Gli strumenti umani di Vittorio Sereni

da | Ott 25, 2018

Esce per Il Saggiatore una nuova edizione di Gli strumenti umani di Vittorio Sereni con prefazione di Chiara Fenoglio. Pubblichiamo alcuni passi della prefazione e quattro poesie.

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Nel rileggere gli Strumenti umani ci si sente ancora oggi divisi tra due sensazioni contrastanti, già segnalate a suo tempo da Cesare Garboli: quella di essere «ospiti, assolutamente indiscreti» di questi versi, trovandoci tuttavia di fronte a un «discorso che ci riguarda strettamente da vicino», sospesi davanti «all’impossibile epifania di un segreto» che parla a nome di tutti (Garboli, 1968, p. 165). La concretezza, l’oggettivazione che spingeva Sereni a non inventare mai nulla («in genere io sono pignolo su questi dati», scrive a Fortini del 1975, e già nel 1937 in una lettera a Vigorelli ammette di essere un poeta centrato sulle “cose”, non sull’io) ha il suo doppio speculare nell’astrazione, nella riduzione del dato esplicito a favore di una declinazione a tratti gnomica, che consente al lettore di individuare nelle liriche di Sereni un’apertura alla dimensione universale, di riconoscere un comune spazio culturale o teorico. Gli elementi coinvolti nella rappresentazione poetica risultano in tal modo «sovradeterminati»: le cose, gli oggetti, diciamo il mondo, hanno un loro preciso statuto di realtà nella poesia di Sereni; eppure – lo ha notato Stefano Agosti – «figurano caricati di una connotazione insolita rispetto a quella abituale, in quanto sospesi in un’altra aura, che non è più quella della percezione ordinaria cui è affidata la registrazione della realtà» (2014, p. 19).

In questa doppia dimensione, la realtà (Voldomino, Zenna, una vetrina o una vecchia pianta) senza perdere nulla della sua determinazione e della sua riconoscibilità geografica, restituisce un’immagine di sé più ricca, carica di tonalità che sconfinano nei territori onirici (e sappiamo quanto il sogno sia un locus fondamentale della poesia di Sereni). Un generale effetto di perplessità proietta sui versi di Sereni una atmosfera di attesa, già allusa dall’autore in una prosa del 1947, dove il poeta veniva descritto come

un credente che aspetti i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta (Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, p. 30).

Nello stesso testo, dando seguito alla metafora luterana, Sereni scriveva che la poesia è «giustificazione» del proprio «passaggio nel mondo», ma questo transito più che configurarsi come serie di atti volontaristici, imprese o progetti, è attesa di un segno, di un «dì che vola / a gente che di là forse l’aspetta», quindi di una possibilità di salvezza che giungerà imprevista e imprevedibile, come nella petrarchesca Canzone 50. D’altro canto, proprio all’insegna di un’inquieta apprensione, tra «la noia e ’l mal de la passata via» (v. 11), si apre la raccolta del 1965: «E qui t’aspetto» (Esperienza della poesia, p. 30 e Via Scarlatti, v. 17).

Che cosa significa, per un poeta come Sereni, operare a dispetto di una sostanziale, per quanto inconfessabile, sfiducia nelle opere stesse? In buona parte, significa depotenziare il valore della letteratura come a-priori o come assoluto, e sostituirvi l’idea che essa sia, più che un valore in atto, un valore in potenza, una energia in continua tensione con la nostra esistenza, da cui la poesia scaturisce incessantemente, come le sorgenti della Sorgue a Fontaine de Vaucluse (Sereni, 1968a, p. 37). In questo campo di forze in vibrazione continua agiscono le manifestazioni concrete della realtà, che rendono la poesia sereniana profondamente eteronoma, impegnata nel tentativo «di fronteggiare l’esistenza, di darne una ragione» a dispetto della precarietà dei mezzi a disposizione: scrivere cioè «come vacuità», ma anche come «forma di vitalità» (Sereni, 1980, p. 40).

