La poesia oggi per Antonio Gamoneda

da | Ott 1, 2013

[Intervista ad Antonio Gamoneda (Oviedo, 1931), uno tra i più importanti poeti di lingua spagnola. A cura di Alberto Pellegatta.]

Gamoneda risponde solo alle lettere, non ama telefono e email. Questo dialogo è l’ultima parte di un lungo carteggio iniziato diversi anni fa.

Come considera lo stato della poesia contemporanea spagnola e in generale le sfide del poeta nell’Europa di oggi?

In Spagna bisogna riferirsi quanto meno a tre lingue, e distinguere diverse e contrapposte attitudini; una situazione complessa. Per dare informazioni sicure su tutto ciò bisogna menzionare i poeti. Lo farò in senso discendente e flessibile, per età, tra i novanta e i quarantacinque anni. Si inizia con una linea che, radicata nel simbolismo, attraversa le avanguardie, qui ritroviamo Álvarez Ortega e Caballero Bonald, quest’ultimo solamente in parte e considerando anche il suo romanzo (poesia narrativa, a mio giudizio) Agata occhio di gatto. Fuori da questa linea, ci sono gli scomparsi Claudio Rodríguez, gran poeta precoce, relazionabile chissà a Rilke, e Valente, magnifico nella sua poetica mistico-agnostica. I realisti, anch’essi scomparsi, contano Gil de Biedma, intelligente, ironico, promotore – di un marketing confesso- della cosiddetta “Genarazione del 50”, e Ángel González, che assume con frequenza l’espressione del “dolorido sentir”. Per logica espositiva, conviene dire qualcosa della posteriore “poesia dell’esperienza”, che si dichiara erede di tale supposta generazione, con poeti già sessantenni e più giovani. Sono rispettabili le loro proposte per quanto riguarda la società e la politica ma, a mio giudizio, risultano regressive, se non nulle, nel loro linguaggio “per tutti”. Luis García Montero e Carlos Mazal sono i rappresentanti di maggiore spicco. Ritornando all’età, con un lirismo vicino alla tradizione ma reso indipendente formalmente da questa, troviamo García Baena, Atencia, Brines o Rafael Guillén. Il peso storico e morale, la guerra civile e la repressione appaiono in Francisca Aguirre, Grande o Sahagún. In lingua gallega, sono importanti Méndez Ferrín e Álvarez Cáccamo, linguaggio “di rottura”, coscienza civica; Baixeras e Fernán Vello, lirici dal linguaggio pure avanzato; Pilar Pallarés, dolorosamente serena; Olga Novo, appena trentenne, ribelle, tenera, dura, imprevedibile. In catalano – e in castigliano – Gimferrer, settuagenario, ordina sapientemente sensualità e culturalismo. Ritorno al castigliano con due poeti ormai morti: Ullán, radicale nella sua ricerca dei limiti dell’espressione, inclassificabile, e Aníbal Nuñez, tormentato, sarcastico, che integra classicismi e avanguardie. Seguono, questi vivi e attivi, Colinas, quietamente cosmovisionario; Leopoldo María Panero, un “maledetto” impressionante nel suo lacerato discorso; Clara Janés e Olvido García Valdés, legate a un sentimentalismo – estetico e esistenziale, rispettivamente – dai modi gravi e concisi; Barja, che si esprime a partire da un lirismo che potremmo definire “filosofico”; Miguel Casado (critico notevole), descrittivo o narrativo in superficie, si risolve in conoscimento esistenziale; Ildefonso Rodríguez fa una poesia caratterizzata dalla tensione tra la realtà esterna e la soggettività; Tomás Sánchez Santiago sottoscrive la quotidianità, solo fino al punto in cui si dichiara non sottomesso e critico; in J.C. Mestre, la lirica soggiace a un linguaggio illimitatamente aperto, “insorgente” in relazione alla dialettica semantizzata dal potere; E. Moga si mostra diverso, vicino, a volte, al precedente; V. Valero, la cui parola, non esente da accenti elegiaci, oscilla tra il piacere e il dolore; E. Falcón tende a costruire un solo poema crescente che rende compatibile ermetismo e realismo, cristianesimo e marxismo.

In Spagna, la poesia contemporanea può contare su individualità notevoli e perfino molto notevoli (non più di dodici, includendo i morti); con un secondo livello di poeti interessanti (una ventina); e con un terzo, pure interessante (una decina di poeti, più o meno), che deve consolidare maggiormente questo carattere. Sotto i quarantacinque anni conosco circa cinque (ce ne possono essere altri) promesse, ma con un’opera ancora poco definita. La media qualitativa è più che accettabile, ma non altamente soddisfacente, salvando non più di cinque poeti, vivi o morti (i cosiddetti molto notevoli), che vanno situati, con grande evidenza, sopra questa media. Posso dire, anche se in maniera indecisa, che in Spagna sono quattro le modalità presenti: una il cui realismo si identifica con il linguaggio comune; un’altra con base pure realista, ma aperta a costruzioni lessicali avanzate; una terza deducibile forse dalle avanguardie attive nella prima parte del secolo scorso; e una quarta, molto diversa, caratterizzata dalla ricerca che, conservando tracce di qualcuna delle precedenti, incorpora un linguaggio preso dalle tecnologie e dai mezzi di comunicazione.

