966-1987 (1990) e New Selected Poems 1988-2013 (2014), pubblicata postuma e i cui contenuti sono il risultato delle conversazioni e dei lavori che hanno portato a questo volume. La morte del poeta ha così impartito al completamento del «Meridiano» una finalità e un significato ancora più assoluti che compensano almeno in parte quello che doveva essere un omaggio italiano in vita.

Ma per via di uno sguardo sempre aperto all’incontro e all’epifania; di un volto incline al saluto e al sorriso; e di una spontanea e inesaurile generosità, la presenza di Heaney è stata subito considerata non solo familiare in ogni angolo della terra ma anche immune agli attacchi del tempo, della malattia, e alla morte. È tuttora difficile rassegnarsi al fatto che non ci sia più e che non scriva più, anche se in tutte le poesie si può cogliere, accanto all’élan vital in tutto ciò che definisce la storia individuale e collettiva dell’uomo—la consapevolezza che tutto passa.

Come ideale introduzione a questa mini-antologia di dodici poesie—ciascuna a rappresentare, nella raccolta cui appartiene, la fatica e la forza della poesia; ciascuna stepping stone di un percorso poetico che gli ha portato tutti i maggiori riconoscimenti letterari, tra cui il Premio Nobel per la Letteratura (1995)—ho scelto la poesia con cui Heaney, pochi giorni prima di morire, aveva deciso di chiudere il Meridiano. La scelta di scavare il mondo scrivendo, annunciata all’inizio del primo libro—Digging/Scavare—è ribadita ancora alla fine, oltre dubbi e paure, e in hora mortis:                          

On the Gift of a Fountain Pen
Sul dono di una penna stilografica
Traduzione di Marco Sonzogni

SUL DONO DI UNA PENNA STILOGRAFICA

Ora che ho in mano la tua penna
e ho paura
che cessino le poesie,

che dire degli anni
di tutti gli altri doveri
imposti o intrapresi?

Tutto quel «Fa’ agli altri
ciò che vorresti fosse fatto a te»?
Un errore? Virtù?

Sì e no. Intingo e riempio
e ricomincio: dubbi
o non dubbi, lascia scorrere.

***

da Death of a Naturalist (Morte di un naturalista, 1966)
Personal Helicon, Traduzione di Marco Sonzogni

ELICONA PERSONALE
a Michael Longley

Da bambino non potevano tenermi lontano da pozzi
e vecchie pompe con argano e secchio.
Adoravo la discesa nel buio, il cielo intrappolato, gli olezzi
d’erbaccia acquatica, funghi e umido muschio.

Uno, in una mattonaia, aveva un’asse marcia sul colmo.
Gustavo l’intenso impatto quando un secchio
vi cadeva alla fine di una corda a piombo.
Così profondo che non vi si vedeva specchio.

Uno, sotto un muretto a secco, poco profondo,
fruttificava come un acquario. E se tiravi
lunghe radici dal pacciame sul fondo
un viso bianco vi aleggiava.

Altri avevano echi, restituivano i richiami
con una nuova nitida musica. E un altro
metteva paura perché laggiù, tra felci e digitali,
attraverso il mio riflesso schizzò un ratto.

Adesso, curiosare tra radici, tastare il limo,
contemplare, Narciso dai grandi occhi, qualche sorgente
va oltre ogni dignità di adulto. Rimo,
per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante.

***

da Door into the Dark (Una porta sul buio, 1969)
Bogland, Traduzione di Roberto Mussapi

TERRA DI TORBIERE
a T.P. Flanagan

Noi non abbiamo praterie
che dividono alla sera un grande sole,
ovunque l’occhio cede
alle intrusioni dell’orizzonte,

è attratto dentro l’occhio di ciclope
di un piccolo lago. La nostra terra non cintata
è una torbiera che continua a incrostarsi
tra gli sguardi del sole.

Hanno estratto lo scheletro
del Grande Alce Irlandese
da quella torba, e l’hanno messo in piedi
stupefacente gabbia piena d’aria.

Burro affondato
da più di cento anni
è stato ritrovato salato e bianco.
La terra stessa è buon burro nero

che si scioglie e si apre sotto i piedi,
da milioni di anni priva
di un disegno definitivo.
Non estrarranno mai carbone qui,

solo tronchi di grandi abeti
su ogni strato messo a nudo
tracce di antichi accampamenti.
Le torbiere potrebbero essere infiltrazioni atlantiche.

Il centro d’acqua non ha fondo.
fradici d’acqua, soffici come polpa.
I nostri pionieri continuano a scavare
sempre più addentro e sotto,

su ogni strato messo a nudo
tracce di antichi accampamenti.
Le torbiere potrebbero essere infiltrazioni atlantiche.
Il centro d’acqua non ha fondo.