Dunque che cosa sono gli Strumenti umani se non, propriamente, gli attrezzi grazie ai quali – per mezzo dei quali – il poeta fronteggia l’esistente, lo comprende e gli offre una collocazione di senso? Attraverso cui, ancora, egli opera nel mondo (spiando i segni della propria predestinazione) e offre una «giustificazione» del proprio transito? In una lettera a Gabriella Palli Baroni del dicembre 1978, Sereni stesso dichiarava che gli strumenti «sono i mezzi, gli espedienti […] precari o insufficienti, con cui noi – uomini, umanità – intratteniamo il rapporto col reale, storia inclusa» (Palli Baroni, 1987, p. 115). Proprio nell’anno di pubblicazione del suo terzo libro, nella prefazione alle Ricerche sull’amor famigliare di Banfi, Sereni richiamava la necessità di individuare degli «strumenti» in grado di offrire di volta in volta «appigli sul flusso dell’esistenza» (Ferretti, 1999, p. 137). Il livello di consapevolezza, di compattezza e di coerenza interna di questa raccolta è altissimo, reso più evidente da quelle «combinazioni variabili di poche invarianti tematiche fondamentali» descritte da Mengaldo già nel 1972 (ora in 2013, p. 142). La divisione in cinque sezioni non è solo il risultato del policentrismo che caratterizza il libro (Borio, 2010, p. 380): essa corrisponde più in profondità all’individuazione di cinque precisi strumenti di giustificazione, di conoscenza di sé in rapporto al mondo, dunque di azione in quel campo di tensione che si forma tra la poesia e la realtà.

Lo sguardo

La prima sezione – Uno sguardo di rimando – si apre su una prospettiva urbana (quella della milanese Via Scarlatti) e fin dai primi versi si immerge nel passato per poi tornare al presente, nella consapevolezza che la memoria è diventata impossibile perché invasa dal buio, fatta cenere e fumo: «Oltre anche più s’abbuia, / è cenere e fumo la via. / Ma i volti i volti non so dire: / ombra più ombra di fatica e d’ira». Lo sguardo rammemorante fallisce il bersaglio, ma conserva pur sempre una valenza positiva di apertura (dunque di incontro: «Con non altri che te / è il colloquio»), di ponte che mette in relazione io e mondo anche quando segnala una mancata corrispondenza, una lacuna (Un ritorno), un enigma, forse un tradimento (Nella neve). Il linguaggio, in questa prima parte, è apertamente petrarchesco, ma di un Petrarca mediato dai Mottetti montaliani e da René Char: il Petrarca più caro a Sereni è, per sua stessa ammissione, quello «che si iscrive sotto il segno delle rime in morte di Laura», dunque proprio quello ove «il paesaggio amato e rivisitato irrevocabilmente illividisce, incenerisce, si svuota» (1996, p. 132), come avviene in Via Scarlatti. La petrarchesca Vaucluse «conserva la vivezza delle cose emblematizzate» (ivi, p. 143), anche quando il poeta ne piange la consunzione e la fine, ma, a differenza della procedura tipica adottata nei Rerum vulgarium fragmenta, Sereni inverte la prospettiva, corregge il punto di vista e pone al centro della sua indagine poetica non tanto il soggetto lirico che guarda, quanto piuttosto le cose osservate, il loro costituirsi in forma di mondo. Se in Petrarca lo sguardo era «gettato in continuità seguendo gli spostamenti minimi di una lente precisa» (ivi, p. 145), negli Strumenti umani l’occhio è fisso, è piuttosto il mondo a muoversi: «sotto i miei occhi portata dalla corsa / la costa va formandosi» (Ancora sulla strada di Zenna, vv. 7-8). Le cose si organizzano in una «opaca trafila» fino a che non interviene uno sguardo umano (ecco il primo strumento) a illuminarle. Nel racconto Davvero quell’odore del pesce, l’osservatore è immobile, «e le opere gli sfilano davanti» come «barche di una regata», come paesaggi osservati da un treno in corsa che, proprio perché in movimento (in «eccitazione»), svelano il loro «senso vero» (Sereni, 1998, p. 281). E non andrà escluso che qui operi sottotraccia anche la riflessione fenomenologica mediata dal magistero di Antonio Banfi, l’idea cioè che la nostra conoscenza del mondo derivi dal nostro coinvolgimento nel mondo: lo spazio non è, cartesianamente, un reticolo di relazioni tra gli oggetti, ma va considerato a partire dal soggetto che vi è inglobato e che lo vivifica per «animazione interna», per «irraggiarsi del visibile» (Merleau-Ponty, 1989, p. 50). Gli oggetti in effetti sono povere cose (carrucole, teleferiche: prese in sé e per sé sono «minimi atti» avvinti alla catena della necessità, sono il segno tangibile che «nulla nulla è veramente mutato»), prive di quel riconoscimento che può giungere solo dalla memoria (letteraria, nel caso della montaliana carrucola e della teleferica di Bertolucci) o dall’occhio individuale. Se l’io non li riconosce, gli oggetti sono sterili: è dunque solo l’io con un certo «feticismo dello sguardo» (Sereni, 1998, p. 164) a poter produrre cambiamento, pur nella sua generale fissità (emblematica a questo proposito sarà l’omonima poesia di Stella variabile).