La sfida, per Spagna e Europa, sta nel raggiungere una poetica veramente soggettiva, con un valore storico in relazione al tempo tecnificato, sottomesso alla dittatura del denaro e, politicamente, a una democrazia falsificata.

Ci può raccontare qualcosa dei suoi maestri…

Devono essere stati molti e, insieme, nessuno: i dimenticati. Ma sì, devo dichiarare la maestria di un poeta minore, mio padre. Quando avevo cinque anni, e lui era già morto, ho imparato a leggere su un suo libro, che mi ha trasmesso una conoscenza, ovviamente elementare, del linguaggio poetico. In nulla ha influito invece la sua intonazione postmodernista. Pensandolo meglio, sono anche in debito con il Vecchio Testamento e con il simbolismo francese, in particolare con Rimbaud e Mallarmé.

Alcuni giovani poeti interessanti che lei consiglierebbe?

Sono giovani, ai miei occhi, Juan Carlos Mestre, che supera il mezzo secolo, e, a quarantacinque anni, Enrique Falcón. Ce ne saranno altri, ma non li ricordo. In gallego mi interessano Pilar Pallarés e Olga Novo.

La sua poesia è “immaginifica”, non è semplice cronaca o annotazione, è “incredibile e certa” come ha detto nel suo discorso al Premio Cervantes. Tempo fa ho avuto l’opportunità di leggere una sua intervista in cui parlò di Mario Benedetti. Molti non hanno capito le sue parole, vuole tornare a spiegare quel concetto?

Posso non essermi spiegato bene, non so. Ma sì che so che c’è stata la volontà di interpretarmi e trascrivermi malignamente. Ho detto che mi intristiva la sua scomparsa; che Benedetti era stato una persona nobile e commovente, e che questi valori trasparivano dalla sua poesia, ma che questa, legata a un realismo ornamentale, mi risultava aliena al pensiero poetico radicale. Qualcosa praticamente identico è successo dopo la morte di Ángel Gonzáles, grande personaggio che, non molto tempo prima, avevo pubblicamente omaggiato durante un corso a El Escorial. Mi hanno insultato. E continuano a farlo.

Quale considera il migliore libro per incominciare a leggere la sua opera e perché?

Può non essere il mio libro migliore, ma io proporrei Descrizione della menzogna. Dopo più di quindici anni senza pubblicare e scrivendo appena, è uscito nel 1977. Senza una riflessione previa, apparve in questo libro, dice la critica, il germe di tutta la mia poesia posteriore.

Che cosa pensa della poesia avanguardista degli ultimi decenni? Rileggendo futuristi e poeti degli anni ’60 si ha come la sensazione che l’avanguardia invecchi peggio della tradizione.

L’avanguardia vera, per me, è la tradizione che avanza. L’avanguardia non deve essere confusa con gli affanni della novità, frequentemente vacui. Ma credo che lei abbia ragione. Quanto al numero di adepti, almeno, la poesia tradizionale è più seguita. Certo bisogna distinguere il tono tradizionale aperto, dinamico, progressista, anche se non propriamente avanguardista, da altre modalità pedanti di tradizione; le incrostazioni del linguaggio dato, convenzionale, che è questo, quasi mai, negli ultimi cinquecento anni, è stato un linguaggio poetico. Queste modalità, a mio giudizio, sono aliene perfino alla tradizione reale (dico reale, non realista). Ma lei ha ragione; e ce l’ha, penso, in maniera più ampiamente temporale di quanto suggerisca. Dalla guerra civile fino a oggi, sebbene siano esistite individualità valorose, ciò che abitualmente intendiamo per “avanguardia” non appare con un valore di tendenza. Si succedono poesia neoclassica, sociale, tremendista, sperimentalismi occasionali, culturalismi e realismi (che io, con discutibile buona intenzione, chiamo solitamente minirealismi). Questo è tutto. Ho il sospetto (ragionevole, ma solo sospetto) che alcuni poeti, giovani e perfino molto giovani, incomodi con questo status, progrediscono, con puntamenti diversi, ma con analoga inquietudine rinnovatrice. Se qualcosa di importante succede, verrà dai giovani nei prossimi dieci anni.

Quali poeti italiani l’hanno interessata? Li ha letti in traduzione o in testo originale?