***

da Wintering Out (Traversare l’inverno, 1972)
Bog Oak, Traduzione di Marco Sonzogni

QUERCIA DI TORBIERA

Trofeo di carrettiere
tagliata in travi,
una costola avvolta in ragnatele,
nera, stagionata a lungo

sotto la prima incannucciata del tetto.
Potrei indugiare
con i morti
baffuti, i riempitori di gerle,

oppure origliare
la loro saggezza senza speranza
mentre una soffiata di fumo
passa a fatica sopra la mezza porta

e una pioviggine
sfoca in lontananza
la carrareccia.
I suoi solchi che si ammollano

non riconducono a
“boschetti di querce”, a
tagliatori di vischio
nelle verdi radure.

Forse intravedo appena
Edmund Spenser,
che sogna il sole,
ossessionato

da geni che strisciano fuori
«da ogni angolo
dei boschi e delle valli»
verso il crescione e le carogne.

***

da North (Nord, 1975)
Bog Queen, Traduzione di Roberto Mussapi

REGINA DELLA TORBIERA

Giacevo in attesa
tra la parete di torba e il muro della tenuta,
tra superfici coperte d’erica
e pietra di dentatura vitrea.

Il mio corpo era scrittura braille
per le influenze striscianti;
soli aurorali brancolavano sulla mia testa
raffreddandosi ai miei piedi,

traverso le fibre e le pelli
le linfe dell’inverno
mi assimilarono,
le radici illetterate

ponderarono e morirono
nelle caverne
di stomaco e orbite.
Giacevo in attesa

sul fondo di ghiaia,
con il cervello che si oscurava,
vaso d’uova di pesce
che fermentava sotterranei

sogni di ambra del Baltico.
Bacche pestate sotto le unghie,
il tesoro vitale scemante
nel vaso pelvico.

La carie attaccò il mio diadema,
gemme preziose caddero
nella banchisa di torba
come le connessioni della storia.

La fascia in vita un nero ghiacciaio

raggrinzito, le stoffe tinte
e i ricami fenici
si maceravano sulle soffici

morene dei miei seni.
Conobbi il gelo invernale
come lo strofinio dei fiordi
alle mie cosce:

piumaggio fradicio, pesanti
fasce di pelli.
Il mio teschio ibernava
nel nido bagnato dei miei capelli.

Che saccheggiarono.
Fui rasata
e spogliata
dalla vanga di un tagliatore di torba

che mi coprì di nuovo
e ammucchiò con cura polvere di torba
tra gli stipiti di pietra
alla testa e ai piedi.

Finché lo corruppe la moglie di un pari.
La treccia dei miei capelli,
viscido cordone ombelicale
di torbiera, era stata recisa

e io sorsi dal buio,
ossa frante, cranio-ceramica,
punti sfilacciati, ciuffi,
piccoli sprazzi di luce sulla riva.

***

da Field Work (Lavoro sul campo, 1979)
Oysters, Traduzione di Marco Sonzogni

OSTRICHE

Acciottolio di gusci sui nostri piatti.
La mia lingua era un estuario in piena,
il palato era acceso di stelle.
Mentre assaggiavo le Pleiadi salate
Orione immerse il piede nell’acqua.

Vive e violate
giacevano sui loro letti di ghiaccio:
bivalvi: il bulbo spaccato
e il sospiro seduttore d’oceano.
A milioni strappate e sgusciate e disperse.

Eravamo arrivati sulla costa
attraverso fiori e rocce calcaree
ed eccoci l. a brindare all’amicizia,
apparecchiando un ricordo perfetto
nella frescura di un tetto di paglia e stoviglie caserecce.

Oltre le Alpi, ben imballate nel fieno e nella neve,
i romani trasportavano le ostriche fino a Roma:
ho visto umidi panieri riversare
l’eccesso del privilegio
lambito di fronde e pungente d’acqua salmastra

e ho provato rabbia per non poter riporre la mia fiducia
nella chiara luce, come poesia o libert.
che si protendono dal mare. Ho mangiato il giorno
con cura, affinch. il suo sapore salso
potesse animarmi tutto nel verbo, nel puro verbo.

***

da Station Island (Station Island, 1984)
The Underground, Traduzione di Gabriella Morisco e Anthony Oldcorn

METROPOLITANA

Eravamo là a correre per il tunnel a volta,
tu davanti col cappotto nuovo da viaggio affrettandoti
e io, dietro come un dio veloce cercando di raggiungerti
prima che ti trasformassi in un giunco

o in uno strano fiore bianco screziato di cremisi
mentre il cappotto sventolava selvaggio e i bottoni
uno dopo l’altro saltavan via lasciando una traccia
fra la Metropolitana e l’Albert Hall.