In effetti, tutto il libro è fondato sul moto, sull’immagine del viaggio, sui passaggi e sulle situazioni dinamiche in genere: già Mengaldo aveva individuato la contraddizione «fra attrazione per l’immutabilità delle cose, disperazione per “ciò che muta” e desiderio di liberazione e mutamento» (2013, p. 137) in una dinamica che contrappone l’esistenza bloccata al movimento, il premoderno al moderno (Mazzoni, 2002, pp. 153-154 e Pellini, 2006, pp. 130-132). Ma se si rammenta il motto settecentesco – e sterniano in specie – secondo cui allo slancio corrisponde la gioia («tanto moto, tanta vita e tanta gioia» è la sentenza sottesa alle avventure di Tristram Shandy), si intuisce perché la gioia della creazione poetica sia uno dei temi portanti di questo libro, al punto che Gli Strumenti umani può essere letto come un vero e proprio libro metapoetico sul costituirsi del dialogo e del pensiero in forma di poesia. Questo non significa mettere in forse la lettura, ampiamente accolta dalla critica e certificata dallo stesso autore, secondo la quale la poesia di Sereni nascerebbe dal tentativo di risarcimento di una ferita non rimarginata, di una lacuna che è percepita in forma di colpa, di “febbre del reticolato”: ma, come vedremo, questo libro non si esaurisce nella sola lettura psicologica (che Fortini per altro riconosceva e condannava a un tempo).

Fin da Ancora sulla strada di Zenna, il dato psicologico (il ritorno ai luoghi luinesi che tanta parte hanno nella poesia di Vittorio Sereni) non fornisce un’impalcatura sufficiente: questa poesia è in effetti un singolare e dissimulato manifesto poetico, in cui naturalezza e riflessione, tradizione e nuovo paesaggio giungono ad armonico incontro. L’uomo che percorre in auto la strada verso Zenna e ne osserva la costa «immutata / da sempre» che «alla prossima svolta, forse, finirà» è immagine fortemente evocativa di un rapporto con la tradizione per altro dichiarato qualche verso dopo, quando dall’opacità del reale emergono

la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli… (vv. 15-20).

Confrontarsi con la tradizione significa dunque aver ben presente che «nulla è veramente mutato» e insieme che la propria voce, il proprio «rumore / s’imputa un attimo e poi si sfrena», è già per scomparire: su tutto domina la corsa, il «privilegio / del moto», la costrizione al mutamento, poiché solo nella metamorfosi è possibile l’invenzione di un luogo. Per altro la presenza stessa del vento, che con il suo movimento sommuove la percezione del paesaggio e delle piante («quel repentino vento che la turba» e più oltre ««le turbate piante / evocate per poco nella spirale del vento»), allude alla tradizione stessa, come non mancava di rilevare lo stesso Zanzotto, fin dalla VI egloga virgiliana, il cui finale evoca i canti apollinei di cui risuonano le selve, tanto che le valli ne mandano l’eco alle stelle:

credo che ci sia una infinita intertestualità che viene da chissà dove e forse dalla più antica forma ominide e che si protrae fino all’oggi su un’onda di elementi fonico-ritmici, una specie di eterno sussurro della foresta letteraria, vero fondamento anche di una storia letteraria (Zanzotto, 2001, p. 437).

Virgilio, in particolare il Virgilio dell’Eneide, è molto presente anche in Sereni: per lui l’opzione in favore della tradizione si declina prima di tutto come via alternativa allo sperimentalismo e come affermazione di una poesia non ideologica (gli anni di composizione degli Strumenti umani sono i medesimi del successo delle neoavanguardie e del Gruppo 63). Dietro i suoi versi non c’è mai una verità poetica da affermare: piuttosto ci sono «dei conti da saldare con l’esperienza» (Isella, 1991, p. 34 e Ferretti, 1999, p. 131). Ecco dunque emergere una lunga serie di oggetti poetici più o meno tradizionali: il telefono (Comunicazione interrotta), lo zampettìo delle galline (Nella neve), le lampare e uno sbrecciato cappello di paglia (Gli squali) sono frammenti di «una storia che non ebbe un seguito» e che pertanto necessitano di un «lettore idoneo» in possesso di quei «dati sentimentali comuni» che gli consentano di stabilire un «rapporto fiduciario» con il mondo artistico e il suo movimento nel tempo – cioè di riconoscere sentimentalmente e spiritualmente quanto del passato torna non mutato nel presente (Sereni, 1973, p. 119 e 1998, p. 148). Ma come abbiamo visto il tradizionale rapporto tra l’oggetto e l’atto percettivo è rovesciato: sono le cose che vengono portate all’io per mezzo di un’onda luminosa (Viaggio all’alba) o di un refolo di vento (Le ceneri); analogamente non è la parola a dare consistenza alla cosa, piuttosto «è lei, la cosa, a determinarlo, a imporci la sua presenza a prima vista insondabile […] fino a un ribaltamento dell’effusione romantica» (Sereni, 1998, pp. 119-120).