Posso leggere in francese e portoghese. Niente di più. Pesa in me la volontà di rimanere da solo con la mia lingua. D’altra parte, salvo raccomandazioni molto solventi, non leggo traduzioni di poesia. Detto meglio, sì che le leggo, ma solo in edizioni con testo a fronte, che può servirmi da dizionario rapido. In italiano ho così potuto leggere contemporanei come Pavese, Pasolini, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Luzi e altri. Mi bastano questi per rendermi conto della cornice poetica che, prescindendo da altri significanti e in analogia con la Spagna, ebbe il fascismo italiano. Mi sono sorpreso nel sapere del prologo di Mussolini a un libro di Ungaretti; immagino che Mussolini non fosse ancora il Mussolini tristemente storicizzato.  Tra i citati, confesso la mia grande devozione per Montale, sebbene tutti i nomi che ho fatto mi abbiano interessato. Naturalmente ho letto i grandi classici: Dante, Petrarca (in versione castigliana; magnifica quella di Dante, del contemporaneo spagnolo, ormai scomparso, ángel Crespo; quella di Petrarca era la non malamente “consonantizzata”, fatta nel XVI secolo da Enrique Garcés); Leopardi…  così impressionante, Leopardi.

Quale direzione, linea, percorso, devono seguire i poeti più giovani? Quale spazio sociale e culturale sarà loro concesso?

Una direzione imprecisa – per me, per lo meno. Qualcosa, impreciso anche quello, dirò nella penultima risposta, e non so aggiungere altro. Per quanto riguarda lo spazio sociale e culturale, penso che non sarà maggiore né migliore di adesso. La poesia, sebbene minoritariamente possa intensificare le coscienze, non ha una funzione sociale direttamente operativa. Spiacevole, ma è così.

Un amico pittore mi ripete che oggi l’artista deve lavorare nelle peggiori condizioni possibili – con allusione ai problemi della nostra società di consumo. Condivide questa opinione?

Sì, salvo per quegli artisti e scrittori (romanzieri, quasi sempre) che si trasformano in oggetto di consumo. In questi, il valore di mercato si sovrappone al valore della creazione.

Il pensiero è direttamente collegato al linguaggio, è così che la poesia contribuisce al progresso dell’uomo?

La poesia è, già l’ho detto, poco o per nulla operativa nell’ordine sociale. Ma il tempo la espande, penetra nella cultura generalista e, nonostante il freno che le impongono i poteri (il potere economico e il suo “sacrestano”, il potere politico), porta benefici alle capacità intellettuali e alla sensibilità. In questo senso, sì, è conduttrice di progresso, ma questo progresso non modificherà grandi cose nella realtà storica. Lo ha detto bene Sartre nel suo Orfeo nero: “La poesia è irrimediabilmente soggettiva; non può modificare le realtà oggettive”. Forse nell’antichità greco latina e nel Medioevo non è stato così, o non lo è stato completamente. Penso anche a César Vallejo, il grande poeta peruviano. Egli non aveva, per esempio, un pensiero terso, bensì teso, illogico, inquietante, e il suo linguaggio non era limpido in senso accademico; era un linguaggio non propriamente sporco, ma certamente alterato e perfino incorretto. In poesia si attiva un pensiero e un linguaggio altro, indipendente e, nel caso, contrario al linguaggio ufficialmente corretto: “chiuderò la mia pila battesimale, questa vetrina, / questo spavento con tette… unito con il cuore al mio scheletro” (Vallejo, ho aperto il libro a caso).

La lingua parlata è ancora materiale utile per il poeta o è diventata un idioma inautentico, posticcio e televisivo? La poesia ha bisogno di un linguaggio “differenziato”?

La lingua parlata, la lingua materna, con l’uso altro che il poeta può fare di lei, è l’unica capace di integrarsi nella creazione poetica. Nonostante e contrariamente al deterioramento che la (in)cultura tecnologica e mediatica, e i costumi selvaggi colloquiali le procurano. In quanto al linguaggio “differenziato”, sì, è necessario; con un orientamento liberatore.

Il linguaggio è l’elemento più importante della poesia? Qual è la sua idea sul linguaggio letterario attuale?

Bisogna distinguere il linguaggio meramente “letterario” dal linguaggio poetico. Di questo secondo credo di aver detto già qualcosa. Il linguaggio è, certamente, il supporto attivo più importante della poesia. In Spagna, forse in tutta Europa e in America, convivono realismi, ornamentali o meno, con timide avanguardie e con giovani e distinte manifestazioni di ricerca innovatrice. Esiste anche ciò che viene chiamata “antipoesia”. Ci sono grandi poeti isolati, ma non un’estesa grande attitudine, che con tratti principali comuni, potremmo chiamare storica.

Dopo la pubblicazione di “Canzone erronea”, ha lavorato a qualche nuovo libro? A qualche saggio?