Luna di miele, indugi al chiar di luna, tardi per il concerto,
i nostri echi muoiono in quel corridoio e adesso
io scopro come fece Hänsel le pietruzze di luna
ripercorrendo il sentiero, raccogliendo i bottoni

per finire in una stazione illuminata e ventosa
coi treni ormai partiti, il binario bagnato
nudo e teso come me, attento solo a captare
i tuoi passi, e dannato se guardo indietro.

***

da The Haw Lantern (La lanterna di biancospino, 1987)
Alphabets, Traduzione di Francesca Romana Paci

ALFABETI

I
Un’ombra che suo padre fa a mani giunte
e con pollici e dita rosicchia sulla parete
come una testa di coniglio. Lui capisce
che capirà di più quando andrà a scuola.

Là disegna fumo col gesso tutta la prima settimana,
poi disegna il bastoncino a forca che chiamano Y.
Questo è scrivere. Collo e dorso di un cigno
fanno il 2 che ora lui sa vedere oltre che dire.

Due travi e una traversina sulla lavagna
sono la lettera che alcuni chiamano a e altri ei.
Ci sono cartelloni, ci sono frasi guida, c’è un modo
giusto di tenere la penna e un modo sbagliato.

Prima c’è da il “ricopiare” e poi c’è l’“inglese”
segnato giusto con una piccola zappa sbilenca.
Odore di calamai sale nel silenzio della classe.
Alla finestra un globo pende come un’O colorata.

II
Le declinazioni cantavano nell’aria come un hosanna
mentre, stratificate, colonne dopo colonne,
il Libro Primo degli Elementa Latina
in lui si elevava marmoreo e minaccioso.

Perché fu allevato poi a una più severa scuola
intitolata al santo patrono del bosco di querce
dove al cambio di lezione squillava una campana
e lui lasciò il foro latino per l’ombra

di una nuova calligrafia dove si sentiva a casa.
Erano alberi le lettere di quell’alfabeto.
Le maiuscole erano frutteti in pieno fiore,
le righe di scrittura come rotoli di rovo a confine dei campi.

Qui nella sua veste ornata di nastri e a piedi nudi,
tutta boccoli di assonanze e note boscherecce,
il sogno del poeta lo sfiorava furtiva come raggio di sole
e poi si dileguava nei tenebrosi intrichi.

E lui impara quest’altra scrittura. È lo scriba
che nel suo campo bianco guidava un giogo di penne.
Alla porta della sua cella saettano e sfiorano i merli.
Poi l’automortificazione, il digiuno, il puro freddo.

Con regole sempre più dure più avanzavano a nord
si piega sopra lo scrittoio e ricomincia.
La falce di Cristo è passata nel sottobosco.
La scrittura diventa nuda e merovingia.

III
Ruotato il globo. Lui è ritto dentro a una O di legno.
Allude a Shakespeare. Allude a Graves.
Il tempo ha raso al suolo la scuola e la finestra della scuola.
Macchine sfornano balle come stampe dove fasci di mannelli puntellati

disegnavano lambda sulle stoppie al tempo del raccolto
e la faccia a delta di ogni buca di patata
era spianata e coperta di terriccio contro il gelo.
Tutto è scomparso, con l’omega che faceva la guardia

sopra ogni porta, il ferro di cavallo della fortuna.
Eppure, il linguaggio in forma di note, assoluto nell’aria
come le lettere di Costantino in cielo IN HOC SIGNO
ancora ha signoria su di lui; o il negromante

che appendeva alla volta del soffitto di casa sua
una figura del mondo con i colori dentro
così che la figura dell’universo
e «non solo le singole cose» incontrasse il suo sguardo

quando usciva all’aperto. Come dalla finestrella
l’astronauta vede tutto quello donde è balzato,
quella sospesa, acquea, singolare O lucente
come un ovulo ingrandito e galleggiante –

o come i miei occhi preconsapevoli sgranati
ansiosamente fissi sull’intonacatore sulla scala
mentre pareggiava il timpano e scriveva il nostro nome
con la punta della cazzuola, una lettera strana dopo l’altra.

***

da Seeing Things (Vedere le cose, 1991)
from Squarings: Lightenings VIII (‘The annals say’), Traduzione di Gilberto Sacerdoti

SQUADRATURE: ILLUMINAZIONI VIII

Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise
eran tutti in preghiera in oratorio
su di loro, in aria, comparve una nave.