[…]

Il tempo

La terza sezione, Appuntamento a ora insolita, è dominata fin dal titolo dalla dimensione temporale, intesa in senso cronologico, stagionale, ma anche meteorologico. La poesia nasce in precise congiunture che si presentano come “appuntamenti”, decisi da altri, a cui il poeta assiste più che parteciparvi. L’alba è uno di questi momenti topici, capaci di dar vita a dialoghi immaginari o improvvise illuminazioni. La sospensione del tempo (come in Quasi una fantasia o ne L’upupa montaliane) autorizza l’emersione di una «esistenza latente» (Il sabato tedesco, p. 204) nella quale si manifesta o sembra manifestarsi per speculum et in aenigmate un destino, sotto forma di una fugace apparizione:

………………………………È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza. (Appuntamento a ora insolita, vv. 28-33)

L’ultimo verso riconduce in modo esplicito al sonetto proemiale di Petrarca, ma il topos del sogno, e soprattutto del sogno mattutino, ha precise ascendenze dantesche: Dante infatti sogna nel canto IX del Purgatorio, quando «Nell’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso alla mattina, / […] / in sogno mi parea veder sospesa / un’aguglia nel ciel con penne d’oro» (vv. 13-20); e nel canto XXVII, ancora della seconda cantica, «Nell’ora, credo, che dell’oriente / prima raggiò nel mondo Citerea/ che di foco d’amor par sempre ardente, / giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andar per una landa» (vv. 94-98). Ma il medesimo topos ritorna anche nell’Inferno, all’inizio del canto XXVI e nel XXXIII del Paradiso (Sandrini, 2008, p. 336).

Proprio come avveniva nella Commedia, il sogno racchiude una rivelazione, è più momento di verità che non metafora della vita, della sua inconsistenza o brevità. Nelle visioni oniriche sereniane tuttavia manca la catabasi, l’incontro avviene sempre a mezza via, in un luogo intermedio (tra veglia e sonno, tra qui e altrove, lungo una strada o su un ponte) che, da Frontiera a Stella variabile, è «il luogo per eccellenza della poesia sereniana» (Mengaldo, 2013, p. 13). Ciò di cui non si può parlare esplicitamente (la morte, il suicidio, l’amore, la bellezza…) viene traslato in questo luogo-non luogo e attribuito alla voce di maschere il cui statuto di esistenza è ambiguo, ma che proprio dalla loro ambiguità traggono quel potere, tipico della poesia di Sereni, di illuminare il mondo emettendo segnali non immediatamente riconoscibili. In effetti, come scrive Sereni in Situazione, la sua poesia è composta «sul rovescio del luogo comune», dove le campane le rondini e il tramonto, topoi poetici tra i più persistenti, assumono valore diverso, sono natura e il suo contrario.

Ma la dimensione temporale è anche stagione, attesa della primavera dopo l’inverno, come segnala la poesia d’apertura della sezione: sia il passaggio che l’inquieta speranza sono termini chiave di questo libro, che ci riconducono a quelle tonalità purgatoriali che sono state oggetto di importanti interventi critici. Se l’interrogativo fondamentale della sezione riguarda il destino della poesia nel tempo, e se il tempo è prevalentemente quello della esitazione e dell’indugio, diventa via via più comprensibile la posizione ambigua, interlocutoria assunta dall’io lirico in gran parte di questa sezione: in un tunnel (La sonnambula), nei pressi di un ponte (Il grande amico), addormentato o in preda a una sorta di allucinazione (Un incubo, Di passaggio, Appuntamento a ora insolita). Si tratta per lo più di situazioni liminali, dove la percezione dello scorrere del tempo è abolita o quanto meno alterata: «la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false piste / l’emorragia dei giorni» (Quei bambini che giocano) ci mettono di fronte a una dissipazione del tempo – unico bene a nostra disposizione – che è deviazione del corso della vita, “scialo di triti fatti” secondo Montale, «melma nera» di chi rinunciando sceglie il compromesso o peggio ancora la menzogna, e così facendo pecca contro l’amore, oltre che contro il tempo. Che cosa può redimere questa offesa? Apparentemente nulla, certamente non la parola poetica; forse soltanto il tempo stesso, con il suo trascorrere, dunque con il suo farsi oblio: «un giorno perdoneranno / se presto ci togliamo di mezzo». Si tratta dunque di una redenzione a metà, fondata su un principio di dissipazione che a sua volta non ammette alcun riscatto.