Lavoro a quello che può essere il mio secondo libro di memorie e alla revisione e riscrittura (sempre lo faccio così) di un poema, Le vene comunali. In quanto al saggio, ho molto materiale e non potrò lavorarci prima di un anno, per lo meno.

Lei ha parlato di “condizione criticamente sovversiva del linguaggio” e di “insurrezione poetica”, in opposizione alla banalità del linguaggio del potere, e in allusione alla pluralità salvatrice della poesia (“La democrazia interpretata nella quale viviamo si identifica con un neoliberalismo fallace che segrega un pensiero programmaticamente debole. Questo è quotidianamente verificabile nell’appropriazione e nell’uso che il Potere fa delle tecnologie e degli strumenti d’informazione. Il potere globalizzante cerca – e sicuramente riuscirà – un annullamento o un’assimilazione globale del già minoritario pensiero critico, e pure del pensiero fanatico che si genera in riserve rette ancora da primitivi visionari. La “privazione del significato”  – è un concetto elaborato dal poeta spagnolo José Angel Valente – è, ogni giorno di più, l’arma pesante del potere. Diretta in particolar modo alle coscienze”. Da “Le funzioni ancora vive della poesia”). Può indicarci qualche esempio? Perché parole come acqua e legno possono diventare sediziose?

Sottoscrivo e ratifico quanto lei mi attribuisce (eccetto la parola “cripticamente”, che se qualche volta ho pronunciato, adesso mi risulta eccessiva) e tutto ciò che aggiunge per precisare i miei criteri. Il valore e il senso della poesia storicamente necessaria ricadono, certamente, sul linguaggio. Questa è un’opzione molto ben definita dal filosofo José Luis Pardo: “Il potere della parola per disfare i significati stabiliti è, senza dubbio, un potere sovversivo e libertario”. (Un potere “libertario” per gli effetti individuali, che però non basterà a quelli sociali). È molto chiaro che Pardo si riferisce alla creazione poetica. Lo conferma in un altro momento, riferendosi alla parola poetica “sovversiva”, dice che “parla di ciò che non esisteva”. Per quanto riguarda le parole concrete, per esempio quelle che propone lei, evidentemente il carattere sovversivo non sta nella parola isolata, ma nel significato, alieno alle accezioni previste dal dizionario o dall’uso, che le parole acquisiscono in relazione all’ambiente –al loro contesto- linguistico. Prendo un libro (La bicicletta del panettiere di Juan Carlos Mestre) e lo apro a caso: “Sono state fatte con il bel legno dei proverbi / Sono state contrattate dai microbi della disperazione”. È scaturita, sempre a caso, la parola “legno”. Anche voi, stimando o meno le proposte di Pardo, potete giocare.

I governi d’Europa stanno applicando le ricette economiche dei tagli… Che cosa ne pensa? Forse è anche questo un problema di linguaggio, di linguaggio ‘chiuso’…

Non vedo altro problema linguistico che non sia l’uso viziato che della lingua fanno i poteri, e la confusione intellettuale popolare che questo uso origina. Ciò che storicamente, socialmente e moralmente dovrebbero fare i governi è smettere di essere i lacchè del potere economico, qualcosa che difficilmente faranno se non si produce prima una caduta o indebolimento serio di questo. Bisogna scalzare il consumismo in tutte le sue direzioni, creando una praxis realizzatrice di ciò che io chiamo “cultura della povertà”, una praxis solidale, di tipo cooperativo, nella quale si faccia funzionare un mercato alternativo basato sullo scambio interno, tanto di beni e prodotti, come di servizi.

Nel suo ultimo libro c’è una luce frontale, un’incandescenza speciale, fisica, materica (c’è anche una meravigliosa ode d’amore al corpo) sebbene si raccomandi la “più sublime indifferenza” davanti alla “stanchezza senza direzione” dei “cuori abitati da formiche”. Ci parla di questo libro senza rigido progetto (“assenza di ordine”)?

Effettivamente, non c’è un progetto né un ordine. Il progetto non conviene alla condizione non saputa della poesia che viene. Non ho visto neppure, con necessità, la convenienza di un ordine. Non so se nelle future edizioni cambierò d’opinione. L’indifferenza è possibile che corrisponda a un’attitudine esistenziale slegata dalla mia vecchiaia.

La pratica dell’ipermetro, come in “Descrizione della menzogna”, che è un poema, risponde a qualche necessità di maggiore aderenza narrativa?

Forse, ma non lo so in maniera chiara. Non risponde, come dicevo, a un progetto. Il primo verso “mi apparve” dopo molti anni passati senza scrivere. Il resto derivò da quello per mera, e anche impensata, logica sensibile (il fluire ritmico della parola), in modo simile a come si produce la successione melodica di una composizione musicale.

(León, Settembre 2013)

Immagine: Ritratto fotografico di Antonio Gamoneda.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).