L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo
che s’impigliò nella balaustra dell’altare.
Quando il grosso scafo si fermò oscillando

un marinaio si calò giù per la corda
e cercò di liberarla. Invano.
«Quest’uomo non può sopportare la nostra vita

e annegherà» disse l’abate, «a meno
che non gli si dia aiuto.» Il che fu fatto,
la nave, libera, ripartì e l’uomo

risalì, uscendo dal meraviglioso
come l’aveva conosciuto lui.

***

da The Spirit Level (La livella e lo spirito, 1996)
St Kevin and the Blackbird, Traduzione di Roberto Mussapi

SAN KEVIN E LA MERLA

E poi san Kevin, e la merla.
Il santo è inginocchiato, le braccia allargate, dentro
la cella, ma la cella è stretta,

così un palmo levato esce dalla finestra,
rigido come una trave, quando una merla vi si posa,
depone le uova e comincia a covarle.

Kevin sente le uova calde, il piccolo petto, la testolina
nascosta, le zampette, e allora scoprendosi
maglia della rete della vita eterna

pietà lo muove: ora dovrà tenere la mano
come un ramo a sole e pioggia per settimane
finché i piccoli schiusi sapranno volare.

*

E visto che qui tutto è immaginazione,
immagina di essere Kevin. Come si sente?
Dimentico di sé o in perpetua agonia,

dal collo fino agli avambracci indolenziti?
Non più le dita? Sente ancora le ginocchia?
O il vuoto cieco del sottosuolo

si è insinuato in lui? Distanza, nella sua testa?
Solo e specchiato nel fiume fondo dell’amore,
«Opera e non chiedere premio» prega,

una preghiera tutta corporale
perché lui ha dimenticato se stesso, dimenticato l’uccello
e in riva al fiume ha dimenticato il nome del fiume.

***

da Electric Light (Luce elettrica, 2001)
Ballynahinch Lake, Traduzione da Luca Guerneri

IL LAGO DI BALLYNAHINCH

Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
LEOPARDI, Il sabato del villaggio

a Eamon Grennan

Così ci fermammo e parcheggiammo nella rinnovante luce [primaverile
del Connemara in una domenica mattina
mentre una luminosità accattivante reggeva e si apriva
e la montagna assoluta rispecchiata nel lago
entrava in noi come un cuneo spinto dolcemente a fondo
nel durame.
Non troppo lontano
ma abbastanza perché il chiasso non si sentisse,
una coppia di uccelli d’acqua zampettava su e giù
senza sosta. D’un tratto quel loro bianco flettersi
che avrebbe potuto essere eccitazione o spasmi di morte
si trasformò in decollo, curve e discese profonde e sicure
sopra l’acqua – non anime che sfiorano i tetti
traducendosi dentro e fuori la casa della vita
bensì sollevatori d’aria, molto più pesanti dell’aria.
Eppure qualcosa in noi si era liberato dall’ingombro
a quella vista, così quando lei si piegò
per girare la chiave la girò solo a metà
e parlò, per così dire, direttamente al parabrezza,
di profilo e pensierosa, con le braccia tese sul volante,
affermando che questa volta, sì, era stato veramente
utile fermarsi; poi corrucciò le sopracciglia da guidatrice
che tremarono un poco quando il motore si accese.

***

da District and Circle (District e Circle, 2006)
Planting the Alder, Traduzione di Luca Guerneri

PIANTARE L’ONTANO

Per la corteccia, argento opaco, avvolta,
collare di colomba.

Per le foglie guizzanti, sgocciolanti
tremolanti di pioggia.

Per il tozzo e il grumo dei primi coni verdi,
smeraldo fuso, clorofilla.

Per il rapido rotolare dei coni in inverno,
pelle a sonagli, friabilità di fossile.

Per il legno d’ontano, fiamma rossa se strappato
ramo da ramo.

Ma soprattutto per i riccioli dondolanti
degli amenti gialli,

piantalo, piantalo,
testa scarruffata nella pioggia.

***

da Human Chain (2010)
Miracle, Traduzione da Luca Guerneri

MIRACOLO

Non quello che prende su il letto e cammina
ma quelli che lo conoscono da sempre
e lo trasportano dentro –

le spalle intorpidite, il dolore e la curvatura radicati
nella schiena, le maniglie della barella
scivolose di sudore. E nessun rallentamento

sino a quando non è legato stretto, inclinato
e levato verso il tetto di tegole, poi abbassato per la [guarigione.
Sii consapevole di loro lì in attesa

che l’ustione delle corde filate si raffreddi,
che leggera ebbrezza e incredulità in loro
cessino, quelli che lo conoscevano da sempre.

Immagini: Monastero di Clonmacnoise, foto di Giovanna Iorio, 2016.

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).