Infine, il tempo è peculiare condizione meteorologica, connessa, specie nella quarta sezione, alla nebbia. Montalianamente la nebbia è ciò che abolisce, termine isotopo delle ceneri (la nebbia cancella, le ceneri sono il residuo di quella cancellazione); ma è anche separazione, ostacolo che si frappone tra presente e passato: l’io lirico di questa sezione e del libro è spesso immerso nella nebbia e, come Dante nel Purgatorio, costretto a guardare il mondo «non altrimenti che per pelle talpe» (XVII, vv. 1-3). Anche in questo caso il riferimento dantesco può illuminare alcune delle intenzioni più profonde del poetare di Sereni: il canto XVII è di fondamentale importanza non solo perché contiene l’ordinamento morale del Purgatorio, ma anche perché è dedicato agli accidiosi, a coloro che hanno navigato nel mare della vita con «mal tardato remo» (XVII, v. 87) e che hanno dunque commesso un peccato d’amore «per poco di vigore» (v. 96), perseguendo l’«amor del bene, scemo/ del suo dover» (vv. 85-86). Il senso di colpa, l’indolenza, il cedimento della volontà, la tristitia che secondo Tommaso d’Aquino era la prima caratteristica dell’acedia, tramano ampiamente Gli strumenti umani dove il peccato d’accidia assume la forma storica del senso di colpa per la mancata partecipazione alle imprese della resistenza, del silenzio, della «fitta di rimorso», dell’«ammanco» nel cuore (Intervista a un suicida). Nel racconto Le sabbie d’Algeria, pubblicato per la prima volta nel 1972, Sereni descrive la condizione dei prigionieri esattamente in questi termini:

La collettività in cui ero rimasto e dalla quale tendevo a non distaccarmi, può essere presa come campione di quella totale passività verso l’esterno, di quello stato di attesa che meglio caratterizza l’inerzia, la rassegnazione o, se si preferisce, l’apparente neghittosità della prigionia allo stato puro […]. Il mio finiva col diventare un campo di meditabondi, in pratica un campo-deposito, una riserva limbale o purgatoriale(Sereni, 1998, p. 254, corsivi miei).

Chiara Fenoglio

***

Via Scarlatti

Con non altri che te
è il colloquio.

Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutta case, la via;
ma l’apre d’un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s’abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d’ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l’improvviso sgolarsi d’un duetto
d’opera a un accorso campanello.

E qui t’aspetto.

Ancora sulla strada di Zenna

Perché quelle piante turbate m’inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
A ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un’estate,
l’estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse, finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore…
Ma l’opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite che all’occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano…
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s’impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.

Le ceneri

Che aspetto io qui girandomi per casa,
che s’alzi un qualche vento
di novità a muovermi la penna
e m’apra a una speranza?

Nasce invece una pena senza pianto
Né oggetto, che una luce
Per sé di verità da sé presume
– e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno.

Che spero io più smarrito tra le cose.
Troppe ceneri sparge intorno a sé la noia,
la gioia quando c’è basta a sé sola.

Di passaggio

Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.
Una luce mai vista.
Fiori che in agosto nemmeno te li sogni.
Sangue a chiazze sui prati,
non ancora oleandri dalla parte del mare.
Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.
Ventilata domenica tirrena.
Sono già morto e qui torno?
O sono il solo vivo nella vivida e ferma
nullità del ricordo?

Sopra un’immagine sepolcrale

Il sorriso balordo che mi fermò tra le lapidi
e le croci, nella piccola selva
dei morti innocenti, delle vite
appena accese e spente nel candore
era la stessa mia stupefazione
che avesse in tanti anni fatto così poca strada.

O dormiente, che cose è sonno?
…………………………………………………Il sonno…

E qui egli sta tra i pargoli innocenti
stupefatto nel marmo
come se un Tu dovesse veramente
ritornare
a liberare i vivi e i morti.
E quante lagrime e seme vanamente sparso.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).